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Autore: Yoko Hogawa    15/01/2012    12 recensioni
Si fermò, per un istante, davanti alla porta. Dal piano sottostante arrivava il pianto disperato della padrona di casa, insieme alla voce sommessa piena di spiegazioni di Mycroft – quando era arrivato? Non se ne era minimamente accorto... – ma Sherlock era sordo, sordo in un modo che non gli permetteva di sentire nient’altro che voci perdute, parole pronunciate nel tempo ed assorbite dalle mura di quella casa – e lì rimaste intrappolate.
C'era un castello di carte sul ripiano della cucina, fra la macchinetta del caffè e gli utensili a muro.
[Death!Fic][Sherlock/John]
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Lestrade , Mycroft Holmes , Sherlock Holmes , Sig.ra Hudson
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Capisci che prende davvero male quando ti metti ad ascoltare gli Zero Assoluto.

Comunque, date la colpa alla noia che mi assale. E ai castelli di carte che costruisco per farmela passare.

Desclaimer: il dottor Watson e il caro Holmes, così come tutti gli altri personaggi che verranno citati, non sono (purtroppo) di mia proprietà ma sono gli adorati pargoli di Sir Arthur Conan Doyle e i nipoti dei signori Gatiss e Moffat – anime sante che mettono slash everywhere. Io mi diverto a fargli passare le pene dell’inferno perché mi rilassa (?!).

Avvertenze: nonostante “A Scandal in Belgravia” già specifica cos’è successo in quella benedetta piscina con quella benedetta bomba, avverto che questa è (oramai) una what if” successiva a “The Great Game” (episodio 1x03). Non è spoiler della 2x01, per chi non l’avesse ancora vista ;D

 

Detto ciò, buona lettura a tutti coloro che vorranno

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Castelli di Carte

 

 

Cercavo di spegnere un’immagine, ma quella invece non mi abbandonava,

né mi avrebbe abbandonato, così è quel che ricordo di lui, per sempre.

Eravamo nello stesso amore, in quel momento – non abbiamo fatto altro, per anni.

Così siamo morti insieme – e fino a quando non morirò, insieme vivremo.

[ Alessandro Baricco; Emmaus ]

 

 

 

C’era un castello di carte sul ripiano della cucina, fra la macchinetta del caffè e gli utensili a muro.

Non c’era pericolo che cadesse, o che crollasse, perché loro la cucina non la usavano, non la usavano praticamente mai. Mangiavano sempre cinese da asporto, o i manicaretti della signora Hudson. Non bevevano nemmeno caffè, perché loro erano inglesi, e gli inglesi si fanno bastare il tè.

Rappresentava un traguardo, una vittoria, un punto di svolta. Un limite pericoloso che entrambi non vedevano l’ora di valicare saltandolo a piedi uniti.

C’era un castello di carte sul ripiano della cucina e quel castello di carte era stata un’idea sua.

L’idea di una mattina. Ricordava tutto, di quella mattina.

Il modo in cui Sherlock sorseggiava il tè guardandolo di sottecchi, senza aver nemmeno toccato le uova strapazzate condite sicuramente con troppo sale. Così come ricordava il suo stomaco totalmente chiuso, l’imbarazzo pressante contro la cassa toracica, e il modo in cui fissava l’unica fetta di bacon nel proprio piatto rigirandola con la forchetta.

Il silenzio teso e traballante che aveva seguito quelle parole.

 

« Sherlock? »

« John. »

« Devo... dirti una cosa. »

« ...anche io ho qualcosa da dirti. »

 

Ricordava anche cos’era avvenuto prima, di quella mattina.

Col tempo, lentamente, ma come se fosse la cosa più naturale del mondo. La conoscenza, la sopportazione (praticamente tutta sua), l’amicizia... poi quel qualcosa in più.

Quel qualcosa che giustificava la gelosia, o la nostalgia. Quella piccola parte d’anima che se ne andava tutti i giorni attaccata al cappotto di Sherlock e che tornava al suo posto solamente quando, dopo un’altra giornata in clinica, tornava a casa e si sedevano in salotto, con lui, così. A parlare, o a leggere, o a guardare la tv spazzatura contro cui Sherlock tanto si accaniva.

