Capitolo
1
Chiusi
la porta di casa ormai
in lacrime lasciandomi alle spalle le urla e i tonfi provenienti che si
sentivano al suo interno.
L’avevano
fatto di nuovo,
avevano litigato di nuovo ed entrambi continuavano a imperterriti a
mantenere
la propria posizione probabilmente per orgoglio, fottuti genitori!
Quella che non ce l’aveva fatta questa volta ero io non ne potevo più dei loro stupidi litigi, delle loro stupide urla, delle loro stupide porte sbattute,
non
ne potevo più di loro che
sembravano non accorgersi di quanto io stessi male per questo, troppo
impegnati
ad auto commiserarsi.
L’aria
fredda di Dicembre mi
sferzò il viso e mi avvolsi nel mio giubbotto mentre
continuavo a camminare per
le strade di Londra.
Le
calde lacrime sgorgavano
dai miei occhi e rappresentavano proprio tutto il dolore, tutta la
tensione e
la rabbia accumulati negli ultimi tempi.
Generalmente in questi casi, andavo dalle mie migliori amiche: Lucy, Lizzie e Mafy, loro mi comprendevano e mi aiutavano proprio come si fa tra sorelle,
ma
purtroppo avevano tutte degli
impegni con la propria famiglia.
Famiglia, già! Beate loro che ne hanno una, la mia non si poteva definire tale, semmai tutt’al più era un gruppo di persone che condividono la stessa casa,
se
proprio la si vuole
definire in qualche modo.
Persa
nei miei pensieri non mi
accorsi di essere andata a sbattere contro qualcosa, o meglio, qualcuno.
«Scusa»
mormorai con un filo
di voce.
Non alzai nemmeno il capo, un po’ per l’imbarazzo un po’ perché non volevo far vedere il mio viso sapendo in che condizioni sarebbe stato:
profonde
occhiaie, trucco colato, capelli
arruffati, un perfetto panda insomma.
Feci per continuare a camminare ma lo sconosciuto mi bloccò e fui costretta ad alzare il capo. E li fu la fine: era stupendo, alto, viso d’angelo incorniciato
da una massa informe
di capelli ricci e al posto degli occhi due smeraldi splendenti;
riuscii a
notare tutto ciò nonostante la tristezza e
l’angoscia che mi opprimevano il
cuore e pensai:
Wow!
Questa è l’incarnazione
del modo di dire “ Angelo sceso in Terra”.
«Come
mai stai rovinando il
tuo bel viso piangendo?»
Per essere uno sconosciuto si era già preso fin troppa confidenza, ma non mi importava, era per merito della sua bellezza se in quel momento
stavo
riuscendo a non pensare a nulla che non
fosse lui.
«Perché
la mia vita fa schifo»
riuscii a rispondere con tono neutro.
«Wo, wo, calma con le parole, cosa potrebbe mai esserti successo?..Mh..vediamo…morto il pesce rosso?» tentò di farmi ridere lui, non ci riuscii,
ma
spuntò comunque un sorriso sul mio
volto.
«No,
non ho mai avuto animali
in realtà, certo, se non contiamo mi fratello!».
Quel ragazzo era riuscito a farmi tornare il buon umore in men’ che non si dica, saranno stati i suoi occhi.
Parlo
di uno sconosciuto come fosse stato il mio ragazzo…le
lacrime mi
hanno dato alla testa!
«Oh,
vedo che ti è tornato il
buon umore! Comunque piacere, io sono Harry».
Harry,
carino come nome,
insolito.
«Gabriella» dissi
solo stringendogli la mano.
«Oh,
dal tuo nome deduco che
non sei Inglese originale! E io che speravo potessi farmi da guida! Sai
sono
nuovo di qui e le cartine non servono a molto dal momento che non ci
capisco
una mazza» fine il ragazzo!
Però
adesso guardandolo bene
vidi che aveva la macchina fotografica appesa al collo e la cartina in
una mano.
«Ehy,
ho origini Italiane è
vero, ma vivo qui a Londra da quando avevo tre anni, perciò
la conosco come le mie
tasche».
L’idea di poter trascorrere un intero pomeriggio con lui mi metteva di buon umore e questa cosa mi spaventava, insomma lo conoscevo da poco più di dieci minuti!
