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Autore: Enrychan    24/01/2012    6 recensioni
«Mio figlio nascerà a Masyaf», tagliò corto l’Assassino. «È la mia ultima parola sull’argomento».
«Allora, che Allah ti assista», disse Jabal. «Perché non so quanti altri lo faranno».
Genere: Introspettivo, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altaïr Ibn-La Ahad , Altro personaggio, Malik Al-Sayf
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L’edificio era così anonimo e confuso in mezzo ad altri in tutto e per tutto simili, che all’inizio Maria temette di avere individuato quello errato. Non era altro che una costruzione rettangolare, in pietra, con il tetto piatto ed una porta in legno sbiancato ed essiccato dal sole. Dovette compiere ancora qualche giro nei dintorni per accertarsi di avere seguito correttamente le indicazioni. Infine si decise a bussare, ed una voce maschile all’interno le rispose: «Avanti».
Una volta aperta la porta, la donna fu finalmente sicura di non avere sbagliato abitazione: si trovò infatti di fronte allo stesso vecchio rafiq che le aveva portato il cibo durante il paio di giorni che aveva trascorso imprigionata nella Dimora degli Assassini di Acri, più di un anno addietro. Ricordava vagamente anche la stanza in cui ora si trovava, anche se l’ultima volta aveva soltanto potuto intravederla, prima che le fosse rimessa la benda sugli occhi. Nella penombra rischiarata da una lampada ad olio appoggiata sul tavolo, poteva intravedere anche la porta dietro la quale era rimasta rinchiusa durante la sua breve permanenza, prima di partire per Cipro insieme ad Altaïr.
Il rafiq aveva alzato gli occhi sull’ospite inattesa; ma doveva poi averla riconosciuta a sua volta, perché aveva riabbassato lo sguardo e aveva ripreso a scrivere. «Benvenuta», la salutò senza entusiasmo. «Chiudi la porta, se non ti dispiace. L’aria fa tremare la fiamma».
Maria eseguì quanto richiesto, poi compì qualche passo all’interno della Dimora degli Assassini di Acri. Ora poteva osservarla con più calma, rispetto ad un anno prima. Non che ci fosse molto da vedere, in ogni caso: si trattava di una semplice stanza quadrata, dominata dalla presenza del massiccio tavolo di legno a cui era seduto il rafiq. Al muro alle sue spalle era appoggiata una libreria che nella sua parte superiore toccava il basso soffitto. Sugli scaffali erano impilati vecchi codici rozzamente rilegati con lo spago, mucchi di rotoli e pochissimi libri degni di questo nome. Uno degli scaffali a metà altezza ospitava una piccola gabbia di legno da cui proveniva il sommesso tubare di quattro piccioni viaggiatori. In un angolo erano appoggiati a terra un paio di cuscini, accanto ad un basso tavolino che reggeva una scacchiera da shatranj. Alcuni dei pezzi di giada e di ossidiana erano già stati spostati dalla loro posizione originale, segno di una partita interrotta. Altri cuscini erano gettati nell’angolo opposto. Una porta aperta, schermata da una tenda cremisi, conduceva ad un altro ambiente che Maria non conosceva; ma a giudicare dal lieve suono di scorrere d’acqua e dal frinire dei grilli, era con tutta probabilità un’area esterna, forse un cortile o una veranda. Un incensiere spento, appoggiato su un secondo tavolino, spandeva ancora nell’aria un filo di fumo dalla fragranza dolce che in un’altra occasione Maria avrebbe forse trovato gradevole, ma che in quel momento le provocò un nuovo attacco di nausea. Il silenzio nella Dimora era totale, ed attutiva i rumori provenienti dall’esterno a tal punto che le sembrò quasi di essere improvvisamente entrata in un altro universo. Soltanto il lievissimo scricchiolio della penna del rafiq sulla pergamena spezzava la quiete che regnava nella stanza.
«Sono Maria Thorpe», iniziò a dire la donna, incerta, dopo alcuni minuti di sospensione.
«Mi ricordo», rispose l’altro, interrompendo il suo lavoro soltanto per intingere di nuovo la punta della penna nel calamaio. «Ci siamo già conosciuti. In circostanze un po’ diverse, a dire il vero. In ogni caso Altaïr mi ha già dato istruzioni riguardo alla vostra… attuale situazione».
