Disclaimer:
I personaggi citati non mi appartengono ma sono di proprietà
della BBC e affini…
bla bla bla…non ci prendo soldi, mi piace solo farmi e farvi
del male;)
Buona
lettura.
WELCOME
HOME
“Keep
you eyes fixed on me. Could you do
that for me, please?”
Non ci
sarebbe stato neppure bisogno
di chiederlo. Ho sempre tenuto il mio sguardo puntato su di te,
l’ho fatto in
quel momento e continuo a farlo adesso, sebbene al posto di un corpo
longilineo
e pallido davanti a me ci sia un freddo marmo nero. Per tutti il genio
suicida,
Holmes lo strambo, l’impostore. Per me soltanto Sherlock,
perché nessuno degli
aggettivi banali che la lingua mette a disposizione potrà
mai descrivere ciò
che sei ai miei occhi. E tu l’hai visto, quel giorno sul
tetto, ne sono certo,
è per questo che mi hai chiesto di tenerli fissi su di te,
per poterti vedere
in essi e convincerti di ciò che sei realmente, al diavolo
Moriarty e le
falsità della gente.
“I
was so
alone and I owe you so much.”
Sono giunto
alla conclusione che il
dolore sia un ottimo antidoto alla noia, Sherlock. Lo cerchiamo ogni
momento
della nostra vita, perché ci piace sentire il nodo alla gola
e gli occhi che
pizzicano certi che, presto o tardi, passerà. La
felicità a lungo termine è
banale, la semplicità stessa della vita ci getta
nell’accidia, nell’insoddisfazione,
nel dolce far niente. Quanto è bello invece sentire
l’amaro in bocca? Aspettare
che arrivi qualcosa a toglierlo? Il dolore è adrenalina, la
paura è la siringa
che te la inietta; noi lo sappiamo bene, Sherlock. Noi che abbiamo
guardato la
morte e il pericolo in faccia più d’una volta,
insieme, consci che lo avremmo
superato. Ci siamo sempre gettati in corse sfrenate contro un buio che
a volte
neppure tu riuscivi a capire e, sebbene materialmente tu mi abbia
tenuto per
mano una sola volta, sapevo che lo facevi sempre, pronto a tirarmi al
tuo
fianco se solo mi fossi allontanato. Cercavamo il dolore per sentirci
vivi, per
farci sbattere contro un muro d’esistenza. Ma esiste un male
che non può essere
combattuto, che ti fa credere il contrario fino all’ultimo
secondo, finché non
sei sul tetto di un ospedale e non ti resta altro da fare che saltare.
È allora
che l’adrenalina ti si rivolta contro, spezzandoti le
ginocchia, e il sangue
corre così veloce che ti fa pulsare il cervello mandando a
farsi fottere ogni
raziocinio. Persino tu , che hai sempre fatto di tutto per evitarlo,
sei stato
tradito dalle emozioni. Non potevo vederle da laggiù, ma ho
sentito ogni
lacrima come se stesse colando sul mio viso ed è stato
allora che ho capito che
quella volta ci eravamo spinti troppo in là, che non ci
sarebbe stato nessun
“qualcosa” a togliere quel dolore.
“Goodbye
John”
Il telefono
lanciato a terra, il tuo
corpo che ondeggia verso il vuoto, il mio urlo, la caduta e il cuore
che si
ferma. I timpani che si spaccano, come ogni cosa che aveva retto in
piedi la
mia vita fino ad allora, come te, al suolo, su quell’asfalto
macchiato di
sangue.
-Ti ho sempre creduto Sherlock, ma non
stavolta. È tutto troppo assurdo anche per te.
Poggio una mano sulla lapide,
strozzando un sorriso amaro. Quante vite ho visto terminare in
Afganistan?
Quanti amici morire? Nessuna di quelle morti mi ha mai ucciso a sua
volta come
la tua. Forse ho semplicemente perso il rigore militare o forse
“migliore
amico” non è l’appellativo giusto per
te. Tuttavia chiederselo adesso non ha
minimamente senso, tu non ci sei più ed io muoio con te ogni
giorno, lasciando
pezzi di anima sulla poltrona vuota del 221b.
