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Autore: My Pride    24/01/2012    8 recensioni
Ho veduto più di quanto io stesso abbia mai voluto vedere.
Desideri, sogni, promesse ed incubi: per quanto apparisse orribile, tutto ciò era meraviglioso.

Sorrise e si accucciò contro il bancone di legno del bar, apparendo ai miei occhi come un grosso felino compiaciuto. E quegli occhi che possedeva accentuarono quel paragone. «Piuttosto, ti piacerebbe riuscire a dar vita a ciò che immagini, scrittore?» mi domandò, lasciando cadere le formalità iniziali.
Non fu quello ad accigliarmi, bensì le sue parole. Sbattei dunque le palpebre, incredulo. «Ti sembra forse che io abbia scritto fesso in faccia, amico?»
[ Prima classificata al contest «Origami di carta» indetto da Fe85 ]
[ Vincitrice del Premio grammatica al contest «Voglie estive di gustose letture» indetto da aturiel ]
Genere: Drammatico, Sovrannaturale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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[ Prima classificata al contest «Origami di carta» indetto da Fe85 ]
[ Vincitrice del Premio grammatica al contest «Voglie estive di gustose letture» indetto da aturiel ]


Titolo:
Tschüss, Faust
Autore: My Pride
Fandom: Originali › Sovrannaturale
Tipologia: Racconto breve
Genere: Drammatico, Sentimentale, A tratti vagamente introspettivo, Malinconico, Sovrannaturale
Rating: Giallo / Arancione
Beta Reader: No
Avvertimenti: Slash, Probabilmente non per stomaci delicati, Vagamente - o forse anche troppo - nonsense
Nota: Nel corso della storia potrebbero essere presenti espressioni come “Aye” e “Nay”, che significano rispettivamente “Sì” e “No” in italiano, e “Och”, che è un rafforzativo del “Sì”. Esse non sono un errore, bensì una scelta personale dell’autore, ormai affezionatasi a tale dicitura.
Piscina dei prompt: Originale, Sovrannaturale, Illusioni psicologiche

Eventuali Credits: Credits presenti nelle “Precisazioni e curiosità” alla fine della fanfiction
Note dell’autore: Note presenti alla fine della fanfiction



DISCLAIMER:
All rights reserved © I personaggi presenti in questa storia sono tutti maggiorenni e mi appartengono, dal primo all'ultimo. Sono comunque frutto di pura immaginazione. Ogni riferimento a cose e persone realmente esistite e/o esistenti è puramente casuale.
This work is licensed under a Creative Commons Attribution-Noncommercial-No Derivative Works 3.0 License.



TSCHÜSS, FAUST [1]
 
Ho veduto più di quanto io stesso abbia mai voluto vedere.
Desideri, sogni, promesse ed incubi: per quanto apparisse orribile,
tutto ciò era meraviglioso.