A Maria non piacque il fatto che l’uomo le parlasse senza nemmeno guardarla; non le piaceva nemmeno l’idea di dover ricorrere al suo aiuto, ma non c’era altra soluzione. «Ho bisogno di contattarlo», disse. «Ho qualcosa di importante da dirgli. Puoi farlo per me?»
«Devo», la corresse pacificamente lui. «Sono per l’appunto gli ordini che ho ricevuto».
Maria fu certa di avvertire una sfumatura di personale disapprovazione nel suo tono di voce, ma si sforzò di ignorare la cosa. «Ti ringrazio», disse. «Ho però anche un altro favore da chiederti».
«Se rientra nelle mie possibilità».
Maria fece un respiro profondo e si appoggiò istintivamente la mano destra sul ventre. «Ho bisogno di un posto dove stare», disse, «perché sono incinta di quasi quattro mesi e rimanere al castello sta diventando difficoltoso e pericoloso per il bambino».
Per la prima volta dall’inizio della conversazione il rafiq alzò gli occhi su di lei, con un’espressione stupita. Per un attimo Maria vide l’ombra di un dubbio danzare nel suo sguardo, ma alla fine l’uomo non commentò né pose domande. «Certamente», disse. «Puoi usare la mia camera. La stessa dell’ultima volta».
«Mi spiace privarti del tuo letto».
«Nessun problema», la rassicurò. «Altaïr non lo sa, immagino», aggiunse poi.
«Non ancora. È per l’appunto ciò che devi mandargli a dire».
«Capisco. Vai pure a riposare, mentre io gli invio un messaggio. Se hai fame, di là c’è del pane, un po’ di formaggio e della frutta fresca».
Dopo tanto tempo passato negli squallidi e freddi quartieri dei soldati semplici e degli ufficiali minori al castello di Acri, la stanza del rafiq le sembrò quasi una reggia; e non doversi nascondere per ottenere un minimo di intimità le parve un vero lusso. Sebbene spartano, il letto era anche leggermente più grande e comodo rispetto alla piatta tavola di assi su cui era abituata a dormire; eppure Maria non chiuse occhio per tutta la notte, e faticò a riposare anche nei giorni successivi. Rimaneva per ore con gli occhi aperti nel buio, chiedendosi con inquietudine quale sarebbe stata la reazione di Altaïr nel ricevere il suo messaggio.
Del resto non aveva molto da fare nella Dimora degli Assassini, e Jabal – questo era il nome del rafiq – non era certo di grande compagnia. Parlava raramente e solo per necessità. Pur mantenendo un tono cortese con lei, la guardava sempre con quella sfumatura di disapprovazione di cui Maria si era accorta fin dal primo istante.
La donna aveva provato a leggere qualcosa di ciò che riposava nella polvere della libreria, ma erano libri e rotoli scritti in arabo, lingua per la quale era semi analfabeta. Per la maggior parte della giornata sedeva sui cuscini nella veranda, ascoltando i rumori cittadini provenienti dall’esterno. Si annoiava, ma non voleva uscire. Di ritorno dalle sue commissioni, Jabal l’aveva avvertita che alcune squadre di soldati giravano alla sua ricerca. Maria se l’era aspettato: a quel punto era considerata alla stregua di un disertore. Fortunatamente la donna non era abbastanza importante da spingerli a compiere delle ispezioni più approfondite, e nessuno venne a disturbarli; ma se fosse uscita, il pericolo di incontrare qualcuno in grado di riconoscerla era reale. Se fosse stato per lei l’avrebbe fatto in ogni caso, magari buttandosi addosso un mantello e coprendosi la testa con il cappuccio. Ma la gravidanza l’aveva resa molto più prudente di un tempo e non aveva alcuna intenzione di far correre rischi inutili al figlio che le cresceva in grembo.
Passarono lentamente undici giorni. Il pomeriggio del dodicesimo Maria era di nuovo distesa tra i cuscini nel piccolo cortile, la schiena appoggiata al muro. Nella libreria aveva trovato un vecchio codice persiano e benché non potesse leggerne nemmeno una sillaba, aveva trascorso un po’ di tempo ammirandone le miniature circondate da intricatissime decorazioni in lapislazzuli e foglia d’oro, che ricordavano i motivi floreali dei tappeti provenienti dal Khurasan o da Bukhara. La mancanza di sonno aveva però avuto la meglio e Maria aveva finito per addormentarsi sotto i raggi del sole invernale, con il volume aperto sulle gambe.
