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Autore: _untitled    04/09/2006    1 recensioni
Due anime solitarie che vagano indistinte nella massa di gente, due storie diverse che si incrociano ma non si toccano, una sola la strada che percorrono. Un racconto su quanto la musica possa essere importante, di come sia in grado di regalarti un paio d'ali. Perchè in fondo non è poi cosi difficile imparare a volare... (Scritto a quattro mani con mia cugina Chiara)
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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saxophòne

 

 

C’era un flusso di gente che sembrava un fiume, e l’aria era così calda da stordirti.

Erano lì, tutti quanti, a boccheggiare per l’afa, ma, quasi invasati dalla bella stagione, dalla temperatura alta, dalla continua ricerca di brezza, tutti impegnati a mettere in fila i propri passi per arrivare in qualsiasi luogo, qualsiasi. L’importante era che il luogo ci fosse.

Lui era lì.

Lo potevi vedere che tagliava come una lama sottile la massa di corpi che avanzava senza ragione, che turbinava e ronzava come uno sciame di api ubriacate dal fumo del fuoco.

Lui era lì: il passo distratto, l’incedere a volte indugiante, lo sguardo assente sul muro informe di colori e suoni e voci.

Senza un motivo, lui andava, in una via che non aveva scelto, ma che si era semplicemente disegnata senza rumore dinanzi a lui.

 

 

Ricordo ancora nitidamente il caldo avvolgente di quel pomeriggio. Attraversavo le solite vie di sempre, senza particolari stimoli da parte di qualcuno o qualcosa. Era soltanto una semplice passeggiata per fuggire momentaneamente dall’emicrania che immancabilmente ti viene a trovare, se per troppo tempo si è in casa al buio, a guardare il mondo da dietro vetri sempre troppo puliti.

Credevo così che la migliore cosa da fare fosse mescolarsi con la massa ignota della gente che come al solito affollava il centro storico della cittadina.

Non c’era un motivo esatto.

Iniziava la discesa, senza molta curiosità posavo gli occhi sui piccoli chioschi che circondavano la via. Una donna, al lato della strada, allattava un bimbo dal suo umile seno, volgendo lo sguardo al mare che appena si intravedeva, in lontananza. Aveva un abito rosso, molto leggero, e dei disegni scuri, con delle macchie incerte; non riuscii bene ad identificare cosa fossero.

Strano come un piccolo particolare possa rapirti la vista, prendendosi gioco della primadonna.

Provai un senso di claustrofobia, così valutai che forse, sarebbe stato meglio forzare la vista su altro.

Feci pochi altri metri, finché il mio udito non andò ad abbracciarsi con un’ insolita melodia, che non avevo mai sentito. O forse avevo smarrito col tempo, nel tempo.

Che strano sentire echeggiare per quel borgo, così antico ma ormai così moderno, quelle note forestiere che dilagavano in un piccolo – benedetto – raggio.

Ne fui attratto immediatamente. Decisi che il mio cammino verso il nulla avrebbe potuto anche prendersi una pausa, tanto non c’era fretta.

Allora successe qualcosa che avevo dimenticato da molto tempo, un tempo infinito, dilatato dalla routine e dal grigiore della città invernale: successe che cominciai a provare attenzione per qualcosa.

Purtroppo quella cosa era talmente sfuggente che dovetti mettere in guardia i miei sensi e così, come risalendo da una lunga apnea, mi misi in testa di raggiungere quel luogo.

Più scendevo e più sentivo l’aria salmastra che, pungente, maliziosa, dannatamente fresca nello scirocco, ti invitava ad andare oltre, sempre oltre, a gettarsi sempre oltre la balaustra di ferro battuta erosa dal tempo e dall’aria delle maree, dalle unghiate dei suicidi.

Ma intanto, la musica.

Ancora, come l’eco di paesi al di là del mondo sensibile, si levava nell’aria ferma con così tanta facilità che non solo il mio corpo e la mia anima erano stati catturati da quella rete di note, ma più persone, che, risvegliandosi con dolore, staccandosi con sforzo immane dalla corrente di corpi silenziosi, ristagnavano quasi nello spiazzale dell’affaccio, tenendosi a debita distanza da quella musica, da quella creazione di pazzi deliranti invasati da Arte che anche il mondo aveva rigettato.

Io mi avvicinai.

A discapito forse della mia salute mentale, gettando oltre la ringhiera la paura di vivere – vivere finalmente – una giornata e non sfuggirle, stringere patti con lei, guardarla mentre ti appare sempre bellissima e provocante dalle vetrate gelide delle mie camere buie.

