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Autore: Mao_chan91    06/09/2006    8 recensioni
Non è morta, ma spenta. Nelle sue speranze infrante, nella luce che non può seguire.
Genere: Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Edward Elric, Winry Rockbell
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: Nessuno dei personaggi qui presenti mi appartiene, nulla riguardante FMA. Solo questa piccola fan-fiction e le idee correlatevi sono frutto delle mie elucubrazioni mentali.
Summary:
Non è morta, ma spenta. Nelle sue speranze infrante, nella luce che non può seguire.
Rating: PG13. Somma malinconia e distruzione mentale.
Pairing: EdxWin

 

 

 

-

 

 

Di giorno ha cercato di essere forte.

Ogni fiato di vento l’ha percossa, ogni parola trapassata da parte a parte, ma si àncora disperatamente a quel suolo che non vuole abbandonare, a quella presenza da cui non vuole staccarsi.

 

Fa freddo, davvero freddo, ma non le riesce di accorgersene.

Tanto il freddo al suo interno, non può che chiedersi se non sia solo lei a fremere di brividi laceranti, che le graffiano la schiena, la incidono nel profondo.

 

Il viso tondo è pallido e smunto, dell’ineluttabile saluto, nel tenue tender di labbra e calar di palpebre.

Non può vedere che ombre stagliantisi, danzarle dinanzi, compassionevoli vocii soffusi.

 

 

-

 

 

Giunge in terra al crepuscolo, sola e lungo distesa sull’erba, la luce delle candele a pizzicarle il naso.

 

Non sente stanchezza, non sente rancore; non sente nulla, perché ha costruito castelli di sabbia in un mondo mai esistito, ha capito tante cose davvero tardi.

 

Alza le dita ad arrotolarvi una ciocca di capelli biondi, e fissa il cielo sfumare nel rosa, l’arancio, gli ultimi stridii di rondini a costruire immagini nell’aria.

E desidera, ancora una volta, ritornare a quei tempi.

Sorride, sorride d’una dolcezza ch’è aspra ed inquieta; ride, d’una risata che è stridula e soffocata.

 

Non ha pianto, in verità.

Come cercando un rimpiazzo a quello sfogo, ha tentato di esprimere quanto aveva dentro in diversi modi.

Sorride perché tutto è davvero ironico.

Ride perché è tutto davvero insensato, lei in primis.

 

Ricorda Edward accettare la sua mano sulla propria, voltando il capo e sospirando sommessamente.

Il letto era bianco, come le sue bende, e lui stanco.

Lei gli aveva fatto alzare la testa per potergli sciogliere i nodi tra i capelli trascurati con le dita.

Lui l’aveva guardata di sfuggita, come schivo animale selvatico, sfogando l’imbarazzo stringendo forte le nocche, sino a renderle bianche.

Lei non aveva detto altro, e lui ne era stato sollevato.

Aveva chinato la testa, ricordando vecchie parole di Al.

 

"Senti...non essere triste, se non va tutto bene. Non voglio che tu pianga."

 

Lei aveva scrutato fiaccamente il suo torace fasciato, privo di giunture meccaniche, logoro e squarcio.

Al attendeva fuori, mani giunte a pregare un Dio che ora, ora voleva credere esistesse, ma non avrebbe porto loro alcun aiuto, non allora, né mai.

 

Winry allora si era alzata, denti forte serrati, ergendosi nella sua più completa altezza, squarcio allargandolesi in petto più che su di Ed.

Gli aveva afferrato un polso, sollevandolo, stringendolo come per frantumarlo, e lui l’aveva guardata curioso e rassegnato per una consistente sequela di minuti.

 

Come in punto di esplodere, le aveva osservato le labbra mute e tremanti, i denti serrativi per trattenerle al silenzio, la lingua a schioccare inutilmente sul palato, appena intravedibile nel suo dischiuder di labbra.