ATTO I: ST. LOUIS › LUGLIO 2008
OCCHI DI TIGRE NEL VOLTO D’UN UOMO
 
    Guardavo svogliatamente i fogli bianchi dinanzi a me e il solo farlo mi faceva sentire patetico.
    Erano tre giorni che tentavo inutilmente di buttare giù due righe, ma, ogni qual volta mi sedevo alla mia scrivania, sentivo come uno spasmo allo stomaco e mi bloccavo, venendo assalito dal panico. Avevo sì scritto qualcosa, però avevo buttato via il foglio non appena mi ero ritrovato a rileggere quelle poche parole che non mi avevano per niente convinto. E io mi reputavo uno scrittore? Un ciarlatano, ecco cos’ero.
    «Hai fatto progressi?» Al suono di quella voce, mi voltai in direzione della porta, vedendo il mio coinquilino entrare nello studio con un semplice asciugamano legato alla vita. Beh, perfetto. Butch Morrison aveva appena infranto con la sua sola presenza la già poca concentrazione che avevo. Alto un metro e novanta scarso, Butch era una specie di sosia di Will Smith dal fisico del lottatore di boxe e, con quelle goccioline d’acqua che luccicavano sul petto, riusciva di sicuro a catturare la mia più completa attenzione. Diamine, come pretendeva che facessi progressi con quel dannato libro se si presentava così?
    Distolsi lo sguardo a fatica, sbuffando sonoramente prima di poggiare un gomito sul bordo della scrivania e sorreggermi il viso sul dorso della mano. «Per niente», borbottai, picchiettando con due dita della sinistra il legno. «Ho buttato giù due righe, ma non mi convince».
    «Dai qua, fa’ vedere», esordì Butch, allungando una mano verso di me mentre con l’altra si sorreggeva l’asciugamano. Riluttante, mi chinai a raccogliere il foglio appallottolato che avevo lanciato nel cestino nemmeno un’ora addietro, consegnandolo poi nel suo palmo aperto prima che lui lo srotolasse senza tanti preamboli. Cominciò a leggere ad alta voce, sapendo bene quanto la cosa mi snervasse. «“Quando il sole batté contro le finestre del suo ufficio, quel mattino, il detective Montgomery pensò che non avrebbe potuto continuare con quell’andazzo”», mi scoccò un’occhiata, ma continuò, sollevando un angolo della bocca in quello che mi sembrò un mezzo sorriso. «“Aveva passato l’intera nottata chino sulla documentazione di Sawyer il Macellaio, ma, per quanto avesse tentato di venire a capo di quel complicato caso, non ne aveva cavato un ragno dal buco”». Aggrottò la fronte, poi alzò rapidamente lo sguardo da quel foglio stropicciato per fissare me. «Hai in mente di fare un seguito di “Blood and Gunfire”, per caso?»
    Annuii piano, molto piano. «L’intenzione era quella», confessai afflitto, lasciandomi sfuggire un piccolo colpo di tosse, «ma stenta ad ingranare la marcia».
    «Quello di cui hai bisogno adesso è una bella serata tra amici, Jake». Mi si avvicinò e mi diede una pacca su una spalla, sorridendo. «Vedrai che dopo un paio di bicchieri ti sembrerà andare tutto alla grande».
    Malgrado tutto, sorrisi anch’io. «Per te ogni scusa è buona per farmi bere, eh?» lo presi in giro, sentendolo ridacchiare sottovoce. Non sarebbe mai cambiato, poco ma sicuro. Ero praticamente cresciuto con lui, se la si voleva mettere su quel piano. Entrambi orfani, avevamo vissuto in un orfanotrofio situato alla periferia di St Louis, in compagnia di molti altri bambini con cui ormai avevamo perso i contatti. Sin da piccolo, Butch mi aveva protetto dalle angherie dei ragazzi più grandi, poiché ero sempre stato un bambino gracilino senza una gran spina dorsale; a complicare le cose ci si era messo anche il mio stato di salute cagionevole sin dalla nascita, e non avevo mai saputo difendermi da solo. Le cose erano cambiate intorno ai quindici anni, certo, ma avevo sempre provato una sorta di gratitudine nei confronti di Butch; con il tempo, la nostra secolare amicizia si era pian piano evoluta, ed erano ormai quattro anni che ci frequentavamo come coppia di fatto. Non ero neanche sicuro che fosse giusto chiamarlo amore, però, fino a quel momento, le cose fra noi erano andate a gonfie vele ed era questo ciò che interessava ad entrambi. A noi stava bene così.
    Butch si chinò verso di me e mi sfiorò una guancia con le labbra, ravvivandomi i capelli all’indietro dopo aver poggiato
il foglio stropicciato sullo scrittoio. A quanto sembrava, aveva intenzione di farmi continuare da lì, ma io non ne ero poi così sicuro. «Vado a vestirmi, tu intanto aspettami in macchina», mi disse, raddrizzando la schiena. «Cinque minuti e sarò da te».