-Non sei un impostore. Sei un eroe, il
mio eroe se nessun’altro ti vuole. Quindi, ti
prego…smettila.
Ti volto le spalle, per non farti
vedere che sto piangendo. Abbiamo ottenuto quello che volevamo: un
dolore
eterno che ci salvasse dalla noia, ma non saremo
insieme ad affrontarlo. E adesso non mi resta
che tornare a casa.
“One
more miracle Sherlock. For me. Don’t
be dead.”
Vorrei uscire
fuori dal mio
nascondiglio, dietro a questo tronco, e venirti incontro. Vorrei fare
quel
miracolo per te, essere ancora una volta l’eroe che nessuno,
eccetto te, ha mai
visto ed invece rimango immobile ad osservarti, come sempre da un mese
a questa
parte. Abbiamo un appuntamento, John, anche se non lo sai. Ogni giorno
alla stessa
ora aspetto la tua visita, pregando che tu arrivi anche stavolta, che
tu non la
smetta di aspettarmi e trattengo il fiato finché non ti vedo
svoltare l’angolo
della cappella. Il passo sicuro e ritmato del soldato, la testa alta ma
l’anima
a terra, trascinata dietro al corpo per inerzia, attaccata alle toppe
del
giacchetto o al “mio” cappello che spunta dalla tua
tasca.
“I
was so alone. And I owe you so much.”
Sono sempre
stato convinto che la mia
mente fosse l’unica compagnia di cui avessi bisogno, la sola
cosa a dover
essere protetta e preservata. Poi sei arrivato tu e tutto è
cambiato. Ti sei
infilato nella mia quotidianità con una tale naturalezza che
era come se ci
fossi sempre stato. Con la tua vestaglia blu, i piedi scalzi, la tazza
di tè in
mano, i maglioni più strani e il tuo blog.
È sempre stato così scontato averti
attorno che non mi sono mai fermato a riflettere. Sì, John,
il
“super-scienziato” Sherlock Holmes non è
stato capace di usare il suo acume e,
così facendo, mi son lasciato sfuggire una verità
che ho compreso troppo tardi.
Ho dovuto provare la solitudine, ho dovuto sentire il dolore
dell’aver perso la
propria identità, la preparazione ad una morte nella
vergogna, per rendermi
conto di ciò che sei e che siamo. Vedi? Il corpo mi ha
tradito, di nuovo e te
ne sei accorto anche tu. Non potevi vederle le lacrime che hanno
impregnato
questa sciarpa, ma sono certo che le hai sentite nella mia voce
incrinata, così
come hai sentito le mie dita percorrere la linea del tuo viso.
Non era una recita John, sebbene
dovesse esserlo. Ero io, una parte di me che non avevo mai visto,
quella che
muore ogni giorno, portata via pezzo dopo pezzo dal dolore che io
stesso ti ho
inflitto. E mi spaventa,tanto che conficco le unghie nella corteccia
per
impedirmi di correre da te e mandare tutto il mio piano
all’aria, esponendoti
ad un altro pericolo inutile.
“Goodbye,
John”
Il cellulare gettato via, il mio corpo
che si sporge, gli occhi che corrono al camion dei rifiuti guidato da
Molly,
chiedendomi se sarei riuscito a centrarlo da lassù*, poi il
tuo urlo, un lancio
nel vuoto e il cuore che si ferma. Gli occhi che bruciano, colpiti dal
vento
come il mio cervello, dove ancora rimbomba l’eco della tua
voce, dove devo
decidere di lasciarti indietro, almeno per adesso.
-Sono qui, John.
Un bisbiglio che si perde tra le
lapidi. Infilo le mani in tasca, estraendo il telefono che ho
recuperato e
scorrendo la rubrica per poi fermarmi sul tuo nome. La tentazione di
mandarti
un messaggio è forte e lotta con rabbia contro la mia
razionalità, ma finché il
boom mediatico non si sarà placato non posso fare nulla
tranne rifugiarmi sotto
ai ponti, sparire nella mia rete di senzatetto. Sono gli unici che non
hanno
voglia né tempo di giudicare il prossimo, gli unici a cui
non importa chi io
sia o cosa faccia, la società perfetta per un sociopatico
come me.