Sarà
stata la voglia di
divertirmi una volta tanto.
«Davvero
saresti disposta?
Grazie davvero, mi hai salvato dal fare una brutta fine!»
Scoppiai
inevitabilmente a
ridere, quel ragazzo era buffo!
«Di
niente. Allora cosa
vorresti vedere prima?»
«Beh,
mentirei se dicessi di
non avere fame perciò, mi porti da Starbucks?»
«Ma
sono le tre del
pomeriggio!» dissi sconvolta, ero sconvolta!
«E
allora?» rispose con
nonchalance
«Allora, le persone normali a quest’ora hanno da poco finito di mangiare. E poi con tutte le cose belle che ci sono, proprio da Starbucks vuoi andare?
Sei
strano ragazzo lasciatelo dire!»
«Ma
che vuoi! I monumenti non
se ne vanno di lì, la mia fame invece mi sta
lacerando!».
L’ultima
frase la disse
frignando manco fosse un bambino di cinque anni, se non più
piccolo.
«Andiamo
và, è qui vicino dieci
minuti e siamo lì»
Cominciammo
a camminare e lui
subito mi chiese:
«Allora
Gabriella, quanti anni
hai?»
«Ah-Ah
Harry mossa sbagliata!
Non si chiede l’età a una signora.»
risposi ironicamente.
«Mh,
questo mi fa presupporre
che tu sia più vecchia di quanto sembri» disse
accarezzandosi il mento liscio
come il culetto di un bambino.
«Non
è vero ho solamente
diciassette anni!» lo fulminai con lo sguardo.
Mi
sorrise sornione e solo
dopo mi resi conto della mia gaffe.
«Mi
hai manipolata!» esclamai
imbronciandomi.
«No.
Si chiama psicologia
inversa, mai sentito parlarne?» mi sorrise soddisfatto.
Gli
feci il verso e il suo
sorriso mutò in una risata, una lunga, fragorosa,
meravigliosa risata.
Proprio
in quel momento
arrivammo da Starbucks e quando anche lui se ne rese conto smise di
ridere e
corse dentro senza nemmeno aspettarmi.
Bene!
Della serie: Viva la
Galanteria.
Entrai
e lo vidi già seduto al
tavolo che stava ordinando, lo raggiunsi e proprio in quel momento la
cameriera
si allontanò con l’ordinazione.
«Oh,
e la galanteria dov’è? A
farsi fottere?» dissi leggermente inacidita dal fatto che non
mi avesse
aspettato, insomma!
«Già
proprio come la tua
finezza. E poi cosa vuoi, tu ti senti normale?» non capii il
senso di quella
domanda ma risposi comunque
«Sì,
direi di sì»
«E
allora! Sei stata tu prima
a dire che le persone normali di solito a quest’ora hanno da
poco finito di
mangiare, non hai bisogno di nutrirti!» affermò
lui convinto.
Scossi
la testa contrariata ma
inevitabilmente mi venne da sorridere per il suo ragionamento contorto.
«Lasciamo
perdere và!
Piuttosto, prima hai accennato al fatto che si nuovo di qui, da dove
vieni?»
«Vengo
dal Cherchshire, da
Holmes Chapel precisamente» rispose lui pensandoci bene
però non mi era nuovo
quel nome, vediamo….I nonni! Ma certo abitavano
lì!
«Ah
sì! Lo conosco, abitano lì
i miei nonni e ogni tanto li vado a trovare,
perciò..»
«Congratulazioni!»
disse
ironico
«Ma
che fai mi prendi in
giro?» dissi scocciata.
«No,no,
per carità!» alzò le
mani per provare la sua innocenza.
«Meglio,
allora, dimmi tu,
quanti anni hai?»
«Anche
io diciassette» disse.
In quel momento arrivò la cameriera con l’ordinazione e gli sbatté praticamente le tette in faccia, non prima ovviamente di avergli rivolto un sorrisino malizioso.
Non
so la reazione
di lui, girai il volto schifata, ormai la dignità era un
optional!
Quando
se ne andò esclamai
«Wow Hazza hai fatto colpo!»