Si risvegliò qualche ora dopo. Non avrebbe saputo dire quante, ma a giudicare dalla luce che ancora regnava fuori dalla Dimora, poteva ipotizzarne non più di una o due. Non si trovava più nella veranda: era infatti distesa sul letto nella stanza del rafiq. Qualcuno l’aveva spostata mentre stava dormendo e l’aveva coperta con un manto di lana. Ancora in parte immersa nel dormiveglia, si chiese perplessa se Jabal avesse davvero avuto la volontà e la forza fisica necessarie per usarle questa gentilezza; ma poi si accorse di altre voci sommesse provenienti dalla stanza attigua, tra cui una molto familiare.
Liberatasi degli ultimi strascichi di sonno, Maria balzò in piedi e spalancò la porta. «Altaïr», esclamò. Non si era sbagliata. Lui, Jabal e un altro giovane Assassino stavano discorrendo seduti a terra sui cuscini, tra piccole nubi di vapore che si innalzavano dai bicchieri di tè bollente ai loro piedi. Dopo il primo momento di euforia, in qualche modo Maria fu certa di essere stata proprio lei l’argomento della conversazione fino a quell’istante. All’improvviso fu di nuovo presa dall’inquietudine.
Altaïr si alzò, congedandosi dagli altri due con un lieve cenno del capo; senza una parola la raggiunse e richiuse la porta alle proprie spalle. Maria si sentì spaventata dal questo comportamento e si affrettò a scusarsi precipitosamente: «Mi dispiace avertelo detto così tardi, Altaïr», ma prima ancora che avesse terminato la frase, lui l’aveva già circondata con un braccio e le posò un bacio sulla tempia ed uno sulle labbra. La sua guancia e il suo mento ruvidi di barba non del tutto rasata le pizzicarono la pelle. «Come ti senti?», le mormorò dolcemente all’orecchio.
Dopo il primo momento di smarrimento, Maria si tranquillizzò e lo strinse a sua volta tra le braccia. «Bene», rispose. «Un po’ stanca. La nausea va e viene, ma molto meno rispetto a qualche settimana fa».
«Quattro mesi, Maryam», disse Altaïr con un tono severo, ma non aspro. «Quanto avevi in mente di aspettare prima di dirmelo?»
«Ti ripeto che mi dispiace», replicò lei bruscamente, pur rendendosi conto di essere nel torto, e si lasciò cadere sul letto. «Temevo che non lo desiderassi».
«Ti sbagliavi».
«La nostra situazione è complicata».
«Questo non ha niente a che vedere con il bambino», disse Altaïr. «Restare al castello… restare nell’esercito per ben quattro mesi, pur sapendo di essere incinta. Hai messo in pericolo te stessa e nostro figlio, senza nemmeno avvertirmi».
«Lo so. Avevo paura».
L’Assassino si accovacciò di fronte a lei e le prese le mani nelle proprie. «Non devi averne».
Maria alzò lo sguardo su quel viso magro e affilato e su quegli occhi fermi e penetranti e realizzò fino a che punto le erano mancati durante quei mesi di lontananza. «Ora non ne ho», lo rassicurò, e lo baciò sulla fronte. «Ma ammetto di avere passato qualche notte insonne, in questi ultimi tempi».
Per un attimo Altaïr sembrò incerto su come affrontare l'argomento. «Sai meglio di me che in queste condizioni non puoi più rimanere ad Akkā», disse con circospezione.
Maria annuì. «Non preoccuparti. Avevo già messo in conto la necessità di venire a Masyaf con te».
Lui parve sollevato dal fatto che fossero giunti a quella conclusione senza litigare. «Partiremo domani», stabilì. «Non possiamo aspettare oltre, o la tua gravidanza diventerà troppo avanzata per viaggiare».
