Capisci che prende davvero
male quando ti metti ad ascoltare gli
Zero Assoluto.
Comunque, date la colpa
alla noia che mi assale. E ai castelli di carte che costruisco per farmela
passare.
Desclaimer:
il
dottor Watson e il caro Holmes, così come tutti gli altri personaggi che
verranno citati, non sono (purtroppo) di mia proprietà ma sono gli adorati
pargoli di Sir Arthur Conan Doyle e i nipoti dei
signori Gatiss e Moffat –
anime sante che mettono slash everywhere. Io mi diverto a
fargli passare le pene dell’inferno perché mi rilassa (?!).
Avvertenze:
nonostante “A Scandal in Belgravia”
già specifica cos’è successo in quella benedetta piscina con quella benedetta
bomba, avverto che questa è (oramai) una “what if” successiva a “The Great Game” (episodio 1x03). Non
è spoiler della 2x01, per chi non l’avesse ancora vista ;D
Detto ciò, buona lettura a
tutti coloro che vorranno ♥
______________________________________________________________________________________________________
Castelli
di Carte
Cercavo
di spegnere un’immagine, ma quella invece non mi abbandonava,
né
mi avrebbe abbandonato, così è quel che ricordo di lui, per sempre.
Eravamo
nello stesso amore, in quel momento – non abbiamo fatto altro, per anni.
Così
siamo morti insieme – e fino a quando non morirò, insieme vivremo.
[ Alessandro Baricco; Emmaus
]
C’era
un castello di carte sul ripiano della cucina, fra la macchinetta del caffè e
gli utensili a muro.
Non
c’era pericolo che cadesse, o che crollasse, perché loro la cucina non la
usavano, non la usavano praticamente mai. Mangiavano sempre cinese da asporto,
o i manicaretti della signora Hudson. Non bevevano nemmeno caffè, perché loro
erano inglesi, e gli inglesi si fanno bastare il tè.
Rappresentava
un traguardo, una vittoria, un punto di svolta. Un limite pericoloso che
entrambi non vedevano l’ora di valicare saltandolo a piedi uniti.
C’era
un castello di carte sul ripiano della cucina e quel castello di carte era
stata un’idea sua.
L’idea
di una mattina. Ricordava tutto, di quella mattina.
Il
modo in cui Sherlock sorseggiava il tè guardandolo di sottecchi, senza aver
nemmeno toccato le uova strapazzate condite sicuramente con troppo sale. Così
come ricordava il suo stomaco totalmente chiuso, l’imbarazzo pressante contro
la cassa toracica, e il modo in cui fissava l’unica fetta di bacon nel proprio
piatto rigirandola con la forchetta.
Il
silenzio teso e traballante che aveva seguito quelle parole.
« Sherlock? »
« John. »
« Devo... dirti una cosa. »
« ...anche io ho qualcosa da dirti. »
Ricordava
anche cos’era avvenuto prima, di
quella mattina.
Col
tempo, lentamente, ma come se fosse la cosa più naturale del mondo. La
conoscenza, la sopportazione (praticamente tutta sua), l’amicizia... poi quel
qualcosa in più.
Quel
qualcosa che giustificava la gelosia, o la nostalgia. Quella piccola parte
d’anima che se ne andava tutti i giorni attaccata al cappotto di Sherlock e che
tornava al suo posto solamente quando, dopo un’altra giornata in clinica,
tornava a casa e si sedevano in salotto, con lui, così. A parlare, o a leggere,
o a guardare la tv spazzatura contro cui Sherlock tanto si accaniva.
Entrambi
avevano infine dato un nome a quel sentimento. Entrambi avevano oltrepassato, a
loro modo, in privato l’uno dall’altro, in un silenzio un po’ imbarazzante e
complicato, tutte le regole sociali e le imposizioni strutturate
dell’educazione ricevuta sin da piccoli.
Entrambi
avevano ammesso ciò che molti altri avevano già capito.
E
da lì sospiri, sorrisi, sguardi. Sherlock che si abbassava dietro di lui per
leggere cosa scrivesse sul blog e, fingendo che fosse per puro caso, gli
sfiorava la gota con la punta del naso. Lui che, alzandosi alle tre del mattino
dopo sogni poco piacevoli, appoggiava sorridendo una coperta su di un
coinquilino addormentatosi sul divano con il violino in grembo e l’archetto
ancora fra le dita.