 

 

 

Il sassofono seguiva i movimenti del corpo esile di lui,e lui, più che imporsi, guidava come un tutore, sorreggeva lo strumento come si farebbe con un caro amico dopo una sbronza colossale, una di quelle che non dimentichi, una di quelle da cui impari.

 

 

 

Non ero furiosa.

La rabbia, cieca che sia,o sorda, o qualsiasi altra stronzata filosofica del genere è capace di riempirti come nessun altro sentimento e io, in quel momento, non mi ero mai sentita così sola e così vuota.

Mi aveva tradito, se ne era scappato.

È chiaro gente, dico, i maschi sono tutti così.

Arrivati ad un certo punto si stancano, hanno bisogno di aria nuova e volano per altri cieli.                          

E io?

Beh…io sono stata solo una povera sciocca, ingenua ragazzina che non aveva atteso il prossimo treno: avanti figliola, la prossima volta sarà quella MIGLIORE.

No, io ho preso il primo treno che mi si è fermato davanti.

Il problema è che avevo un biglietto di sola andata per un posto che esisteva soltanto nella mia folle testa di sedicenne.

Nel posto in cui abitavo, non so perché, ma era sempre notte. Una notte continua, un buio che andava a sostituirsi al giorno, con immediata facilità. Ma nel buio, l’unico ossigeno, l’unico modo di vedere, diventava la musica.

Dico, c’era musica dovunque: voltavi l’angolo e c’era qualcuno pronto a suonare per un sorriso, per una moneta, per uno sguardo, per una parola.

E c’era a danza, musica e danza e cuore e passione. Mai dolore, mai solitudine, sempre e solo follia e armonia della musica.

Quella volta però fu diverso. C’era qualcosa di magnetico che attirava la mia vista, quello che vedevo non era soltanto un uomo che suonava uno strumento a fiato. Il suo blues era bello come una giornata di sole, di quelle in cui i raggi ti avvolgono e tu diventi parte di loro, un tutt’uno.

Luce a cui aspiri quasi dolorosamente, che invochi per cercare di scacciare via, esorcizzare il freddo che ti ghermisce quando sei così debole da lasciarti andare.

Come luce accecante e magnetismo sensoriale.

Ero rapita totalmente.

Troppo fresco era il ricordo di Lui e di New Orleans, e le note che fuoriuscivano da quello strumento erano come frecce roventi scagliate da un arco imbizzarrito, che io, troppo buia, ancora invischiata dalla nera musica della mia città attiravo.

E facevano male.

Perché le mie ferite erano ancora aperte, lacerazioni profonde nell’immenso abisso di me stessa. Nessuno aveva avuto il coraggio di curarle. Nessuno aveva avuto mai il coraggio di oltrepassare i miei muri, di giungere nelle profondità del mio essere.

Fu così che sentii gli occhi curiosi della folla piombarmi addosso, come se lo spettacolo fossi diventata io, di punto in bianco. Una tempesta di occhi curiosi e beffardi, che nel loro mondo di normalità non avrebbero mai concepito il pianto, che mi avrebbero dato della pazza, che sarebbero stati pronti a legarmi ad un tronco scuro e darmi fuoco, e a ridere, e ad annuire mentre io brucio, brucio, divento una rosa di fuoco perdendo tutto il mio buio, la mia città, la mia musica, me stessa.

Ebbene si, senza che me ne accorgessi stavo piangendo, un pianto straziato, senza misura, che si alzava con forza nell’aria del cielo che limpido – troppo, troppo limpido – ci guardava poco interessato dal suo posto privilegiato.

Senza che me ne accorgessi urlavo e inveivo.

Mi disperavo.

Mi sentivo così stupida e ingenua, così pazza a pensare di aver mollato tutto per un uomo che non aveva mai capito niente di me, dei mondi in cui vivo, della musica che scaturisce da me mentre amo, della mia anima che può diventare Musa, dei sentimenti che mi possiedono, mi innalzano, mi buttano in strada.

Mi fanno piangere.

Cercai di ricompormi alla meno peggio, presi un fazzoletto dalla borsa e cercai di asciugarmi le guance piene di lacrime al retrogusto di matita che – potevo giurarci – doveva aver disegnato una strada – no due, due due due due – scura, come di sangue rappreso, di note sbiadite, scivolate da un vecchio spartito polveroso, sul mio viso di bambola devastato.

In quel momento mi accorsi che la musica era svanita e con lei i pochi curiosi che osservavano, tornati finalmente alla corrente incosciente.