Entrambi avevano infine dato un nome a quel sentimento. Entrambi avevano oltrepassato, a loro modo, in privato l’uno dall’altro, in un silenzio un po’ imbarazzante e complicato, tutte le regole sociali e le imposizioni strutturate dell’educazione ricevuta sin da piccoli.

Entrambi avevano ammesso ciò che molti altri avevano già capito.

E da lì sospiri, sorrisi, sguardi. Sherlock che si abbassava dietro di lui per leggere cosa scrivesse sul blog e, fingendo che fosse per puro caso, gli sfiorava la gota con la punta del naso. Lui che, alzandosi alle tre del mattino dopo sogni poco piacevoli, appoggiava sorridendo una coperta su di un coinquilino addormentatosi sul divano con il violino in grembo e l’archetto ancora fra le dita.

Un casuale sfiorarsi di labbra mentre carambolavano giù da una scala antincendio arrugginita dal tempo e dal disuso. L’imbarazzo balbettato che ne seguiva.

Ciò che mancava, erano le parole. Quelle parole. Quel verbo che John aveva detto tante volte ma che non aveva mai avuto così tanta paura di esprimere, così tanti dubbi nel decidere o meno se farlo.

Le parole che aveva sempre pronunciato con la voce, ma evidentemente mai con il cuore.

Le stesse parole che Sherlock non aveva mai pronunciato e basta.

C’era un castello di carte sul ripiano della cucina e quel castello di carte era come una scatola di Schrödinger.(1)

Avevano riposto al loro interno promesse che solo il tempo avrebbe mantenuto.

 

« Metterò un mazzo di carte da poker sul ripiano della cucina. Tutti i giorni prenderemo due carte a testa e costruiremo un castello di carte. Il primo di noi che farà cadere il castello, dirà all’altro quello che gli deve dire. Va bene, Sherlock? »

« E se il castello crolla per cause esterne? »

« Si ricostruisce con lo stesso numero di carte e si continua. Va avanti finché uno dei due non lo fa crollare di propria mano. »

« E se finiamo le carte senza che il castello sia crollato? »

« Colui che appoggia l’ultimo paio di carte ha il diritto di farsi dire dall’altro ciò che deve dirgli. È un mazzo da 104 carte, ciò vuol dire 26 giorni. »

« Mi sta bene. Ma ad una condizione. »

« Cioè? »

« Il castello sarà a pagoda.(2) È l’unica struttura che prevede obbligatoriamente l’uso di due carte simultaneamente per ogni sua parte. Così nessuno potrà barare. »

« D’accordo. »

 

C’era un castello di carte sul ripiano della cucina ed è incredibile cosa una persona sia in grado di ricordarsi quando sta per morire.

È steso a terra e, nella confusione, sa solo quello. Non sente niente se non un silenzio ovattato che sa di dolore, ma che lui non percepisce, non riesce più a farlo. Ogni tanto c’è un tonfo sordo, profondo in lontananza, e pensa che potrebbero essere passi, o detriti, o spari, o solo Dio sa cosa. Non riesce a distinguerli, non può più.

Non si muove. Il corpo è muto alla sua volontà e non solo le gambe, ma anche tutto il resto. Appendici senza linfa, parti di una marionetta a cui si sono staccati i fili. Ha la forma di un rivolo sottile la quantità d’aria che gli passa fra le labbra, ed è calda, quasi incandescente. Sa di polvere e calcinaccio ma, prima di tutto, sa di sangue.

Sangue suo. Ce l’ha in bocca, ce l’ha sul collo, ce l’ha sul viso. Ce l’ha addosso perché sì, paradossalmente il calore del proprio sangue che va ad inzuppargli il maglione, e sotto di esso la camicia, lo sente.

È appiccicoso. È tanto e non si ferma e lui lo sa.

Lui è un medico, è un soldato, è un medico e un soldato e lo sa.

Lo sa che sta morendo.

Sta morendo e l’unica cosa a cui riesce a pensare è quel castello di carte sul ripiano della cucina.

Maledirebbe la sua testardaggine, se solo avesse il tempo di farlo. Se potesse tornare indietro nel tempo farebbe cadere quel castello da subito, già alla terza e quarta carta del primo giorno, per poi voltarsi verso Sherlock e dirglielo, dirglielo.