Un
casuale sfiorarsi di labbra mentre carambolavano giù da una scala antincendio
arrugginita dal tempo e dal disuso. L’imbarazzo balbettato che ne seguiva.
Ciò
che mancava, erano le parole. Quelle
parole. Quel verbo che John aveva detto tante volte ma che non aveva mai avuto
così tanta paura di esprimere, così tanti dubbi nel decidere o meno se farlo.
Le
parole che aveva sempre pronunciato con la voce, ma evidentemente mai con il
cuore.
Le
stesse parole che Sherlock non aveva mai pronunciato e basta.
C’era
un castello di carte sul ripiano della cucina e quel castello di carte era come
una scatola di Schrödinger.(1)
Avevano
riposto al loro interno promesse che solo il tempo avrebbe mantenuto.
« Metterò un mazzo di carte da poker sul ripiano della
cucina. Tutti i giorni prenderemo due carte a testa e costruiremo un castello
di carte. Il primo di noi che farà cadere il castello, dirà all’altro quello
che gli deve dire. Va bene, Sherlock? »
« E se il castello crolla per cause esterne? »
« Si ricostruisce con lo stesso numero di carte e si
continua. Va avanti finché uno dei due non lo fa crollare di propria mano. »
« E se finiamo le carte senza che il castello sia
crollato? »
« Colui che appoggia l’ultimo paio di carte ha il
diritto di farsi dire dall’altro ciò che deve dirgli. È un mazzo da 104 carte,
ciò vuol dire 26 giorni. »
« Mi sta bene. Ma ad una condizione. »
« Cioè? »
« Il castello sarà a pagoda.(2) È l’unica
struttura che prevede obbligatoriamente l’uso di due carte simultaneamente per
ogni sua parte. Così nessuno potrà barare. »
« D’accordo. »
C’era
un castello di carte sul ripiano della cucina ed è incredibile cosa una persona
sia in grado di ricordarsi quando sta per morire.
È
steso a terra e, nella confusione, sa solo quello. Non sente niente se non un
silenzio ovattato che sa di dolore, ma che lui non percepisce, non riesce più a
farlo. Ogni tanto c’è un tonfo sordo, profondo in lontananza, e pensa che
potrebbero essere passi, o detriti, o spari, o solo Dio sa cosa. Non riesce a
distinguerli, non può più.
Non
si muove. Il corpo è muto alla sua volontà e non solo le gambe, ma anche tutto
il resto. Appendici senza linfa, parti di una marionetta a cui si sono staccati
i fili. Ha la forma di un rivolo sottile la quantità d’aria che gli passa fra
le labbra, ed è calda, quasi incandescente. Sa di polvere e calcinaccio ma,
prima di tutto, sa di sangue.
Sangue
suo. Ce l’ha in bocca, ce l’ha sul collo, ce l’ha sul viso. Ce l’ha addosso
perché sì, paradossalmente il calore del proprio sangue che va ad inzuppargli
il maglione, e sotto di esso la camicia, lo sente.
È
appiccicoso. È tanto e non si ferma e lui lo
sa.
Lui
è un medico, è un soldato, è un medico e
un soldato e lo sa.
Lo sa che sta
morendo.
Sta
morendo e l’unica cosa a cui riesce a pensare è quel castello di carte sul
ripiano della cucina.
Maledirebbe
la sua testardaggine, se solo avesse il tempo di farlo. Se potesse tornare
indietro nel tempo farebbe cadere quel castello da subito, già alla terza e
quarta carta del primo giorno, per poi voltarsi verso Sherlock e dirglielo, dirglielo.
Perché
se si pensa che in 26 giorni non possa accadere chissà cosa che stravolga la
quotidianità della vita, beh, non è così. Shit happens.(3)
Una
persona può morire in 26 giorni come può morire in 26 secondi.
E
lui lo sa. Lo sta provando. È un medico e lo sa, che sta morendo, non c’è
bisogno di intuirlo: lo sa e basta.
L’udito
se ne sta andando del tutto e, se si concentra bene su quelle macchie di colore
che compongono tutto ciò che riesce a vedere, capisce che anche la vista lo sta
abbandonando.
Così
come la vita.