Rimasi li’ impietrita, non avevo più impulsi razionali da comandare alle gambe, non avevo potere su di me, alcuno.

 

 

Pensai di essere completamente apatico. Nemmeno una giovane ragazza che di punto in bianco si metteva a urlare, con quella voce tenera e forte, di disperazione riusciva a riportarmi nel “mondo dei vivi”.

Non so quale forza mi obbligo’ a guardare il suo volto per la seconda volta, ancora.

Mi accorsi che una piccolissima parte di me avrebbe voluto chiedergli il perché di tutto quello strazio, di quelle lacrime che le macchiavano il vestito nero, che venivano assorbite dalla stoffa come se non ci fossero mai state.

Forse in mezzo a tutta quella gente mi sembrava la persona più viva di tutte.

La sentivo vibrare.

Sentivo l’urlo silenzioso di tutti i suoi sentimenti espandersi e investirmi.

Mi colpi’ molto quel suo modo istintivo di sfogarsi. Era come una tempesta. E io non potei fare a meno di guardare quegli occhi piccoli e neri riempirsi di lacrime e rompere gli argini dell’inconscio, per poi sfociare liberamente in un oceano di tristezza, infinito, dove la mente può essere libera di perdersi, senza troppe conseguenze.

Forse non ero ancora morto.

Guardai ancora, per la terza volta, e la vidi genuflettersi morbidamente - si muoveva il suo abito nero nella luce e nel vento di quello strano pomeriggio - e lasciare una monetina nella custodia rigida dell’ottone. La grazia con cui compì quel gesto avrebbe potuto sciogliere anche il marmo più duro del mondo. Nel momento in cui la monetina tocco’ il fondo della custodia tintinnò destando il musicista che con un inchino composto ma sincero, guardandola timidamente, ringraziò.

 

 

 

Tentai di lasciarmi alle spalle il pianto, e singhiozzando ancora guardai negli occhi il bizzarro musicista col suo strumento in mano. Si fece avanti, non so bene il perché di questo gesto, spiegato forse dal mio pianto, dal mio rimanere ferma davanti a lui, e io quasi per rompere l’imbarazzo creato dal suo gesto inatteso, gli chiesi che strumento fosse di preciso, il suo. Non conoscevo molto gli strumenti a fiato e non che me ne importasse poi troppo, ma fu la prima cosa che mi venne in mente.

“Saxophone, saxophone soprano” disse lui.

Pronuncio’ quelle parole con uno spiccato accento francese e sorrise, un sorriso sincero, di chi ha trovato il suo sole, di chi è sereno, di chi è contento di vivere con quelle poche monetine e di indossare sempre i soliti vestiti sudici, perché il bene più’ prezioso di tutti era sicuro di averlo con se, e se lo teneva stretto, e ne mostrava – una parte – agli altri, un raggio di sole, un raggio di luce per i mendicanti dell'anima.

Il suo bene si chiamava libertà.

Mi rialzai, salutai con la mano e cercai di fare il sorriso più bello che avessi potuto, in qualche modo volevo sdebitarmi, mi aveva regalato una grandissima lezione, quel sorriso.

 

 

 

Seppur spettatore, quel sorriso entro’ prepotentemente in me. In quel momento mi sentii talmente disarmato che provai una sensazione di vertigine. Non capivo cosa mi fosse successo, ne perché quel dannato musicista fosse entrato cosi di prepotenza nella mia vita, con il suo sorriso irresistibile, più luminoso di una stella alla sua nascita, alla sua morte.

La ragazza, con le guance ancora umide gli rispondeva e se ne andava, ma sembrava più’ serena. Forse aveva vinto la sua sfida, si era rialzata un’altra volta, e per farlo si era servita soltanto di un sorriso.

Intuii che era giunta l’ora di rompere quei vetri limpidi e tentare di guardare il mondo con i miei veri occhi. Avrebbe fatto male, e di questo ne ero consapevole, ma era il caso di provare.

Tentare di spiegare le ali e librarmi più’ in alto possibile, più’ veloce e luminoso della luce, più forte del vento, oltre la nostra follia che è la nostra condanna, che è il nostro marchio, che è il coltello che trancia i fili con l’esterno, che è la nostra insonnia, che è la nostra vita…

 

 

Il musicista e il suo saxofono, due amanti inseparabili, figli della libertà più’ pura, ripresero a danzare e a regalare magia insieme, fluttuando nel vento, più forti di tutti, ancora una volta, senza avere paura di mostrare la loro libertà. In trasparenza, per sempre, fino alla fine.

  
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