«Come
mi hai chiamato?» chiese
lui confuso.
«Hazza»
risposi con ovvietà
mentre lui pensava a ingurgitare il panino che aveva ordinato.
«Ah,
e da dove ti è uscito mo’
‘sto nome?» disse ancora più confuso e
sputacchiando cibo a destra e a manca.
«Fai
schifo! Bleah! Poi non lo
so! Quante domande mammamia!»
«Ok,
ok, non mi mangiare
però!» sembrava impaurito, ma del resto sapevo che
stava scherzando.
«Vabbè
dai per questa volta ti
perdono» dissi con tono di superiorità.
«La
ringrazio» si limitò a
dire lui.
Gli sorrisi dolcemente e lo stesso fece lui, mi persi nei suoi occhi, in quelle due pozzanghere verdi, i nostri occhi incatenati erano come delle coppie di smeraldi che si incontrano,
già
ho gli occhi verdi.
Rimanemmo
a fissarci fin
quando lui non distolse lo sguardo in evidente imbarazzo.
Lo
si capiva dal rossore che
albergava sulle sue guancie, quelle sue guancie paffutelle sulle quali
ogni
volta che sorrideva comparivano delle tenerissime fossette.
C’era
da ammetterlo: era
davvero un bel ragazzo.
Ma
non uno di quelli tutti
muscoli che sembravano fatti di plastica, bello di una rara bellezza
che emana
luce propria.
Ci
alzammo, andammo alla cassa
e dopo che lui ebbe pagato uscimmo in un religioso silenzio, aleggiava
ancora
tra noi l’elettricità creata dai nostri
sguardi incatenati di poco prima.
Il
vento mi colpì in pieno
viso, facendomi risvegliare dal mio stato catatonico e scompigliando i
miei
lunghi boccoli castani.
«Allora
cosa vogliamo fare
adesso?» ruppe il silenzio lui entusiasta.
Diedi
una rapida occhiata
all’orologio al mio polso e mi accorsi che erano
già le cinque.
«Veramente
io dovrei tornare a
casa».
Non volevo tornare a casa, dove molto probabilmente sarei nuovamente scoppiata in lacrime, non volevo allontanarmi da lui che era riuscito a farmi sorridere di nuovo,
mi
rattristai
e lui lo notò chiedendomi:
«Ehy,
qualcosa non và?»
«Tutto
non và Harry, ma non mi
sento ancora pronta per raccontarti cosa sta succedendo,scusa. Potresti
comunque accompagnarmi a casa?Mi farebbe sentire meno…sola,
ecco.»
Era
vero, non mi sentivo
ancora pronta per aprirmi con lui, dopotutto, tralasciando il fatto che
con lui
stessi maledettamente bene, era pur sempre uno sconosciuto.
«Certo,
andiamo»
inaspettatamente mi prese la mano e quel contatto mi provocò
una scarica di
brividi lungo lo spina dorsale.
Camminammo
ridendo e
scherzando, senza mai far staccare le nostre mani, quel ragazzo era
come una
medicina, la mia medicina.
Quando arrivammo davanti casa non sapevo come salutarlo ma poi mi decisi, mi alzai sulle punte, in quei casi essere un “puffo” di statura e portare perennemente le Converse era scomodo,
e
gli diedi un dolce e delicato bacio sulla guancia, profumava di mele,
che
profumo magnifico!
Aprii
la porta di casa ma lui
mi bloccò per un braccio e mi disse:
«Dammi
almeno il tuo numero di
cellulare».
«Tu
dammi una penna» ribattei
io.
Mi
porse il suo I-Phone,
segnai il mio numero e glielo restituii. Questa volta fu lui a baciare
me sulla
guancia e se ne andò lasciandomi lì imbambolata e
con il battito del cuore
accelerato.
Rientrai
in casa sorridente,
per la prima volta dopo tanto tempo, toccando il punto che poco prima
era stato
sfiorato dalle sue labbra-
Ma tutta la mia felicità fu distrutta come i castelli di sabbia dall’alta marea quando mi accorsi che mia madre era in soggiorno a piangere, o meglio singhiozzare,
con
la testa
affondata nel bracciolo del divano.