Con
le ultime forze gira il capo verso destra, il più possibile, e tenta di
distinguere qualcosa in mezzo a quelle gore sfocate, a quelle chiazze di colore
a malapena abbozzate che stanno sfumando nel grigio e nel nero.
Cerca
i suoi occhi. Vuole vederli aperti, vigili, vivi.
Vuole vederlo in vita, ancora, nonostante tutto.
Vuole
dirgli di tenere duro, vuole dirgli che andrà tutto bene, vuole dirgli che gli
mancherà e che lo terrà d’occhio. Sta per aggiungere “da lassù” ma è un
pensiero sciocco, perché lui non crede in Dio, ha smesso di farlo in
Afghanistan, dunque Dio non gli aprirà i cancelli del Paradiso, non gli aprirà
proprio un bel niente.
Vuole
dirgli tante cose ma l’unica cosa che vorrebbe dirgli è di far crollare quel
maledetto castello di carte. L’unica cosa che vorrebbe chiedergli è di lasciare
da parte l’orgoglio per un secondo solamente e pronunciare quelle parole.
Ma
sa che non ha tempo, e tutto quello che gli rimane lo sta usando così, piegando
la testa e guardando un qualcosa che dovrebbe essere una piscina, o ciò che
comunque ne rimane.
Tutto
il tempo lo sta usando per cercarlo con uno sguardo che ormai non può
distinguere nulla, nel buio, e con delle orecchie che hanno smesso di sentire i
suoni molto prima che i suoi occhi si stancassero di vedere ciò che poteva
emetterli.
Con
un cuore che non gli apparteneva più interamente già da molto, molto tempo.
Sherlock.
Sherlock. È il suo nome che vuole
ricordarsi e, nell’ultimo istante, s’illude di poterlo pronunciare e di
sentirlo come un eco della propria voce nella testa. Sherlock.
S’illude
di sentire un fruscio di carte. Un sussurro che attraversa il tempo.
Sorride,
pensa di farlo.
Anche io, Sherlock.
Lestrade è chino su di un lenzuolo bianco.
Tutto
intorno a lui i lampeggianti blu e arancioni di varie pattuglie ed ambulanze, i
flash fastidiosi di qualche reporter fin troppo veloce nel fare il suo lavoro,
le parole brevi e asettiche dei paramedici mescolate a quelle altrettanto brevi
ma grevi dei suoi colleghi.
Lestrade è chino sulle sue ginocchia e guarda
fisso un lenzuolo, vedendo in realtà la persona che sotto di esso è distesa.
Gli copre il volto e questo è un segno universale, uno di quei simboli macabri
che significano la stessa cosa in tutte le nazioni del globo. È macchiato di
sangue e purtroppo continua ad inzupparsi, cambiando gradualmente colore minuto
dopo minuto, secondo dopo secondo.
Lestrade di morti ne ha viste tante, di cadaveri
anche di più. Dovrebbe essere abituato ma mentre guarda il lenzuolo, mentre in
realtà vede la persona che fu e che sotto di esso ora riposa senza possibilità
di risveglio, pensa che, appena arrivato in centrale, andrà a vomitare.
Pensa
anche che è la cosa più scontata e insieme più brutta che poteva capitargli.
Chiude
gli occhi, si passa una mano sul volto. Si sente improvvisamente stanco,
esausto, e quando i colleghi arrivano con il sacco nero del becchino, fa solo
un lieve cenno con la testa prima di alzarsi e lasciare fare a loro. Lui si
sente male e ha bisogno di uscire da quel posto, altrimenti potrebbe dare di
stomaco anche prima di arrivare in
centrale.
Sulla
porta, c’è in piedi Mycroft Holmes. Sempre
impeccabile, l’unica cosa stropicciata che ha addosso è lo sguardo.
Si
guardano, e c’è davvero poco da dire. Forse niente, perché niente è in grado di
far sparire quelle pieghe dal viso del governo, o quel senso pressante di
nausea dallo stomaco dell’ispettore.
« Vai a Baker
Street, Mycroft » dice semplicemente, sforzandosi, e Mycroft se ne accorge, subito, immediatamente. Ma lui
continua: « vai a Baker
Street » ripete soltanto.
Lui andrà là e
quando crollerà avrà bisogno di qualcuno.