Mi viene da sorridere al pensiero, un
sorriso amaro. Tu sei l’unico a non avermi mai giudicato e
non per mancanza di
voglia, ma perché non hai mai trovato niente in me che fosse
strano ai tuoi
occhi, l’unico che mi ha sempre appoggiato, negando la mia
colpevolezza anche
quando ero io a confessartela. I senzatetto sono la società
perfetta per un
sociopatico, tu sei la società perfetta per Sherlock Holmes.
E posso solo sperare, mentre te ne
vai, di trovarti ancora qui domani.
[Da
qui in poi consiglio l’ascolto di questa canzone (http://www.youtube.com/watch?v=PfbF44UeRBY)
che mi ha accompagnata mentre scrivevo il pezzo.]
Two
months later…
Il salotto
del 221b è avvolto dalla penombra,
illuminato qua e là dai raggi pallidi della luna, il
pavimento è ricoperto di
barattoli, provette, libri… in un angolo tre scatoloni vuoti
strappati ai lati.
La signora Hudson vi aveva riposto le cose di Sherlock per donarle ad
una
scuola ma John, dopo essere tornato nel loro appartamento
(perché non c’era
alcun posto dove volesse stare), si era opposto. Non ci era riuscito,
così come
non era stato capace di rimettere tutto apposto; il suo unico tentativo
era
fallito non appena le sue dita avevano sfiorato il violino,
costringendolo a
terra, rannicchiato come un feto, bagnato di lacrime e circondato da
oggetti
che sapevano troppo di passato per poterli anche solo toccare.
Fa qualche passo, cercando di non
calpestare niente, muovendosi con incertezza. La mente che trema, le
gambe
ingessate nei movimenti e le dita che accarezzano l’aria
silenziose. Tre mesi
sono passati dalla sua finta morte, la stampa oramai ha ben altro a cui
pensare
e lui è riuscito a trovare le prove per dichiararsi
finalmente innocente e
riprendersi la sua vita e tutto quello che contiene, John compreso. Ha
controllato spesso il suo blog, sperando di veder comparire un qualche
post che
gli dicesse come stava, cosa stesse facendo ed invece erano stati tre
mesi di
assoluto silenzio. Sherlock si era chiesto se lo avrebbe trovato a
casa, se non
si fosse rifatto una vita nel frattempo e quanto fosse giusto tornare,
rigettarlo in quella giostra di pericoli ora che lo aveva appena
liberato. Poi
però l’egoismo aveva vinto la ragione e si era
detto che se non doveva
rivederlo più tanto valeva morire sul serio. Così
eccolo lì a respirare piano
l’odore di casa.
Al piano di sopra John è avvolto dalle
coperte e suda, sebbene fuori ci sia la neve. Nella sua testa
c’è un bianco
opprimente, un bianco spaccato che cola sangue e si mescola ad un
azzurro così
familiare da farlo piangere nel sonno. Non sono spariti gli incubi, il
tempo
non è servito a nulla se non ad accentuare il vuoto nel suo
cuore allargandolo,
mese dopo mese, alla sua anima, al 221b e infine a Londra intera. Si
era detto
che sarebbe tornato, perché Sherlock non avrebbe mai
lasciato questo mondo
senza una meritata fama, il suo ego non glielo avrebbe permesso.
Così aveva
aspettato, ma dopo tre mesi di silenzio, persino le sue forze si sono
esaurite
riducendolo ad un corpo vuoto che grida la propria disperazione durante
la
notte, svegliando e commuovendo la signora Hudson, impotente davanti a
quel
dolore.
L’odore di casa è forte, pieno di
ricordi piacevoli che pizzicano gli occhi. Sherlock lo inspira piano,
come se
potesse finire da un momento all’altro. Passa una mano sul
legno lucido del
violino, abbandonato mollemente sulla sua poltrona nera, come un
silenzioso
cane da guardia che aspetta solo il ritorno del padrone. Serra le
palpebre, mordendosi
un labbro, immergendosi nel proprio palazzo mentale e ripercorrendo a
ritroso
porte e strade che, per il suo bene, aveva tenuto sigillate negli
ultimi tre
mesi.