Perché se si pensa che in 26 giorni non possa accadere chissà cosa che stravolga la quotidianità della vita, beh, non è così. Shit happens.(3)

Una persona può morire in 26 giorni come può morire in 26 secondi.

E lui lo sa. Lo sta provando. È un medico e lo sa, che sta morendo, non c’è bisogno di intuirlo: lo sa e basta.

L’udito se ne sta andando del tutto e, se si concentra bene su quelle macchie di colore che compongono tutto ciò che riesce a vedere, capisce che anche la vista lo sta abbandonando.

Così come la vita.

Con le ultime forze gira il capo verso destra, il più possibile, e tenta di distinguere qualcosa in mezzo a quelle gore sfocate, a quelle chiazze di colore a malapena abbozzate che stanno sfumando nel grigio e nel nero.

Cerca i suoi occhi. Vuole vederli aperti, vigili, vivi. Vuole vederlo in vita, ancora, nonostante tutto.

Vuole dirgli di tenere duro, vuole dirgli che andrà tutto bene, vuole dirgli che gli mancherà e che lo terrà d’occhio. Sta per aggiungere “da lassù” ma è un pensiero sciocco, perché lui non crede in Dio, ha smesso di farlo in Afghanistan, dunque Dio non gli aprirà i cancelli del Paradiso, non gli aprirà proprio un bel niente.

Vuole dirgli tante cose ma l’unica cosa che vorrebbe dirgli è di far crollare quel maledetto castello di carte. L’unica cosa che vorrebbe chiedergli è di lasciare da parte l’orgoglio per un secondo solamente e pronunciare quelle parole.

Ma sa che non ha tempo, e tutto quello che gli rimane lo sta usando così, piegando la testa e guardando un qualcosa che dovrebbe essere una piscina, o ciò che comunque ne rimane.

Tutto il tempo lo sta usando per cercarlo con uno sguardo che ormai non può distinguere nulla, nel buio, e con delle orecchie che hanno smesso di sentire i suoni molto prima che i suoi occhi si stancassero di vedere ciò che poteva emetterli.

Con un cuore che non gli apparteneva più interamente già da molto, molto tempo.

Sherlock. Sherlock. È il suo nome che vuole ricordarsi e, nell’ultimo istante, s’illude di poterlo pronunciare e di sentirlo come un eco della propria voce nella testa. Sherlock.

S’illude di sentire un fruscio di carte. Un sussurro che attraversa il tempo.

Sorride, pensa di farlo.

Anche io, Sherlock.

 

 

 

 

Lestrade è chino su di un lenzuolo bianco.

Tutto intorno a lui i lampeggianti blu e arancioni di varie pattuglie ed ambulanze, i flash fastidiosi di qualche reporter fin troppo veloce nel fare il suo lavoro, le parole brevi e asettiche dei paramedici mescolate a quelle altrettanto brevi ma grevi dei suoi colleghi.

Lestrade è chino sulle sue ginocchia e guarda fisso un lenzuolo, vedendo in realtà la persona che sotto di esso è distesa. Gli copre il volto e questo è un segno universale, uno di quei simboli macabri che significano la stessa cosa in tutte le nazioni del globo. È macchiato di sangue e purtroppo continua ad inzupparsi, cambiando gradualmente colore minuto dopo minuto, secondo dopo secondo.

Lestrade di morti ne ha viste tante, di cadaveri anche di più. Dovrebbe essere abituato ma mentre guarda il lenzuolo, mentre in realtà vede la persona che fu e che sotto di esso ora riposa senza possibilità di risveglio, pensa che, appena arrivato in centrale, andrà a vomitare.

Pensa anche che è la cosa più scontata e insieme più brutta che poteva capitargli.

Chiude gli occhi, si passa una mano sul volto. Si sente improvvisamente stanco, esausto, e quando i colleghi arrivano con il sacco nero del becchino, fa solo un lieve cenno con la testa prima di alzarsi e lasciare fare a loro. Lui si sente male e ha bisogno di uscire da quel posto, altrimenti potrebbe dare di stomaco anche prima di arrivare in centrale.

Sulla porta, c’è in piedi Mycroft Holmes. Sempre impeccabile, l’unica cosa stropicciata che ha addosso è lo sguardo.

Si guardano, e c’è davvero poco da dire. Forse niente, perché niente è in grado di far sparire quelle pieghe dal viso del governo, o quel senso pressante di nausea dallo stomaco dell’ispettore.