Mycroft Holmes abbassa le palpebre, lasciando
uscire l’aria dal naso. « Gregory – dice
poi – la persona di cui avrà bisogno è sotto quel lenzuolo. Siamo in sette
miliardi su questo pianeta e, da questa notte, per lui saremo solo sei miliardi
novecentonovantanove milioni novecentonovantanove mila e novecentonovantanove
ombre di un’unica, sola, persona » dice. Poi se ne
va, con un lieve cenno del capo che vuole nascondere un volto fin troppo
addolorato per poterselo permettere veramente.
Lestrade lo guarda andar via, e smette di
resistere. Ha il sangue di John Watson sotto la suola delle scarpe e non
aspetta di essere al riparo da sguardi indiscreti, o di arrivare in centrale.
Entra
nei bagni degli spogliatoi e rimette anche l’anima.
Per
lui era stato naturale. Il prodotto di un pensiero perfettamente logico e
razionale, il risultato di un’equazione costruita con calma, con variabili
difficili che improvvisamente avevano assunto un senso.
Non
era stata la comprensione, il suo problema. Eliminato l’impossibile, ciò che
resta, per improbabile che sia, deve essere la verità.(4)
Ciò
che aveva richiesto del tempo, quindi, non era stato localizzare ed ammettere
il problema. Piuttosto l’accettazione del fatto che, per risolverlo, doveva
includere nel conto i sentimenti, ovvero quel mondo da cui aveva sempre cercato
di tenersi alla larga.
Dopotutto,
John non poteva essere trattato come
un individuo avulso da quel mondo. L’aveva capito osservandolo con alcuni
clienti, con i parenti delle vittime che a volte dovevano interrogare, con le
persone in generale. L’aveva capito dal modo in cui li trattava con tatto,
persino con discrezione; con quell’atteggiamento che era più del medico gentile
che del soldato tutto d’un pezzo.
John
era sopportazione, gentilezza, morigeratezza. Non si offendeva quando lui,
Sherlock, finiva per parlare a sproposito e lo faceva spesso, da quel suo
piedistallo situato più in alto rispetto a tutti gli altri.
Piedistallo
che, si era reso conto, era abbastanza largo per ospitare un’altra persona, e
quella persona era John Watson.
Era stata John Watson.
Si
era svegliato dentro un’ambulanza, disteso su di una barella con sponde
abbassabili in acciaio, un lenzuolo di cotone ruvido stretto spasmodicamente
fra le dita.
Si
era svegliato per caso, come quando cadeva sfinito sul divano dopo infinite ore
di veglia e riapriva gli occhi in
fretta, con l’urgenza di chi, addormentandosi, aveva fatto uno sbaglio.
Mai
sensazione era stata più appropriata, ma in quell’attimo non ne era ancora
pienamente cosciente. Era perso nel suo palazzo mentale, smarrito fra corridoi
e stanze che lui stesso aveva costruito ma che non riconosceva, vagante in mezzo
a pensieri che erano stati scuciti dal filo conduttore che li legava.
Sapeva
già che era successo qualcosa di grave, ma la sua mente si era rifiutata di
ammetterlo, proteggendo se stessa e l’equilibrio psichico di Sherlock nell’unico
modo che conosceva: pensando.
Riflettendo
su tempi, modi, dinamiche. Chiedendosi di Moriarty,
Jim Moriarty, senza rendersi conto che non sarebbe
stata più una sfida di cervelli, un cozzare sofisticato di intelligenze, da
quel giorno in poi, ma che avrebbe avuto motivo di odiarlo, divorato fin nelle ossa da una disperazione corrosiva più
dell’acido solforico.
C’era
odore di disinfettante e garze sterili su quell’ambulanza e due paramedici si erano
indaffarati al suo capezzale, per fare ciò che facevano ogni ad ogni chiamata: usare
bende e cerotti come nastro adesivo nel tentativo di tenere insieme i poveri
malcapitati di turno.
Forse
fu quello, il momento.
Forse
perché quel disinfettante aveva lo stesso odore
della lieve scia che John lasciava dietro di sé quando rincasava dai
turni in clinica, e si sa che gli odori hanno la fama di risvegliare i ricordi.
Si
era reso conto, d’improvviso, appena qualche minuto dopo aver riaperto gli
occhi, che John non c’era.
Non
lo vedeva, non lo sentiva, non percepiva
la sua presenza.