La valigia rosa, la gelosia per il
primo appuntamento con Sarah, dinamite ed acqua che palpitavano sotto
pelle, lo
sguardo ferito dalla sua mancanza di tatto e quello soddisfatto dopo
avergli
detto di essere il suo unico amico, il modo fiero di annodarsi la
cravatta
prima del processo, la mano tesa verso di lui…
Un urlo, dal piano di sopra, lo sbalza
brutalmente nella realtà. Deglutisce un paio di volte,
cercando di capire come
mai qualcosa fa male dentro di lui adesso, lì dove teneva
rinchiuse tutte le
fastidiose emozioni. Qualcosa è appena scappato, correndo
come un folle per le
sue vene.
John si alza di scatto, la fronte
sudata, le guance umide e il battito irregolare, frenetico. Ha la gola
secca e
il suo respiro affannato non lo aiuta. Cerca di contenere i tremiti
mentre si
infila la vestaglia, quella blu che un tempo aveva indossato il suo
coinquilino
e che ancora possiede, intrappolato tra le maglie, il suo odore.
I gradini sembrano aumentare di numero
mentre li scende con lentezza calcolata. Deve bere qualcosa,
possibilmente
qualcosa di alcolico e forte. Il salotto del 221b di Baker Street
è semibuio ma
lui non accende la luce, conosce ogni angolo a memoria e teme di non
riuscire a
tollerare la vista di tutti gli oggetti che ricoprono il pavimento, non
a
quest’ora della notte. Si dirige in cucina, aprendo
furiosamente gli sportelli alla
ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa che abbia almeno un tasso alcolico
sopra lo
zero virgola uno. Niente, ad eccezione di una scorta di earl grey.
-Maledetta Mrs Hudson!
Urla al muro, sbattendo forte il pugno
sul tavolo per poi appoggiarvisi coi palmi aperti e lasciar scorrere le
lacrime
sul suo viso.
-Maledetto Sherl…
Si blocca. Non riesce a pronunciare il
suo nome, non è più capace da quando lo ha visto
cadere nel vuoto, come se le
lettere che lo compongo si fossero sfracassate al suolo con lui.
Afferra la
tazza, deciso a farsi un tè, qualcosa con cui spegnere il
fuoco che gli arde la
gola.
-John.
La ceramica cade con un tonfo al
suolo, sparpagliando piccole schegge bianche su tutto il parquet. Sente
il
sangue defluire dal cervello, abbandonando il suo corpo, rallentandogli
il
battito e non sa se credere a ciò che ha sentito oppure no.
Si volta piano,
pregando che tutto questo non sia l’ennesimo incubo,
altrimenti non sa se
riuscirà ad uscirne sano questa volta.
Sul profilo della finestra si staglia
una silhouette alta, riccioli scompigliati scappano alle linee perfette
di
quella figura. Non sa se crederci John, vorrebbe accendere la luce ma
ha paura
e non vuole rischiare di vederlo svanire, anche se fosse solo un sogno.
-Non farlo John, certe cose hanno bisogno
del buio.
Sherlock parla con voce tremante, come
se non fosse sicuro di quello che dice, come se ogni parola potesse
uccidere
definitivamente l’unica persona per cui è rimasto
in vita. Fa un passo avanti,
lasciando che la luce della cucina si appoggi sul suo profilo,
rendendolo
visibile.
John non parla, è immobile sulla
porta, le mani strette sulla stoffa della vestaglia e la lingua che
corre
nervosa ad inumidire le labbra secche. Non sa cosa dire e neppure cosa
pensare,
perché quando vedi di fronte a te una speranza che avevi tu
stesso seppellito
senza possibilità d’appello è come se
il mondo si rovesciasse, aprendoti una
voragine nel corpo che inghiotte e mescola le emozioni, tanto che non
sai se
ridere o piangere, o fare entrambe le cose insieme.
L’altro avanza ancora, rendendo
visibili anche i suoi occhi adesso. Due pezzi di ghiaccio
definitivamente
sciolti sotto le sue palpebre.
-Mi dispiace. Ho tanto da spiegarti,
John. Perdonami.
Per la prima volta nella sua vita
Sherlock ha paura di perdere qualcosa. Teme che il dolore sia troppo,
teme la
rabbia, la vendetta ma ancor di più teme
l’indifferenza. Perché sa che, se
rimanesse solo adesso, tornerebbe davvero sul quel tetto e si
getterebbe… senza
alcuna Molly ad aiutarlo.