    Lo seguii con lo sguardo mentre si allontanava, approfittandone anche per lanciare un’occhiata al suo sedere sodo. Era magnifico anche con quell’asciugamano, e quasi mi faceva venir voglia di cestinare l’idea della serata tra amici e passare invece le restanti ore serali a rotolarmi nel letto con lui. Scossi immediatamente il capo e mi battei il palmo di una mano sulla fronte, alzandomi. In teoria avevo una scadenza da rispettare, dunque non potevo mettermi a pensare a cose come il sesso per quanto esse mi tentassero.
    Mi umettai le labbra e rimisi al proprio posto la sedia, gettando un’ultima occhiata sulla scrivania prima di uscire finalmente dallo studio; attraversai il disimpegno adorno di fotografie - alcune erano persino state scattate a nostra insaputa, e ritraevano noi due a pomiciare sul divano; mi ero un po' arrabbiato, al principio, ma poi avevo deciso di tenerle - e andai verso l’ampio ingresso, arraffando le chiavi della macchina dalla bacheca in cui le custodivamo. L’auto di Butch era un’Impala del ’67
 [2] dalla carrozzeria nera e luccicante, e, per quanto gli avessi più volte ripetuto che avrebbe magari potuto cambiarla con qualcosa di più moderno, lui non aveva mai voluto saperne. Finché funzionava l’avrebbe tenuta, aveva detto, e quando si metteva in testa una cosa era difficile farlo tornare indietro.
    Attesi per ben quindici minuti che Butch mi raggiungesse, senza però accomodarmi sul sedile anteriore: l’estate a St. Louis era terribile, dunque quella macchina sarebbe solo diventata una trappola simile ad una fornace anche con tutti i finestrini aperti. Non tirava un filo di vento nonostante fosse quasi sera, e avrei di sicuro dato di matto se la figura di Butch non si fosse finalmente stagliata sulla soglia di casa. Chiuse la porta e trotterellò verso di me, facendomi cenno di lanciargli le chiavi. Non appena lo feci, lui le prese al volo ed aprì la portiera, sedendosi al posto di guida.
    «Cinque minuti, eh?» lo sfottei, entrando in macchina dopo di lui.
    Chiuse l’auto e mi gettò un’occhiata, inserendo le chiavi nel quadro d’accensione per mettere in moto la sua bambina, come tanto soleva chiamarla. «Ho chiamato i ragazzi», mi informò semplicemente. «Ci aspettano al Sub Zero
 [3] tra mezz’ora».
    Beh, perfetto. Aveva davvero intenzione di passare una serata tra amici. E io che mi ero illuso fosse solo una scusa per portarmi fuori, per una volta che aveva il giorno libero dal lavoro! Sbuffai e alzai lo sguardo verso il tettuccio, incrociando le braccia al petto senza dargli a vedere quanto la cosa mi irritasse. In fin dei conti voleva solo fare una cosa carina per me, comportarmi come una ragazzina non sarebbe servito a niente.
    Partimmo alla volta di Lafayette Park e sfrecciando nei colori del crepuscolo, vedendo pian piano la città inghiottita dalla notte. Impegnato com’ero nel guardare fuori dal finestrino, non mi accorsi che Butch stava armeggiando con lo stereo, e ben presto le note della canzone Eye of the Tiger
 [4], sparata d’improvviso a tutto volume, mi fecero sobbalzare. Stornai lo sguardo verso Butch per fissarlo con tanto d’occhi, vedendolo canticchiare qualche strofa come se nulla fosse. «Quando ti deciderai a cambiare canzone?» gli domandai, senza ricevere nessuna occhiata. Però sorrise.
    «
È la mia preferita, perché dovrei?»
    «Potresti almeno abbassare il volume?»
    Sbuffò. «Andiamo, Jake, sembri una vecchia checca isterica, oggi».
    Socchiusi gli occhi e mi massaggiai la fronte. Aveva ragione, purtroppo. Quella sera stavo dando di matto e mi stavo comportando come un cretino. «Scusa, Butch, è che questa faccenda del libro non mi da’ pace. Forse dovrei semplicemente smetterla di fingermi uno scrittore e cercarmi un altro lavoro».
    «A me sembra che i tuoi libri abbiano venduto milioni di copie», rimbeccò, degnandosi finalmente di guardarmi per un breve istante prima di tornare a fissare la strada.
    Io, invece, tornai a guardare fuori, perdendomi nell’oscurità che imperversava. «Era un solo libro, Butch», precisai, «e stiamo parlando di “Blood and Gunfire”».
    «Però alla gente è piaciuto».