Non
aveva prestato attenzione ai paramedici che continuavano a chiedergli come si
sentisse, dove provava dolore e se avesse mal di testa. Appena ne aveva avuto
occasione si era alzato ed era uscito dal veicolo, incurante della camicia aperta
e dello scricchiolio sinistro delle proprie ossa – tutte le proprie ossa – e sordo alle proteste dei medici che
inutilmente avevano cercato di fermarlo.
Forse
lo sapeva già. Forse lo aveva capito ancora prima di svegliarsi ma aveva
scartato quell’informazione perché appuntita, incandescente, dalle estremità
taglienti.
Si
era ferito le mani, afferrandola, solamente quando aveva visto Lestrade venirgli incontro.
Capirlo
era stato immediato.
In realtà,
inconsciamente, già lo sapeva.
Ciò
che ti uccide di un’esplosione non è la vampata, ma l’onda d’urto. Ti investe
con la forza di un uragano artificiale e fa del tuo corpo ciò che vuole.
Lui
di fianco aveva avuto la piscina, John il muro. Il punto di svolta, il senso
primario, stava tutto lì.
Lui
aveva l’acqua, John la pietra. Lui era stato accolto da un abbraccio molle dall’odore
di cloro, John invece...
Anche
se cercava di negarlo, non poteva essere andata diversamente.
« È di John il
sangue che hai sotto la suola delle scarpe? » aveva domandando all’ispettore in
avvicinamento, il tono atono e piatto di chi non crede più in niente, e dopo
crederà solo nell’Inferno.
Lestrade si era impietrito, le labbra serrate.
Aveva guardato altrove e, con quel gesto non verbale, Sherlock aveva avuto la
sua conferma che era tutto reale.
Che
era successo davvero.
« Sherlock... » aveva accennato Lestrade con un filo di voce, gli occhi pieni di niente e l’espressione
di una persona nell’unico giorno in cui si pente di aver scelto la Polizia,
quando era stato il momento.
Lui
aveva alzato la mano, impedendogli di proseguire qualsiasi discorso avesse
anche solo pensato di propinargli.
E
come al solito, era il corpo a tradire ciò che la mente ancora cercava di
nascondere. La mano tremava, lì nell’aria notturna, e non per il freddo.
Non
era potuto rimanere lì un attimo di più. Si era semplicemente voltato e, nel
silenzio, allontanato oltre il cordone di volanti ed ambulanze, diretto verso
la prima strada utile lontano da lì.
Aveva
poi preso un taxi, almeno di questo serbava ricordo. Poi un momento di vuoto,
un tragitto di cui la sua mente aveva impietosamente rimosso ogni dettaglio dai
suoi ricordi, fino alla voce del tassista che gli diceva « Baker Street,
signore. 221B. È arrivato ».
Non
si ricordava se aveva pagato, ma era sceso. Il tassista era ripartito – quindi forse
lo aveva pagato – e lui era rimasto in piedi lì di fronte alla porta. Così. Per
molto tempo.
Fino
a quel momento.
Non
riusciva semplicemente ad attraversare quella soglia. Si sentiva bloccato,
immobile, sospeso in un istante congelato al di fuori di tutto.
Non
riusciva a pensare. Il suo cervello si rifiutava di fare anche il più semplice
ragionamento e lui – lui –
privato
di quella facoltà non aveva altro a cui aggrapparsi, su cui fare affidamento.
C’era sempre stato
John, per quello.
John.
Solo a richiamarlo nei propri pensieri – una voce distante ed echeggiante, come
se facesse già parte del passato e ne rimanesse solo un puro ricordo – gli si
attorcigliava lo stomaco. Il cuore, quello che da poco aveva con riluttanza
scoperto di possedere, mancava dolorosamente un battito, poi un altro ancora.
Accelerava, rallentava e poi accelerava di nuovo, in quella che sembrava
proprio un’imminente crisi di pianto, ma
Sherlock Holmes non ha crisi di pianto.
Ci
sono persone che non piangono. Non subito.
Lui
aveva semplicemente resistito fino a quel momento – resistito per tantissimi
anni; probabilmente era stato l’orgoglio smodato ad impedire alle lacrime di
scivolare giù, lungo le gote, a cancellare sporcizia e sangue in lievi righe
salate.
Ed
era ancora quell’orgoglio, forse, o forse il rigido contegno inglese ad
impedirgli di piangere smodatamente, scompostamente.