Maria fece di nuovo cenno di sì con il capo, poi gli prese il volto tra le mani e lo trasse verso di sé per baciarlo. Altaïr assecondò il suo movimento e lo proseguì, inducendola a distendersi sul letto senza interrompere il bacio e intrecciando le proprie dita con le sue. Per qualche istante Maria si chiese se non stesse ancora sognando. Il calore del suo corpo e l’odore della sua pelle le diedero le vertigini, come se fosse la prima volta che la toccava. «Mi sei mancato», mormorò quando si staccarono per riprendere fiato, e ridacchiò mentre Altaïr le posava un altro piccolo bacio sulla punta del naso. Le dita di lui le accarezzarono una guancia, scesero lungo il collo, le sfiorarono un seno e infine le si appoggiarono aperte sul ventre, che aveva iniziato a gonfiarsi proprio in quelle ultime settimane. Con un lento movimento, la mano di Altaïr seguì quella prima dolce rotondità. Maria lo lasciò fare in silenzio, poi gli diede un bacio sulla guancia. «Ne sei felice?», gli chiese.
Altaïr tornò a guardarla. «Credo di non avere ancora realizzato appieno», rispose con sincerità.
Maria sorrise e gli circondò il collo con le braccia, attirandolo a sé. «C’è ancora tempo».
Si scambiarono un ultimo bacio, prima di uscire e raggiungere gli altri due. Una volta seduti sui cuscini, il rafiq servì a Maria un bicchiere di tè caldo, mentre Altaïr le presentò il giovane Assassino che aveva già intravisto poco prima: si chiamava Yusuf e a differenza dei suoi superiori indossava una tunica corta, dal cappuccio grigio. «è ancora un novizio, ma entro l’anno passerà al rango superiore e inizierà a portare la lama nascosta», le spiegò Altaïr. «Sempre che non commetta qualche sciocchezza, nel frattempo».
Sulle labbra di Yusuf comparve un sorriso imbarazzato: con ogni evidenza Altaïr si riferiva a qualche episodio in particolare di cui Maria non poteva essere a conoscenza, ma che invece il ragazzo aveva ben presente. L’ammirazione che provava per il confratello più vecchio brillava così nitida nei suoi occhi, che la donna se ne accorse fin dal primo istante e lo prese in simpatia. «Da che pulpito», esclamò dando una leggera gomitata sul braccio del compagno. «Parla quello che di sciocchezze non ne ha mai commesse».
«Non capisco a che cosa tu ti riferisca», replicò Altaïr con aria seria.
«Certo che no», rise Maria.
«In ogni caso», riprese l’Assassino, «Yusuf è la seconda metà della tua scorta. È stato molte volte ad Akkā e conosce palmo a palmo la strada che percorreremo fino a Masyaf. Puoi fidarti di lui come ti fideresti di me».
Maria rivolse un sorriso a Yusuf, che rispose con un semplice cenno del capo. In quel momento nella sua espressione la donna intravide la stessa sfumatura di diffidenza che aveva notato in Jabal; pensò che lei avrebbe anche potuto fidarsi ciecamente di lui, ma con ogni probabilità il sentimento non sarebbe stato ricambiato. D’altronde, se era stato diverse volte ad Acri, Yusuf aveva quasi certamente sentito parlare di lei e sapeva del suo passato. Maria non poteva certo biasimarlo.
«Abbiamo bisogno di un mezzo di trasporto», stava intanto dicendo Altaïr. «L’esercito crociato controlla ogni nave che entra o esce dalla baia e la costa è in mani cristiane almeno fino a Şūr. Dovremo viaggiare via terra. Ci occorre un carro a uno o due cavalli».
«Posso ancora cavalcare», protestò Maria, tutt’altro che entusiasta all’idea di farsi trasportare come una malata.
«Fingerò di non avere sentito», la fulminò lui con un’occhiata e un tono che non ammettevano repliche. Maria era ben lungi dall’esserne intimorita, ma decise di assecondarlo perché, dopotutto, si sentiva un po’ in colpa nei suoi confronti.
«Posso occuparmene io, Maestro», si propose Yusuf. «Cercherò qualcosa di veloce e non troppo grande, che non dia nell’occhio».
Il confratello più anziano annuì. «Partiremo domattina prima che il sole sia sorto, in modo da evitare le ronde, per quanto possibile».
«Permetti una parola, Altaïr?», intervenne Jabal, che era rimasto in silenzio fino a quel momento. «Ciò che penso di tutto questo, te l’ho già detto prima. Ma voglio ripetertelo ancora una volta».
«So bene che sei contrario, rafiq», disse Altaïr.