« Vai a Baker Street, Mycroft » dice semplicemente, sforzandosi, e Mycroft se ne accorge, subito, immediatamente. Ma lui continua: « vai a Baker Street » ripete soltanto.

Lui andrà là e quando crollerà avrà bisogno di qualcuno.

Mycroft Holmes abbassa le palpebre, lasciando uscire l’aria dal naso. « Gregory – dice poi – la persona di cui avrà bisogno è sotto quel lenzuolo. Siamo in sette miliardi su questo pianeta e, da questa notte, per lui saremo solo sei miliardi novecentonovantanove milioni novecentonovantanove mila e novecentonovantanove ombre di un’unica, sola, persona » dice. Poi se ne va, con un lieve cenno del capo che vuole nascondere un volto fin troppo addolorato per poterselo permettere veramente.

Lestrade lo guarda andar via, e smette di resistere. Ha il sangue di John Watson sotto la suola delle scarpe e non aspetta di essere al riparo da sguardi indiscreti, o di arrivare in centrale.

Entra nei bagni degli spogliatoi e rimette anche l’anima.

 

 

 

 

Per lui era stato naturale. Il prodotto di un pensiero perfettamente logico e razionale, il risultato di un’equazione costruita con calma, con variabili difficili che improvvisamente avevano assunto un senso.

Non era stata la comprensione, il suo problema. Eliminato l’impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità.(4)

Ciò che aveva richiesto del tempo, quindi, non era stato localizzare ed ammettere il problema. Piuttosto l’accettazione del fatto che, per risolverlo, doveva includere nel conto i sentimenti, ovvero quel mondo da cui aveva sempre cercato di tenersi alla larga.

Dopotutto, John non poteva essere trattato come un individuo avulso da quel mondo. L’aveva capito osservandolo con alcuni clienti, con i parenti delle vittime che a volte dovevano interrogare, con le persone in generale. L’aveva capito dal modo in cui li trattava con tatto, persino con discrezione; con quell’atteggiamento che era più del medico gentile che del soldato tutto d’un pezzo.

John era sopportazione, gentilezza, morigeratezza. Non si offendeva quando lui, Sherlock, finiva per parlare a sproposito e lo faceva spesso, da quel suo piedistallo situato più in alto rispetto a tutti gli altri.

Piedistallo che, si era reso conto, era abbastanza largo per ospitare un’altra persona, e quella persona era John Watson.

Era stata John Watson.

Si era svegliato dentro un’ambulanza, disteso su di una barella con sponde abbassabili in acciaio, un lenzuolo di cotone ruvido stretto spasmodicamente fra le dita.

Si era svegliato per caso, come quando cadeva sfinito sul divano dopo infinite ore di veglia e riapriva gli occhi in fretta, con l’urgenza di chi, addormentandosi, aveva fatto uno sbaglio.

Mai sensazione era stata più appropriata, ma in quell’attimo non ne era ancora pienamente cosciente. Era perso nel suo palazzo mentale, smarrito fra corridoi e stanze che lui stesso aveva costruito ma che non riconosceva, vagante in mezzo a pensieri che erano stati scuciti dal filo conduttore che li legava.

Sapeva già che era successo qualcosa di grave, ma la sua mente si era rifiutata di ammetterlo, proteggendo se stessa e l’equilibrio psichico di Sherlock nell’unico modo che conosceva: pensando.

Riflettendo su tempi, modi, dinamiche. Chiedendosi di Moriarty, Jim Moriarty, senza rendersi conto che non sarebbe stata più una sfida di cervelli, un cozzare sofisticato di intelligenze, da quel giorno in poi, ma che avrebbe avuto motivo di odiarlo, divorato fin nelle ossa da una disperazione corrosiva più dell’acido solforico.

C’era odore di disinfettante e garze sterili su quell’ambulanza e due paramedici si erano indaffarati al suo capezzale, per fare ciò che facevano ogni ad ogni chiamata: usare bende e cerotti come nastro adesivo nel tentativo di tenere insieme i poveri malcapitati di turno.

Forse fu quello, il momento.

Forse perché quel disinfettante aveva lo stesso odore della lieve scia che John lasciava dietro di sé quando rincasava dai turni in clinica, e si sa che gli odori hanno la fama di risvegliare i ricordi.