Solo
silenziosamente. Lasciava cadere lacrime amare senza raccoglierle.
Sembrò
un tempo infinito, molto più lungo, la mezzora che trascorse fermo immobile,
prima che fosse in grado di fare un passo avanti – e poi un altro ancora, e un
altro subito dopo.
In
tasca aveva ancora le chiavi del 221B – chissà come – ed inserendole nella
serratura aprì la porta.
Subito
gli sembrò di percepire la scia di pensieri del suo coinquilino. Lo vedeva
muoversi tramite ogni segno sul muro, in ogni imperfezione della ringhiera, in
ogni impronta lasciata sulla moquette delle scale. In ogni granello di polvere.
In ogni pensiero perduto in quel corridoio, che lui riusciva ad accarezzare con
gli occhi, a sentire sotto le unghie, o intorno al collo come una tiepida
sciarpa.
Lasciò
la porta aperta e, lentamente, cominciò la salita.
Il
terzo gradino scricchiolò, scricchiolava sempre. Subito, dei passi rimbombarono
vibrando nella muta disperazione ovattata che lo aveva circondato, veloci,
preoccupati. Venivano dal piano terra. La signora Hudson.
« Sherlock, caro,
cosa succede? La signorina Harriett ha già telefonato
due volte e suo fratello Mycroft ha... oh, santo
cielo! » si interruppe
esclamando quando lo vide, portandosi le mani alla bocca.
Sherlock
non rispose. Non ne trovava la forza, o il coraggio, o semplicemente non ne
aveva la cognizione di causa. Si limitava a guardarla, a metà della scala, le
labbra semichiuse in un sussurro che non voleva uscire, in una risposta a cui
non gli era permesso dare voce.
Dirlo
alla signora Hudson equivaleva ad ammetterlo prima con se stesso, e in quel
momento lui si stava aggrappando come un cieco all’illusione che quello fosse
solamente un incubo, magari il risultato di una dose azzardata di nicotina –
nonostante sapesse perfettamente che
none era quello l’effetto, che la nicotina non causava allucinazioni.
Ma
non c’era bisogno di trasformare la realtà in parole, la sua espressione faceva
tutto da sé. La sua immobilità mentale era sintomatica agli occhi degli altri,
e la signora Hudson era una padrona di casa estremamente perspicace.
« Sherlock... » pigolò « ...dov’è il
dottor Watson? ».
Sentirne
il nome pronunciato a voce – una qualsiasi voce, che era quella di mrs Hudson come poteva essere quella di chiunque – gli provocò
un moto di rigetto, ed ebbe la sensazione di poter sputare il fegato brandello
per brandello, pezzo per pezzo. Ma continuò a guardarla.
Lei
si mise a piangere. Probabilmente capì. Sicuramente lo fece.
Mentre
la donna si accasciava contro la parete con una mano sulle labbra a trattenere
i singulti, Sherlock riprese a salire. Non sapeva nemmeno lui quali fantasmi
stesse inseguendo, su per quelle scale, ma qualcosa lo guidava verso l’appartamento,
richiamandolo a sé.
Si
fermò, per un istante, davanti alla porta. Dal piano sottostante arrivava il
pianto disperato della padrona di casa, insieme alla voce sommessa piena di
spiegazioni di Mycroft – quando era arrivato? Non se
ne era minimamente accorto... – ma Sherlock era sordo, sordo in un modo che non
gli permetteva di sentire nient’altro che voci perdute, parole pronunciate nel
tempo ed assorbite dalle mura di quella casa – e lì rimaste intrappolate.
John
che rincasava con un “buonasera”, John che rideva sollevato dopo la loro prima
carambola per Londra, John che si lamentava della pioggia improvvisa, John che
lo rincorreva sul pianerottolo urlandogli di aspettarlo, John che borbottava
perché non c’era più latte.
John,
John, John, John, John.
John. John che gli
lanciava una sfida, una mattina a colazione.
C’era un castello
di carte sul ripiano della cucina.
Fra
la macchina del caffè e gli utensili a muro. Era stata un’idea di John. Era una
scatola di Schrödinger in cui avevano riposto
promesse che solo il tempo avrebbe potuto mantenere.
Di tempo non ne
avevano avuto a sufficienza.