Ed era rimasto anch’egli muto ed affranto, e aveva stretto gli occhi per ripetersi che l’idea di morire non era nulla di insormontabile, nulla cui non avesse già pensato come ipotesi certa, ma non poteva che aggrapparsi, aggrapparsi con le unghie, con i denti a quella vita senz’arti, annaspare con quello che gli restava, annaspare con ogni sua forza.

 

"Non...non voglio morire. Non morirò."

 

Era un ragazzo, giovane, ed un ragazzo, ed arrogante.

Conscia in ogni più intima parte del suo essere di ciò, ella non aveva potuto più non scattare, afferrandolo per il bavero del pigiama dell’ospedale e scrutando a lungo nelle iridi dorate e già morte prima del corpo.

Lo aveva schiaffeggiato forte, con mani tremanti, notando con vaga curiosità un’impronta leggera ma profonda sull’altra guancia.

Aveva pensato che Alphonse avesse già fatto qualcosa di simile per la grandezza del segno, ed aveva maledetto a lungo l’Elric che aveva davanti, scuotendolo e ringhiando.

 

"Sei un idiota. Un idiota. Sei vuoi, ora, qui, puoi piangere. Nessun Mustang a prenderti in giro, nessuno a vederti. Sei umano, umanissimo. Piangi, piangi ora o ti strapperò i denti fino a farti lacrimare e morire disossato. Idiota, idiota. Muori, se vuoi, ma renditene conto. Oh, so che lo fai già, ma prendine maggiore coscienza. E convinciti che se muori avrai il mio odio, quindi non provare a morire. Idiota."

 

Le ciglia le oscillavano scostanti, gli occhi a socchiuderlesi tremanti, e vide la guancia di Ed divenir livida.

 

E come lui si voltò dall’altra parte, poté con chiarezza dire di averlo visto ranicchiarsi sul letto, chiuso nelle proprie spalle, corpo scosso da gelidi fremiti.

 

 

-

 

 

Un quarto d’ora.

 

Quattordici minuti.

 

Non crollare. Non crollare. Non comportarti in nessun modo. Non crollare.

 

Il treno che ripartiva in quell’istante fischiò forte, ripetendo massiccio e sfrenato la sua consueta corsa sulle rotaie.

Winry sollevò lentamente il capo biondo, e lanciò un’occhiata timida ad Alphonse che ricontrollava con occhio critico la valigia del fratello ed il suo contenuto rovesciandolo su una panchina.

 

Parve sorriderle lievemente, mentr’ella cercava sua approvazione nell’accostarsi felpata al di lui biondo fratello, nervosamente intento a fissare il treno appena partito.

 

Tredici minuti.

 

Non seppe bene cosa fare, né se accostarglisi realmente.

Si sentiva colma d’un qualcosa che su di lei formicolava ed entro di lei fremeva, attorcigliandole forte le corde vocali, rendendole inesplicabilmente doloroso parlare; sì, indubbiamente era per questo che non parlava.

Non parlava affatto.

Tutto formicolava, e la tensione le pizzicava la gola.

 

Dodici minuti e mezzo.

 

Chinò ancora, lievemente, la testa; percepiva la sensazione al culmine, ed un singhiozzo soffuso le risalì inarrestabile alle labbra, che si coprì premendole con forza, schiacciando le palpebre a coprire le lacrime, e sorridendo mestamente.

Si ritrovò leggermente scossa, l’espressione attenta di animale selvatico di Ed su di lei.

 

Dodici minuti.

 

Premette i denti sulle proprie dita, ansante, nodi a scioglierlesi in petto, ansiosa nell’inattesa prevaricazione del proprio animo.

 

Si struggeva da ore, lì.

 

Da giorni, altrove; da quando avevano rimesso Ed, che al momento borbottava scostante qualcosa stringendo un poco i denti, guardandola fisso, cercando risposte senza bisogno i parole, che dovette trarsi fuori a fatica.

 

"Perché piangi, ora? Non ha senso."