Si era reso conto, d’improvviso, appena qualche minuto dopo aver riaperto gli occhi, che John non c’era.

Non lo vedeva, non lo sentiva, non percepiva la sua presenza.

Non aveva prestato attenzione ai paramedici che continuavano a chiedergli come si sentisse, dove provava dolore e se avesse mal di testa. Appena ne aveva avuto occasione si era alzato ed era uscito dal veicolo, incurante della camicia aperta e dello scricchiolio sinistro delle proprie ossa – tutte le proprie ossa – e sordo alle proteste dei medici che inutilmente avevano cercato di fermarlo.

Forse lo sapeva già. Forse lo aveva capito ancora prima di svegliarsi ma aveva scartato quell’informazione perché appuntita, incandescente, dalle estremità taglienti.

Si era ferito le mani, afferrandola, solamente quando aveva visto Lestrade venirgli incontro.

Capirlo era stato immediato.

In realtà, inconsciamente, già lo sapeva.

Ciò che ti uccide di un’esplosione non è la vampata, ma l’onda d’urto. Ti investe con la forza di un uragano artificiale e fa del tuo corpo ciò che vuole.

Lui di fianco aveva avuto la piscina, John il muro. Il punto di svolta, il senso primario, stava tutto lì.

Lui aveva l’acqua, John la pietra. Lui era stato accolto da un abbraccio molle dall’odore di cloro, John invece...

Anche se cercava di negarlo, non poteva essere andata diversamente.

« È di John il sangue che hai sotto la suola delle scarpe? » aveva domandando all’ispettore in avvicinamento, il tono atono e piatto di chi non crede più in niente, e dopo crederà solo nell’Inferno.

Lestrade si era impietrito, le labbra serrate. Aveva guardato altrove e, con quel gesto non verbale, Sherlock aveva avuto la sua conferma che era tutto reale.

Che era successo davvero.

« Sherlock... » aveva accennato Lestrade con un filo di voce, gli occhi pieni di niente e l’espressione di una persona nell’unico giorno in cui si pente di aver scelto la Polizia, quando era stato il momento.

Lui aveva alzato la mano, impedendogli di proseguire qualsiasi discorso avesse anche solo pensato di propinargli.

E come al solito, era il corpo a tradire ciò che la mente ancora cercava di nascondere. La mano tremava, lì nell’aria notturna, e non per il freddo.

Non era potuto rimanere lì un attimo di più. Si era semplicemente voltato e, nel silenzio, allontanato oltre il cordone di volanti ed ambulanze, diretto verso la prima strada utile lontano da lì.

Aveva poi preso un taxi, almeno di questo serbava ricordo. Poi un momento di vuoto, un tragitto di cui la sua mente aveva impietosamente rimosso ogni dettaglio dai suoi ricordi, fino alla voce del tassista che gli diceva « Baker Street, signore. 221B. È arrivato ».

Non si ricordava se aveva pagato, ma era sceso. Il tassista era ripartito – quindi forse lo aveva pagato – e lui era rimasto in piedi lì di fronte alla porta. Così. Per molto tempo.

Fino a quel momento.

 

Non riusciva semplicemente ad attraversare quella soglia. Si sentiva bloccato, immobile, sospeso in un istante congelato al di fuori di tutto.

Non riusciva a pensare. Il suo cervello si rifiutava di fare anche il più semplice ragionamento e lui – lui –

privato di quella facoltà non aveva altro a cui aggrapparsi, su cui fare affidamento.

C’era sempre stato John, per quello.

John. Solo a richiamarlo nei propri pensieri – una voce distante ed echeggiante, come se facesse già parte del passato e ne rimanesse solo un puro ricordo – gli si attorcigliava lo stomaco. Il cuore, quello che da poco aveva con riluttanza scoperto di possedere, mancava dolorosamente un battito, poi un altro ancora. Accelerava, rallentava e poi accelerava di nuovo, in quella che sembrava proprio un’imminente crisi di pianto, ma Sherlock Holmes non ha crisi di pianto.

Ci sono persone che non piangono. Non subito.

Lui aveva semplicemente resistito fino a quel momento – resistito per tantissimi anni; probabilmente era stato l’orgoglio smodato ad impedire alle lacrime di scivolare giù, lungo le gote, a cancellare sporcizia e sangue in lievi righe salate.