    Già. Alla gente era piaciuto. “Blood and Gunfire” era stato il mio primo e solo libro in una carriera cominciata due anni addietro. Le avventure del detective Montgomery Jane avevano fatto breccia nel cuore delle persone di ogni fascia di età, nonostante si fosse trattato di un thriller pesante. Non mi ero difatti risparmiato nel raccontare fatti di cronaca nera e i cruenti massacri di quell’assassino sociopatico che avevo creato e che portava il nome di Sawyer il Macellaio. Mi ero rifatto alla storia di Jack lo Squartatore e l’avevo riveduta in tutt’altra chiave, dando vita ad un best seller che aveva scalato le vette editoriali. Venirne a conoscenza mi aveva riempito di gioia, ma da quel momento in poi non ero più riuscito a scrivere una sola parola di quella storia o di altre. Blocco dello scrittore, lo chiamavano. Beh, diamine, quel mio blocco durava ormai da un bel pezzo e la cosa era snervante.
    Fu continuando a guardare fuori che borbottai, «Possiamo tagliar corto, Butch? Non sono in vena, sul serio».
    Mi giunse in risposta un lungo sospiro. «D’accordo, Jake. Fa’ finta che non abbia minimamente aperto bocca», replicò schietto, e nella sua voce mi parve di sentire una nota vagamente offesa. Och, fantastico! Ci mancava soltanto quello. Però in fin dei conti non potevo dargli tutti i torti. Con le sue parole voleva soltanto cercare di spronarmi e le sue intenzioni erano state quindi più che buone, ero io che forse diventavo un po’ troppo isterico quando si toccava quel determinato argomento.
    «Ehi, Butch», provai a chiamarlo per scusarmi ancora una volta, ma lui non sembrò per niente intenzionato ad ascoltarmi. Lasciai dunque perdere con un sospiro, tornando a fissare fuori mentre le note della canzone non facevano altro che martellarmi la testa e farmela dolere all’impazzata. Per quanto gli piacesse sul serio, la verità era che Butch continuava a metterla nella speranza che Eye of the Tiger mi desse la grinta di cui necessitavo. Sembrava veramente stupido da dire, ma lui credeva davvero che qualche parola buttata in mezzo a della musica rock potesse servire a dare la carica giusta. Però non era forse anche per questa sua ingenuità che mi ero innamorato di lui?
    I quarantacinque minuti che ci separarono dal locale li passammo in seguito nel più completo silenzio, escludendo unicamente la musica che permeava l’abitacolo. Eravamo passati dal rock al jazz senza che nessuno dei due se ne fosse accorto immediatamente, troppo presi dai nostri pensieri e dal tenerci il broncio a vicenda. Su quel punto non eravamo affatto cresciuti: eravamo esattamente come all’orfanotrofio, due stupidi mocciosi grandi e grossi. Fu solo quando vedemmo finalmente il Sub stagliarsi dinanzi ai nostri occhi che riacquistammo un po’ di tranquillità, sorridendoci persino. Butch parcheggiò sulla destra del marciapiede e scese per primo dopo aver inserito la sicura, facendomi cenno di fare svelto lo stesso mentre si infilava in tasca le chiavi della sua preziosa auto. Attraversammo la strada pullulante di macchine e persone guardando a destra e a sinistra, non volendo rischiare che qualche tizio ubriaco ci sbalzasse in aria proprio a pochi passi dal locale. L’interno di esso era chiassoso come al solito, e una canzone dei Linkin Park
 [5] di cui non conoscevo il titolo rumoreggiava in ogni angolo come se ci si trovasse ad udire il frastuono delle onde contro gli scogli. Forse non era stata una così buona idea andare lì, quella sera. Il locale era stracolmo e la musica a palla fracassava i timpani.
    «Vado a cercare i ragazzi!» mi informò Butch, alzando la voce per far sì che lo sentissi al di sopra di quel baccano. «Tu aspettami al bancone, Jake, altrimenti finisce che ci perdiamo!»
    Non gli risposi, ma alzai il pollice in segno di okay ed annuii con il capo, vedendolo allontanarsi con difficoltà nella ressa del locale, mentre spintonava per farsi spazio fra quella calca di membra sudate e ricevendo a sua volta spintoni. Io mi diressi al lato opposto, dove la clientela scarseggiava poiché la maggior parte di essa si trovava in pista a ballare. Mi guardai intorno e mi sedetti al primo posto libero che riuscii a trovare, ordinando un semplice whisky con ghiaccio prima di poggiarmi contro il bancone. Da un po’ di tempo a quella parte, mi annoiavo di fare ogni cosa, forse proprio perché non riuscivo a dare un senso a quel mio lavoro. Scrivere era sempre stata la passione di tutta la mia vita, sin da quando ero un ragazzino e scrivevo semplici temi durante le ore di studio all’orfanotrofio. In quegli anni, le storie che prediligevo erano incentrate su cavalieri e dame da salvare, e ne avevo persino scritta qualcuna che adesso si trovava stipata nella capsula del tempo che avevo sepolto nel giardino a dodici anni. Con essa era custodita gelosamente anche la foto di mia madre, morta di cancro quando avevo soltanto tre anni. Mio padre non l’avevo mai conosciuto. Forse era anche per quel motivo che avevo smesso di scrivere storie fantasy e mi ero invece concentrato in maniera quasi ossessiva sui thriller: rispecchiavano quella che era ormai diventata una vera e propria realtà nella città di St. Louis.