«Il problema non è ciò che penso io, dā'ī, ma ciò che penserà l’Ordine intero. La tua presa su Masyaf è ancora debole, e portare lì questa donna vi darà il colpo di grazia. Obbligare gli Assassini ad accettare la sua presenza tra di loro sarà considerato sconveniente da tutti e oltraggioso da alcuni. Ricorda che hai dei nemici all’interno della fortezza. Non aspettano altro che un tuo passo falso. Valuta attentamente ciò che stai per fare». Il suo tono era calmo ma tagliente.
Maria avrebbe voluto rispondergli, ma che cosa avrebbe potuto dire? Non si era aspettata niente di diverso. Però sentirselo rinfacciare in modo così diretto da qualcuno che sembrava stare dalla parte di Altaïr, le faceva temere ciò che sarebbe successo quando avrebbero affrontato coloro che invece gli erano avversi.
«Non sono stupido al punto da non immaginare le reazioni dell’Ordine», stava replicando duramente Altaïr. «Nonostante questo, non prenderò nemmeno in considerazione l’alternativa che sembri suggerire».
«Il tuo egoismo ha già rischiato di farti precipitare, Altaïr», gli ricordò Jabal. «Fai attenzione, perché questa volta potrebbe riuscirci. Tu rischi di portare un altro conflitto potenzialmente sanguinoso all’interno nostro Ordine, in nome del tuo insensato sentimento per una straniera e una nemica».
«Non sono una nemica», gridò Maria, infuriata. «Se lo fossi, questo posto non esisterebbe più da mesi, e forse neanche tu».
Il rafiq le rivolse uno sguardo di ghiaccio. «Taci, donna», sibilò. «Qui nessuno ti ha rivolto la parola».
Maria serrò i pugni fino a piantarsi le unghie nel palmo, cercando di trattenere la collera. «Me la prendo da sola, la parola!»
Altaïr mise la mano sinistra sopra la sua e gliela strinse, facendole intendere di calmarsi. «Basta così, rafiq», disse intanto, rivolto a Jabal. «Ti ho già detto che la mia decisione non è revocabile».
«Nessuno accetterà la presenza di questa straniera. Sappilo, Altaïr».
«Mio figlio nascerà a Masyaf», tagliò corto l’Assassino. «È la mia ultima parola sull’argomento».
«Allora, che Allah ti assista», disse Jabal. «Perché non so quanti altri lo faranno».
 
Partirono all’alba, come Altaïr aveva stabilito. Yusuf si mise alla guida del leggero carro coperto che aveva acquistato la sera precedente dal mastro carpentiere del distretto, mentre il confratello più anziano lo precedeva a cavallo. Maria fu contenta di abbandonare Jabal e la sua silenziosa Dimora, e dopo ancora qualche rimostranza finì anche per apprezzare la comodità del suo mezzo di trasporto. Lasciarono la città accodandosi a una carovana di pellegrini cristiani - salvo abbandonarla poco dopo essere usciti dalle mura - e si diressero verso est, in direzione del lago di Tiberiade, per uscire prima possibile dai territori cristiani. La prima parte del viaggio si svolse in silenzio, sia perché a Maria sembrava che Yusuf non avesse una gran voglia di conversare con lei, sia perché non le dispiaceva godersi ancora per un po’ il profondo silenzio del giorno nascente. Si era creata un angolo confortevole nella parte posteriore del carro, distendendo un paio di coperte e sedendovisi sopra, e per la maggior parte del tempo osservò il paesaggio. La campagna attorno ad Acri mostrava ancora evidenti i segni della guerra. Attraversarono diversi villaggi in parte o del tutto in rovina e molti campi bruciati; spesso incrociarono manipoli di soldati crociati che pattugliavano la regione. Per sicurezza, ogni volta Maria si tirava il cappuccio fin sugli occhi, in modo da scongiurare ogni rischio di essere riconosciuta. A tratti cedeva alla stanchezza accumulata in quei mesi e cadeva in un dormiveglia superficiale. Verso metà giornata finalmente abbandonarono il Regno di Gerusalemme ed entrarono nel territorio controllato dall’esercito di Saladino. Maria però se ne rese conto soltanto quando Yusuf passò nei pressi della cittadina di Šafā ‘Amr, dov’erano alloggiati alcuni reparti dell’esercito del sultano pronti per nuovi attacchi alla base cristiana di Acri.
«Quando abbiamo superato i posti di blocco?», chiese sporgendosi verso la parte anteriore del carro. Si accorse che avevano cambiato direzione ed ora i due cavalli che li trainavano procedevano al trotto verso nord. Davanti a loro non c’era traccia di Altaïr.