Ed era ancora quell’orgoglio, forse, o forse il rigido contegno inglese ad impedirgli di piangere smodatamente, scompostamente.

Solo silenziosamente. Lasciava cadere lacrime amare senza raccoglierle.

Sembrò un tempo infinito, molto più lungo, la mezzora che trascorse fermo immobile, prima che fosse in grado di fare un passo avanti – e poi un altro ancora, e un altro subito dopo.

In tasca aveva ancora le chiavi del 221B – chissà come – ed inserendole nella serratura aprì la porta.

Subito gli sembrò di percepire la scia di pensieri del suo coinquilino. Lo vedeva muoversi tramite ogni segno sul muro, in ogni imperfezione della ringhiera, in ogni impronta lasciata sulla moquette delle scale. In ogni granello di polvere. In ogni pensiero perduto in quel corridoio, che lui riusciva ad accarezzare con gli occhi, a sentire sotto le unghie, o intorno al collo come una tiepida sciarpa.

Lasciò la porta aperta e, lentamente, cominciò la salita.

Il terzo gradino scricchiolò, scricchiolava sempre. Subito, dei passi rimbombarono vibrando nella muta disperazione ovattata che lo aveva circondato, veloci, preoccupati. Venivano dal piano terra. La signora Hudson.

« Sherlock, caro, cosa succede? La signorina Harriett ha già telefonato due volte e suo fratello Mycroft ha... oh, santo cielo! » si interruppe esclamando quando lo vide, portandosi le mani alla bocca.

Sherlock non rispose. Non ne trovava la forza, o il coraggio, o semplicemente non ne aveva la cognizione di causa. Si limitava a guardarla, a metà della scala, le labbra semichiuse in un sussurro che non voleva uscire, in una risposta a cui non gli era permesso dare voce.

Dirlo alla signora Hudson equivaleva ad ammetterlo prima con se stesso, e in quel momento lui si stava aggrappando come un cieco all’illusione che quello fosse solamente un incubo, magari il risultato di una dose azzardata di nicotina – nonostante sapesse perfettamente che none era quello l’effetto, che la nicotina non causava allucinazioni.

Ma non c’era bisogno di trasformare la realtà in parole, la sua espressione faceva tutto da sé. La sua immobilità mentale era sintomatica agli occhi degli altri, e la signora Hudson era una padrona di casa estremamente perspicace.

« Sherlock... » pigolò « ...dov’è il dottor Watson? ».

Sentirne il nome pronunciato a voce – una qualsiasi voce, che era quella di mrs Hudson come poteva essere quella di chiunque – gli provocò un moto di rigetto, ed ebbe la sensazione di poter sputare il fegato brandello per brandello, pezzo per pezzo. Ma continuò a guardarla.

Lei si mise a piangere. Probabilmente capì. Sicuramente lo fece.

Mentre la donna si accasciava contro la parete con una mano sulle labbra a trattenere i singulti, Sherlock riprese a salire. Non sapeva nemmeno lui quali fantasmi stesse inseguendo, su per quelle scale, ma qualcosa lo guidava verso l’appartamento, richiamandolo a sé.

Si fermò, per un istante, davanti alla porta. Dal piano sottostante arrivava il pianto disperato della padrona di casa, insieme alla voce sommessa piena di spiegazioni di Mycroft – quando era arrivato? Non se ne era minimamente accorto... – ma Sherlock era sordo, sordo in un modo che non gli permetteva di sentire nient’altro che voci perdute, parole pronunciate nel tempo ed assorbite dalle mura di quella casa – e lì rimaste intrappolate.

John che rincasava con un “buonasera”, John che rideva sollevato dopo la loro prima carambola per Londra, John che si lamentava della pioggia improvvisa, John che lo rincorreva sul pianerottolo urlandogli di aspettarlo, John che borbottava perché non c’era più latte.

John, John, John, John, John.

John. John che gli lanciava una sfida, una mattina a colazione.

C’era un castello di carte sul ripiano della cucina.

Fra la macchina del caffè e gli utensili a muro. Era stata un’idea di John. Era una scatola di Schrödinger in cui avevano riposto promesse che solo il tempo avrebbe potuto mantenere.