    «Pensieroso, signor scrittore?» Colto alla sprovvista, sussultai, voltandomi nella direzione da cui proveniva quella voce. Un uomo alto, forse sulla trentina e con i capelli scuri, si era seduto accanto a me senza che me ne accorgessi, e mi squadrava adesso con quei suoi occhi profondi e... cazzo, erano sul serio dorate, quelle iridi? Nay, doveva trattarsi per forza di lenti colorate.
    Umettandomi le labbra, chiesi stupidamente, «Come fa a sapere che sono uno scrittore?»
    Quell’uomo misterioso rise di gusto, ammiccando. «Lei è Jacob Randall, giusto? Ho visto la sua foto nell’inserto del suo best seller».
    Giusto, che stupido. Come avevo fatto a non pensarci prima? La cosa sarebbe dovuta essere piuttosto ovvia. Beh, forse il motivo di quella mia dimenticanza era che non mi reputavo più uno scrittore famoso proprio dall’uscita di quel libro. «Aye, sono io», decretai svogliato, ringraziando poi il barista quando tornò con il mio whisky. Ne bevvi un sorso, scoccando un’occhiata a quel nuovo arrivato. «Però non faccio autografi, se è questo ciò che vuole».
    «Och, niente autografi, tranquillo», rimbeccò in tono sagace. Sorrise e si accucciò contro il bancone di legno del bar, apparendo ai miei occhi come un grosso felino compiaciuto. E quegli occhi che possedeva accentuarono quel paragone. «Piuttosto, ti piacerebbe riuscire a dar vita a ciò che immagini, scrittore?» mi domandò, lasciando cadere le formalità iniziali. Ma non fu quello ad accigliarmi, bensì le sue parole. Sbattei dunque le palpebre, incredulo.
    «Ti sembra forse che io abbia scritto fesso in faccia, amico?»
    A quel mio dire si alzò e mi girò intorno, fermandosi dietro di me come una presenza costante e pericolosa. Si chinò poi verso il mio viso, poggiandomi le mani sulle spalle. «
È proprio perché sei intelligente che te lo propongo, caro il mio signor scrittore», sussurrò al mio orecchio, con voce così bassa e carica di tensione che riuscì a farmi rabbrividire. «Sono certo che tu saresti in grado di fare grandi cose».
    Ogni sua parola sembrava colma di promesse e continui successi, calda come il sole che sorgeva ad irradiare le terre sottostanti. Non seppi se fu per il tono ammaliante con cui le pronunciò o per ciò che continuò a dirmi in seguito, ma in un primo momento quasi gli credetti. Sarebbe davvero stato possibile diventare un vero scrittore, uno scrittore con la esse maiuscola, se avessi deciso di fidarmi di quello sconosciuto? Oh, quanto mi sarebbe piaciuto se fosse stato vero. Però il tempo in cui avevo creduto alle favole era finito da un pezzo, e dubitavo che sarebbe bastato così poco per riuscire a far di nuovo breccia nel cuore di milioni di persone con un mio scritto.
    «Ti basterà pensare e scrivere, signor scrittore», mormorò ancora, suadente. «Il potere delle parole non ha limiti, credimi». E con un ultimo sorriso, mi sfiorò appena una guancia con la punta delle dita, facendomi correre un brivido simile ad una scossa elettrica lungo la schiena. Si allontanò in silenzio così com’era apparso, rassettandosi la cravatta e ravvivandosi all’indietro i capelli scuri dopo avermi rivolto un cenno di saluto, lasciandomi nuovamente solo al bancone.
    Scosso, accigliato e vagamente incredulo, faticai a riprendermi anche quando finalmente Butch e gli altri mi raggiunsero. «Con chi stavi parlando?» mi domandò lui, sollevando un sopracciglio prima di accomodarsi accanto a me. A quanto sembrava non l’aveva visto, ma che potevo dirgli? Non ne ero certo neanche io.
    Così scrollai semplicemente le spalle. «Non so, Butch», risposi, guardando dietro di me come se mi aspettassi di vederlo tra la folla che si agitava nel locale. «Un fan, credo», soggiunsi distratto, non potendo ancora sapere che quell’uomo avrebbe presto portato alla mia più completa disfatta.