«Ne abbiamo oltrepassato uno mezz’ora fa», rispose il novizio. «Credo tu stessi dormendo, sayyidah».
«è probabile», disse la donna, perplessa. «Non mi sono accorta di nulla. Mi aspettavo almeno un controllo…»
«Ce l’aspettavamo anche noi», disse Yusuf. «Ecco perché il maestro ci ha preceduti ed ha prevenuto quest’inconveniente».
Maria intuì ciò che il giovane Assassino sottintendeva. «Ah», fu tutto quel che riuscì a commentare. C’erano delle volte in cui si sentiva sollevata al pensiero di non avere più Altaïr come nemico. «Se io fossi Saladino, considererei seriamente l’ipotesi di un’alleanza con Masyaf», ironizzò. «Ho l’impressione che la guerra terminerebbe nel giro di una settimana».
«Per questo Şalāh ad-Dīn non fa che inviarci ambasciatori», disse Yusuf. «Ma a noi non interessa. Non è la nostra guerra».
«Capisco».
«Comunque non è il caso di giudicare l’Ordine sulla base dell’abilità del maestro Altaïr», disse il novizio. «Lui è il migliore tra noi».
«Se la cava discretamente», concesse Maria con un sorriso.
Yusuf la guardò storto per un attimo, prima di capire che stava scherzando. «A Masyaf è molto ammirato», aggiunse allora. «Perfino i suoi nemici non faticano ad ammettere il suo talento».
«Ma immagino che sia anche molto odiato».
«Come lo sai?»
«Ne accennava Jabal ieri sera. E poi Altaïr ha un carattere che può facilmente risultare sgradevole».
«Una volta era molto più arrogante rispetto ad ora».
«Fa del suo meglio», disse Maria. «Mi fa piacere sapere che ha anche persone leali come te su cui contare».
Yusuf rimase in silenzio per qualche secondo. «Mi ha salvato la vita, una volta», disse infine. «Ma non è per questo che lo seguo. O non solo per questo. Lo faccio perché credo che lo meriti».
Non aggiunse altro, e Maria non cercò di approfondire. «Parlami dei suoi nemici», gli chiese invece.
«Ne ha diversi», rispose il novizio. «La fazione a lui più ostile si raduna attorno ad uno dei dā'ī più giovani. Si chiama Abbas. Lui e il maestro hanno la stessa età e sono cresciuti insieme. Che io sappia, Abbas gli è sempre stato nemico, forse per invidia. Ma non si può negare che sotto certi punti di vista abbia ragione. Ed è questo il vero problema. Abbas e i suoi non costituiscono un pericolo di per se stessi, ma per il clima generale».
Maria annuì. «Ci sono dei dubbi sulla lealtà di Altaïr», disse, «perché ha ucciso il precedente signore della fortezza».
Yusuf le lanciò un’altra occhiata, ma stavolta era piena di stupore. «Sai molte cose, sayyidah. Te ne ha parlato il maestro?»
«No, affatto», rispose Maria. «Non ne abbiamo avuto l’occasione, e poi credo che a lui non piaccia tirare fuori l’argomento. Ma per me è stato facile da immaginare. Tu sai chi ero all’epoca, Yusuf?»
«Lo so».
«Bene. Voglio essere sincera con te».
«Ma ti consiglio di non esserlo altrettanto, a Masyaf», disse lui. «Se si venisse a sapere che eri il luogotenente di de Sable, le cose potrebbero precipitare».
«Certo».
Maria era contenta di avere iniziato a rompere il ghiaccio con Yusuf e sperava di riuscire a guadagnarsi presto la sua fiducia. Interpretò positivamente in questo senso il fatto che durante il resto del viaggio il ragazzo fu abbastanza disponibile ad informarla più nel dettaglio su ciò che era successo dopo la morte di Al Mualim.
Il pomeriggio stava declinando verso l’oscurità della sera quando Altaïr tornò indietro e scortò il carro fino alla radura riparata, in corrispondenza di una delle curve della strada, dove avrebbero passato la notte. Accesero il fuoco e cenarono con le provviste portate da Acri, che consistevano principalmente in carne d’agnello affumicata, una scorta di marqūq e alcuni manāqīsh bi-l za’tar comprati il giorno prima, che finirono subito. Yusuf aveva ormai sciolto almeno una parte delle riserve su Maria e conversava più tranquillamente di prima. Altaïr invece era silenzioso come al solito, e finito il pasto si allontanò di nuovo per controllare i dintorni.