Di tempo non ne avevano avuto a sufficienza.

Avevano venduto loro stessi all’idea che il tempo fosse infinito, che il loro tempo lo fosse. Il loro sogni erano così crollati, come castelli di carte costruiti sin dall’inizio in un equilibrio precario.

Erano stati sciocchi, e ciechi. Sciocchi e ciechi ed infantili come due... amanti.

Distorse il viso in una smorfia, mentre girava il pomello ed entrava nell’appartamento.

Era esattamente come lo aveva lasciato poche ore prima e faceva ancora più male, bruciava come il fuoco dell’Inferno. Perché nell’aria c’era ancora il suo odore mescolato a quello delle pagine dei libri, all’Earl Gray con limone e poco zucchero, al cioccolato caldo con la cannella e al suono di un violino che inscenava una pantomima di serenità.

E faceva un male fottuto.

I sensi di colpa cominciavano a mangiarsi la sua anima pezzo per pezzo, destabilizzando la ragione, ovvero tutto ciò che era, il suo essere assoluto. Es, Io e Super Io racchiusi in una logica che stava crollando a pezzi davanti alla perdita, davanti al sentimento ombra dell’emozione che aveva appena perso: l’amore.

Era rimasta solo la tristezza, la rabbia... e l’odio. Ma soprattutto una profonda autocommiserazione.

Gli scappò un singhiozzo, uno solo. Deglutì un grumo di dolore e, muovendosi ad inerzia, seguì le voci della casa verso la cucina.

Là. Il castello di carte era ancora là. Il mazzo al suo fianco, rappresentazione del tempo che era stato loro rubato – 17 giorni, 17 giorni ancora... – e il significato che esso aveva assunto da quella notte fino alla fine del tempo; un segreto rinchiuso e lì rimasto, una frase rimasta inascoltata.

Maledì il suo orgoglio. E se stesso.

Lentamente, come se stesse sollevando un braccio composto di granito e non di carne e ossa e sangue e pelle, allungò la mano verso la struttura, appoggiando il polpastrello del dito indice sull’angolo centrale della pagoda. Fece una lieve pressione e, così com’era stato creato, così scomparve.

Il castello di carte crollò, spargendosi sul pavimento in un fruscio.

« Ti amo, John ».

 

S’illude di sentire un fruscio di carte. Un sussurro che attraversa il tempo.

Sorride, pensa di farlo.

“Anche io, Sherlock.”

 

 

 

 

 

 

 

 

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1 - Il paradosso del gatto di Schrödinger è una cosa un po' complessa, ma ne riassumerò il senso generale per comprensione del passaggio. In poche parole, c'è un gatto dentro una scatola. In questa scatola c'è un meccanismo che potrebbe uccidere il gatto nel giro di un'ora, così come potrebbe non ucciderlo. Noi non vediamo questo gatto dentro la scatola, ma solo l'esterno della stessa. Il paradosso sta nel fatto che, dopo un'ora, per quello che ne sappiamo noi, il gatto potrebbe essere sia vivo che morto; dal punto di vista della fisica, finché noi non apriamo la scatola (e dunque non compiamo un'osservazione) il gatto E' sia vivo che morto, perché le due condizioni si sovrappongono perfettamente (hanno la stessa percentuale di possibilità).

 

2 - non ho trovato immagini in rete che mostrassero un castello di carte del tipo che io chiamo "a pagoda" ma è un castello un po' più stabile del classico a piramide, e un po' più facile da mettere in piedi. Prende letteralmente la forma di una pagoda e, come specifica Sherlock, viene costruito procedendo 2 carte alla volta: prima due a piramide, poi due davanti e dietro, infine due ai lati scoperti superiori di quelle che si sono appena posizionate. E così via.

 

3 - "Shit happens" (la merda capita) è un modo di dire inglese non esattamente paragonabile a qualche nostro proverbio, motivo per cui l'ho lasciato in lingua originale - rende maledettamente meglio così. Possiamo dire che il significato è una cosa come "la sfiga ha sempre gli occhi aperti e ti tiene d'occhio". In altre parole, le sfortune capitano sempre XD

 

4 - Frase cult di Sherlock Holmes già dai tempi dell'originario "Mastino dei Baskerville". È passata praticamente alla storia, non potevo tralasciarla.

   
 
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