Avevano
venduto loro stessi all’idea che il tempo fosse infinito, che il loro tempo lo fosse. Il loro sogni erano
così crollati, come castelli di carte costruiti sin dall’inizio in un
equilibrio precario.
Erano
stati sciocchi, e ciechi. Sciocchi e ciechi ed infantili come due... amanti.
Distorse
il viso in una smorfia, mentre girava il pomello ed entrava nell’appartamento.
Era
esattamente come lo aveva lasciato poche ore prima e faceva ancora più male,
bruciava come il fuoco dell’Inferno. Perché nell’aria c’era ancora il suo odore mescolato a quello delle
pagine dei libri, all’Earl Gray
con limone e poco zucchero, al cioccolato caldo con la cannella e al suono di
un violino che inscenava una pantomima di serenità.
E faceva un male
fottuto.
I
sensi di colpa cominciavano a mangiarsi la sua anima pezzo per pezzo,
destabilizzando la ragione, ovvero tutto ciò che era, il suo essere assoluto. Es, Io e Super Io racchiusi in una logica che stava
crollando a pezzi davanti alla perdita, davanti al sentimento ombra dell’emozione
che aveva appena perso: l’amore.
Era
rimasta solo la tristezza, la rabbia... e l’odio. Ma soprattutto una profonda
autocommiserazione.
Gli
scappò un singhiozzo, uno solo. Deglutì un grumo di dolore e, muovendosi ad
inerzia, seguì le voci della casa verso la cucina.
Là.
Il castello di carte era ancora là. Il mazzo al suo fianco, rappresentazione
del tempo che era stato loro rubato – 17 giorni, 17 giorni ancora... – e il significato
che esso aveva assunto da quella notte fino alla fine del tempo; un segreto
rinchiuso e lì rimasto, una frase rimasta inascoltata.
Maledì
il suo orgoglio. E se stesso.
Lentamente,
come se stesse sollevando un braccio composto di granito e non di carne e ossa
e sangue e pelle, allungò la mano verso la struttura, appoggiando il polpastrello
del dito indice sull’angolo centrale della pagoda. Fece una lieve pressione e,
così com’era stato creato, così scomparve.
Il
castello di carte crollò, spargendosi sul pavimento in un fruscio.
« Ti amo, John ».
S’illude
di sentire un fruscio di carte. Un sussurro che attraversa il tempo.
Sorride,
pensa di farlo.
“Anche
io, Sherlock.”
_____________________________________________________________________________
1 - Il paradosso del gatto di Schrödinger è una cosa un po' complessa, ma ne riassumerò
il senso generale per comprensione del passaggio. In poche parole, c'è un gatto
dentro una scatola. In questa scatola c'è un meccanismo che potrebbe uccidere
il gatto nel giro di un'ora, così come potrebbe non ucciderlo. Noi non vediamo
questo gatto dentro la scatola, ma solo l'esterno della stessa. Il paradosso
sta nel fatto che, dopo un'ora, per quello che ne sappiamo noi, il gatto
potrebbe essere sia vivo che morto; dal punto di vista della fisica, finché noi
non apriamo la scatola (e dunque non compiamo un'osservazione) il gatto E' sia
vivo che morto, perché le due condizioni si sovrappongono perfettamente (hanno
la stessa percentuale di possibilità).
2 - non ho trovato immagini in rete che
mostrassero un castello di carte del tipo che io chiamo "a pagoda" ma
è un castello un po' più stabile del classico a piramide, e un po' più facile
da mettere in piedi. Prende letteralmente la forma di una pagoda e, come
specifica Sherlock, viene costruito procedendo 2 carte alla volta: prima due a
piramide, poi due davanti e dietro, infine due ai lati scoperti superiori di
quelle che si sono appena posizionate. E così via.
3 - "Shit happens" (la merda capita) è un modo di dire inglese
non esattamente paragonabile a qualche nostro proverbio, motivo per cui l'ho
lasciato in lingua originale - rende maledettamente meglio così. Possiamo dire
che il significato è una cosa come "la sfiga ha sempre gli occhi aperti e
ti tiene d'occhio". In altre parole, le sfortune capitano sempre XD
4 - Frase cult di Sherlock Holmes già dai
tempi dell'originario "Mastino dei Baskerville".
È passata praticamente alla storia, non potevo tralasciarla.