   

[1] Titolo di una doujinshi del circolo Ninekoks, il cui significato in tedesco è “Ciao, Faust”.
Esso sembra quasi buttato lì a caso, ma il suo significato si capirà meglio nel corso della storia, o almeno questa è l’intenzione.


[2] Omaggio a Supernatural, serie televisiva statunitense creata da Eric Kripke nel 2005 e prodotta dalla Warner Bros. Racconta le vicende di due fratelli, Sam e Dean Winchester, cacciatori di demoni e creature sovrannaturali. Il fratello maggiore, Dean, ha per l’appunto una Chevrolet Impala del 1967.

[3] Il Sub Zero Vodka Bar è uno dei locali situati nel “Central West End” di St. Louis, a North Euclid Avenue. È famoso per il suo poter offrire più di trecento tipi diversi di vodka.

[4] Cantata dai Survivor, Eye of the Tiger fu usata come brano della colonna sonora del famoso film Rocky III, interpretato da Silvester Stallone. È dunque per l’appunto un omaggio a tale film e ad una clip inserita nel telefilm Supernatural, stagione quattro episodio sei, in cui l'attore Jensen Ackles (che interpreta Dean Winchester) si diverte a farne un playback.

[5] Gruppo rock statunitense formatosi a Los Angeles nel 1996. Come band di maggior successo dell’ultimo decennio, possono vantare nei vari premi vinti un disco di diamante per uno dei loro album, due Grammy Awards e vari dischi d’oro e di platino. Le loro canzoni sono inoltre state utilizzate come colonna sonora per vari film e videogames.


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