Ma John non fa nulla di tutto questo,
si lascia andare ad un sorriso per poi corrergli incontro, sbattendo
sul suo
petto. Al diavolo il contegno militare, al diavolo tutto. Affonda il
viso nella
sua sciarpa, inspirando il suo profumo, riempiendoci ogni angolo dei
propri
polmoni. Le mani corrono sulla sua schiena, artigliandosi al cappotto
scuro,
tirandolo come se stesse per scappare via di nuovo, premendosi quel
corpo
contro il suo in una disperata ricerca di un contatto che manca da
troppo
tempo.
Le lacrime rompono gli argini, da entrambe
le parti, mentre l’altro lo avvolge in un abbraccio
silenzioso, sorridendo
sollevato, la guancia poggiata ai suoi capelli biondi.
-Sherlock. Sherlock. Sherlock.
Finalmente riesce a dirlo, John, ed è
come rinascere. Sente il dolore ammucchiarsi in un angolo e il cuore
riprendere
a battere con normalità.
Sono le quattro e mezza di notte al
221b di Baker Street, la signora Hudson, ferma a metà scale,
piange in silenzio
mentre Sherlock Holmes e John Watson si rialzano dopo aver affrontato
la loro
più lunga e terribile caduta, insieme.
-Stavolta per sempre, John.
*allora
io ho una mia teoria riguardo alla caduta. Sherlock fa posizionare John
dietro ad
una bassa struttura che gli copre la visuale del marciapiede dove
cade; quando John svolta l’angolo si vede il corpo di
Sherlock sdraiato di lato
(prima cosa strana visto che si è buttato ad angelo) dietro
ad un camion dei
rifiuti. Dopo una bicicletta colpisce in pieno John (altra cosa strana)
che si
rialza completamente stordito. A questo punto si può vedere
che il camion non c’è
più, si intravede solo la fine mentre va via, i paramedici
non fanno avvicinare
molto John, che quindi scioccato com’è non si
accorge di nulla, né della poca
somiglianza del viso con quello di Sherlock (il naso è
diverso) men che meno
del fatto che ha il cranio spaccato dalla parte destra quando,come
già detto, è
caduto di fronte. Then, i paramedici se lo portano via in fretta e
furia (e
siamo a tre cose strane). Quindi io credo che Sherly sia caduto sui
sacchetti
dell’immondizia, alla guida del camion
c’è Molly (o qualcun altro) la
quale ha provveduto a far cadere un corpo similissimo
a quello di Sherlock dove dovrebbe essere caduto lui.
NdA:
Parecchie cose hanno ispirato questa ff, oltre alla puntata
in sé che mi ha distrutto definitivamente. La prima
ispirazione è venuta con “Alibi”
dei 30stm, passata in shuffle all’mp3 stamani, che
è la mia colonna sonora
della prima parte (i pensieri, per intenderci). Per la seconda parte
devo l’ispirazione
a questa (http://27.media.tumblr.com/tumblr_ly1tv3jSYl1r9rfz5o1_500.png)
immagine, a mio parere bellissima. La colonna sonora della seconda
parte,
invece, che ha ispirato anche il titolo è “Welcome
Home” dei Radical Face, l’ho
scoperta scaricando un fanmix intitolato “Three years
later” che trovate,
insieme ad altri due molto belli a questo link:
http://www.mediafire.com/?lrqzvi45v89vy
Fine
della parte burocratica;) Si, lo comprendo, ormai sforno
angst a palate e ne vado fiera, sappia telo. Ringrazio tutti voi che
avete
letto, ancor più voi che commenterete e spero di avervi
fatti piangere, sì sono
una sadica ù.ù
Permettetemi di dedicare questa piccola creazione alle lacrime
del “mio Sherlock” (che è anche la mia
beta, oltretutto), perché è grazie ad
esse che la pubblico con tanta soddisfazione… le sue
emozioni sono la cosa più
bella che mi sia dato di osservare a questo mondo.
Detto
ciò… peace, love and biscuits **
Per sempre vostra, ma non troppo.
Edenya
(per chi mi seguiva prima, sono Mione14, ho cambiato nick :P)