 

Undici minuti.

 

La scrollò lievemente, freddo alle tempie, profondamente turbatone, d’istinto.

 

"Stupida. Ahh, sei tu la stupida, qui. Tu, non io. Perché piangi? Perché piangi? Non sono morto. Non sono morto."

 

Lei sorrise, mordendosi il labbro inferiore sino a poterlo agevolmente masticare, d’ansia corrosa, e sorrise di più, e di più le sue gote si bagnarono, intenerita da quegl’occhi aurei sbarrati, poiché rivolti a lei, che cercavano lei, solo lei, lei sino a commuoverla.

 

"Basta, ehi! Basta, Winry, mi vedi? Mi vedi?  Scema, sono qui. Qui. Perfettamente qui. Sei diventata cieca? Cammino. Cammino, respiro. Perfettamente. Perfettamente! Quindi perché, perché?"

 

Lo colse irragionevolmente snervato; come strangolato d’un’afflizione ch’aveva sino ad allora cinto anche lui; un’afflizione che potesse preoccupare lei.

Scorse Al scrutarli, timidamente deciso a non intromettersi, ma colmo di genuina preoccupazione.

Chissà, chissà da cosa lo leggevano, poi.

 

Dieci minuti.

 

Lui sussultò, mentr’ella crollava leggera il capo sulla sua giacca, piegandolo un po’ per la leggermente differente statura, affondando i tremori simili a scariche elettriche sulla sua giacca, sulla sua giacca, trovando il petto d’egli irraggiungibile.

 

"Piango perché sei vivo. Piango di gioia a causa tua, come mi avevi promesso. Ma prima del previsto. Grazie. Grazie."

 

Lo percepì deglutire nettamente, e lo intuì diventato più caldo, pur senza scorgerlo.

 

Tentava di allontanarla delicatamente, scomposto, piegando le dita alle sue spalle.

 

Fredde e rigide da una parte, calde e flesse dall’altra; quella sensazione improvvisa la sconvolse un poco, portandola a realizzare che, passione o meno che mettesse nell’infondere un’anima, la sua anima a quegli auto-mail, avrebbe di gran lunga preferito che avesse due, due mani calde.

Meno robuste, ma due; come non mai, lo avvertì.

 

Piegò un poco la testa anche lui, perso ed incerto come un bambino che ha smarrito la via di casa; non capì, non bene, e le sue labbra tremarono, mentre guardava con aria di sufficienza dall’altra parte.

 

"...beh, allora sono contento."

 

Ella fremette leggermente, inghiottendo via ogn’altra lacrima, e traendo fuori un largo sorriso sorpreso.

 

Nove minuti.

 

"Anch’io." respirò piano e a fondo "Se fossi morto, insomma, avrei infierito sul tuo cadavere. Sei troppo idiota per morire così. E c’erano delle cose in sospeso."

 

Edward inarcò un sopracciglio biondo, confuso.

 

"Ah?"

 

"Oh. Nulla d’importante."

 

"Bene, concludiamo ora. Tra poco arriverà il nostro treno, sai. Poi non ci rivedremo per un po’, credo. Non morirò nel frattempo, ma potresti scordartene, se no."

 

"No. No, non lo scordo. Non ti preoccupare. "

 

Lei rise un poco, non accennando, curiosamente, a lasciargli il lembo della giacca cui s’era aggrappata prima; e lui, seppure un po’ a disagio, non ne parve particolarmente turbato.

Lo prese per un buon segno, e l’ultima traccia d’umido sul suo viso evaporò lenta al sole lontano.

Rise ancora.

 

"...cos’era che volevi chiedermi, dirmi, o quella roba lì?"

 

"Nulla a cui non conosca già la risposta. Credo, insomma."

 

"Mh?"

 

"Sai, alla fine sono un po’ scema. I ragazzi bassi non mi piacciono, affatto. Affatto."

 

Rise scioccamente, o almeno s’interpretò per tale, dandogli le spalle.