Poiché aveva dormito un po’ quella mattina, Maria andò di nuovo a coricarsi nel carro solo quando le stelle brillavano da tempo sulla volta nera del cielo. Yusuf aveva rifiutato categoricamente la sua offerta di sostituirlo nel turno di guardia ed ora sedeva accanto al fuoco fissandone le fiamme e smuovendone a tratti i ciocchi, per riattizzarle. Maria era quasi sul punto di assopirsi ascoltando quel sommesso crepitare, quando Altaïr ritornò e scambiò qualche parola a bassa voce con il novizio. Maria lo chiamò.
«Riposa, Maryam. È tardi», le disse lui, avvicinandosi.
«Oh, stai un po’ zitto», lo rimbeccò lei, irritata. «Non trattarmi come se avessi una specie di malattia. Sono l’unica che non ha fatto nulla tutto il giorno». Gli tese le braccia e non appena fu salito a sua volta sul carro lo strinse a sé, facendogli scivolare giù il cappuccio.
Lui la baciò e la indusse a distendersi di nuovo sulla coperta. «Non posso restare, lo sai», disse poi. «Tra poco inizia il mio turno di guardia».
«Ma se non hai dormito nemmeno durante il turno di Yusuf». Maria sospirò contrariata e lo lasciò andare. «E il mio turno di guardia quando viene, maestro
«Non hai turni di guardia».
«Chissà perché, lo sospettavo».
«Dormi, habeebti. Abbiamo ancora molta strada da fare». La baciò sulle labbra, poi si spostò e si chinò di nuovo su di lei, ma questa volta per posarle un bacio sul ventre. Intenerita, Maria gli accarezzò i capelli. «è un maschio», mormorò.
«Come lo sai?» chiese Altaïr.
Maria sorrise. «Me l’ha detto lui», rispose. «Saresti più felice, se fosse un maschio?»
Altaïr rimase in silenzio per qualche secondo. «Sì, lo sarei», disse infine.
«Anche io».
«Ma per motivi diversi da quelli che credi».
«Forse no», disse Maria, e gli accarezzò una guancia con l’indice.
Altaïr si piegò di nuovo su di lei per baciarla. «Tesbaheen ‘ala khayr, hayete», la salutò dolcemente, prima di allontanarsi.
 
Il giorno dopo il cielo iniziò a coprirsi di nubi grigie. Di tanto in tanto nell’aria vibrava il rumoreggiare di tuoni ancora lontani sull’orizzonte a nord, e si era alzato un vento freddo e pesante che odorava di umidità. Altaïr cavalcò al loro fianco per diverso tempo, senza pronunciare una sola parola; ad un certo punto però spronò il proprio cavallo, li superò ed entro breve scomparve dalla loro vista.
Verso la fine della giornata entrarono in una fertile valle, che Yusuf le indicò come Bahr al Hulah, incassata tra i ripidi pendii del Hadbatu 'l-Jawlān a est e le montagne del Al Jaleel Al A'alaa a ovest. Costeggiarono un lago grigio, dalle sponde irregolari e paludose, popolate da stormi di gru bianche e nere e da mandrie di bufali d’acqua dalle enormi corna ricurve, i cui rauchi richiami riecheggiavano nella pianura.
Altaïr finalmente ritornò indietro, proprio mentre iniziavano a cadere le prime gocce di una pioggia che non li avrebbe abbandonati per buona parte del viaggio, in un’alternanza di deboli schiarite e nuovi rovesci. «Prosegui fino ad Al-Khalisa», ordinò a Yusuf, prima di far voltare ancora il destriero e dare di sprone.
Al-Khalisa era un piccolo villaggio costruito con le pietre rotolate giù dalle montagne, e sorgeva in mezzo ad una rete di torrenti e ruscelli che azionavano alcuni mulini ad acqua. Giunsero quando la luce era già scomparsa, pioveva a dirotto ed i cavalli erano estenuati dal lungo cammino e dalla marcia nel fango che si era subito formato sul sentiero.
Altaïr li stava aspettando ed aveva già trovato una famiglia disposta ad ospitarli per la notte, in cambio di denaro. I padroni di casa condivisero con loro una cena a base di pane, riso e pesce e permisero loro di sistemarsi nel fienile, che era ampio e asciutto e odorava di erba secca.
Poiché Yusuf si sentiva esausto e non riusciva a tenere gli occhi aperti, Altaïr accettò di sostituirlo durante il primo turno di guardia. Non appena si fu disteso sulla paglia, il novizio si addormentò profondamente; per qualche minuto gli unici suoni a interrompere il silenzio furono lo scrosciare dell’acqua sul tetto del fienile e il lieve russare del giovane Assassino.
«Mi chiedo come tu faccia a restare ancora vigile», disse Maria appoggiando la testa alla spalla di Altaïr. «Da quel che ricordo, non dormi da almeno due giorni».
«Ho riposato un paio d’ore, prima dell’alba. Non sono stanco».
«Bugiardo. Comunque, sei stato gentile con Yusuf. Credevo fossi il tipo che prende a calci la sentinella addormentata».
«Una volta, forse», disse Altaïr. «E poi lui è ancora molto giovane. Alla sua età il sonno è duro e pesante e impossibile da rimandare».
La donna sorrise. «Mi ha detto che gli hai salvato la vita».
«Qualcosa del genere», mormorò l’Assassino con aria assorta. «Ma l’ho fatto più per me stesso che per lui».
«Certo. Mai ammettere un istante di genuino slancio umano nei confronti di un’altra persona! Potrebbe rovinarti la reputazione», lo stuzzicò Maria ridacchiando.
Altaïr non replicò. Si chinò su di lei per baciarla a lungo sulla bocca e sul collo, e le strinse i seni tra le dita, sopra la spessa stoffa della tunica. Ad un certo punto si alzò in piedi e la prese per mano. La condusse nell’angolo più remoto e riparato del fienile, dove le aprì le gambe e la possedette in silenzio, senza quasi spogliarsi e senza dire una parola. Maria lo assecondò e gli prese i fianchi tra le mani per incoraggiarlo a penetrarla più a fondo. «Stai tranquillo, non ci rompiamo. Né io né il bambino», gli sussurrò all’orecchio. Un lieve sospiro fu tutto ciò che gli sfuggì dalle labbra quando le si riversò in grembo. Giacque su di un fianco, respirando contro l’incavo della spalla di lei, il membro che ancora pulsava forte dentro il suo alveo umido.
Maria gli circondò il collo con le braccia e lo baciò sulla tempia bagnata di sudore. «Sei distante» mormorò. «Dimmi che cosa ti preoccupa. Yusuf mi ha già raccontato qualcosa, ma vorrei sentirlo dalle tue labbra».
Altaïr non rispose immediatamente. «Yusuf deve imparare a tenere a freno la lingua», disse infine. «E tu non devi pensarci».
«Perché dici così? Sai bene che la mia presenza peggiorerà la situazione, a Masyaf. Ho bisogno di sapere come evitarlo, per quanto possibile».
«Non preoccuparti di questo».
Maria si sentì profondamente infastidita da quella sua freddezza. «Sono cose che riguardano anche me».
«Sono problemi che io stesso ho causato. Spetta a me risolverli».
«Non dire idiozie. Per che altro starei al tuo fianco, se non per sostenerti?»
«Se ne avrò bisogno, sarai la prima a saperlo».
Maria lo sciolse dal suo abbraccio e lo allontanò da sé con una spinta. «In pratica sono la tua compagna solo quando si tratta di scoparmi».
«No», disse lui, senza alzare il tono a sua volta. «Non l’ho mai detto né pensato».
«Quando fai così, improvvisamente mi rendo conto del perché a tante persone riesce facile odiarti».
Questa volta l’Assassino non tentò nemmeno di rispondere. Maria si sentiva furiosa sia per quella che interpretava come un’evidente mancanza di fiducia nei suoi confronti, sia per il fatto che Altaïr rimanesse così calmo e apparentemente insensibile, mentre lei se la prendeva tanto a cuore. La donna si voltò dall’altra parte e si chiuse in un silenzio rabbioso.
Altaïr si sporse su di lei e le posò un bacio tra i capelli. «Mi spiace», mormorò, prima di rialzarsi. Si mise di guardia sulla soglia del fienile e per tutto il tempo in cui Maria rimase sveglia lui non fu più altro che una sagoma grigia sullo sfondo della pioggia battente, immobile e lontano come un’ombra notturna.
   
 
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