 

"Però non so cosa farei, infierimenti sul tuo cadavere a parte, se tu morissi davvero. "

 

Sentì le proprie spalle farsi gelide ed insicure, tremando.

 

"Ehi, io NON muoio."

 

"Lo so. Lo so, ma potresti. Chiunque può lasciare il mondo all’improvviso. E sarebbe stato immensamente triste che fossi morto senza che io ti avessi parlato ancora. Costretto a vivere per ascoltarmi. E’ egoista, oh, lo so. Lo so ma voglio trovare il momento adatto così, distrattamente. Non esservi imposta a causa di sciocche leggi della natura. O della tua simpatica attitudine a cacciarti in guai enormi e scamparne solo d’un pelo, come questa volta. "

 

Sette minuti.

 

Perso uno nel conto. Dannazione. E’ poco, è poco.

 

Lui strinse gli occhi piano, calcolato rammarico nello sbuffare lieve, premendole una mano sulla testa, come tante volte aveva fatto da piccolo con lei, con Al.

 

Dovendo un po’ il braccio sforzare, tuttavia.

 

"Senti. Senti, io non capisco bene. Però, insomma, posso fare qualcosa di utile? O puoi essere più chiara tu, forse."

 

"No, no. Scusami. Non è nulla. Nulla. Lascia stare. Se anche potessi fare qualcosa, non...potresti. No, non puoi. "

 

Edward piegò in basso un angolo della bocca, ringhiando piano.

 

"Cosa?"

 

"Rendere tangibile il mio, di sentimento. Credo. Non so." rise "Puoi provare. Ma temo che tu mi piaccia veramente tanto, e nulla cambierà o attenuerà questo."

 

Sei minuti.

 

Il colorito della di lui pelle mutò in scarlatto, e il ringhio divenne soffuso sino a spegnersi.

 

"Ah. Ah, tu. Tu...quindi...io, insomma, è...ecco, è..."

 

"Scusami." sorrise malamente, malizia ad acuminarle gli occhi chiari "Veramente, lascia stare. Tanto non ci arrivi. Sono troppo in alto, per te."

 

Rise ancora ed ancora, amaramente, tratta poi in stupore dal braccio venirle tirato giù forte, la pressione brusca e violenta di due labbra incerte sulle sue scioglientisi in presa più tenera e lenta.

 

Cinque minuti.

 

Ancora bruscamente Edward le si distaccò, col calcolato sdegno negl’occhi, ribollendo sin nelle viscere, interamente, sguardo ostinatamente fisso alle nuvole nella parte opposta al cielo su lei.

 

E si accorse di aver smesso di respirare; e si accorse di essere particolarmente sconvolto, ma non in grado di biasimarsi.

 

Innocente, ecco.

 

Lei rimase muta per diverso tempo, sfregandosi leggermente l’interno delle labbra, l’uno con l’altro, come assorbendo in sé il sapore freddo e salato ma tremendamente piacevole d’un qualcosa che difficoltosamente avrebbe riassaporato.

 

Ecco, lui sapeva di qualcosa come acqua salata; come lacrime fredde.

 

Strinsero entrambi gl’occhi, l’una catturato e completamente assorbito nel mutore dell’altro.

 

Quattro minuti.

 

Così, così, distrattamente, cedettero i lineamenti inaspritisi di lui, e distrattamente strinse gli occhi sbuffando, si ricacciò in tasca l’orologio d’argento dopo una rapida sbirciata, e sospirò.

Al stava agitando la grossa e pesante mano metallica verso di lui, pur senza concitati ‘Nii-san’ a richiamarlo; si chiese se avesse assistito, ma si ripeté ancora che non aveva nulla per cui biasimarsi.

Da negare aspramente e con forza per proteggere una sagoma scura e robusta che gli faceva da scudo ogni giorno avrebbe avuto un bel po’, ma non da biasimarsi, non vi trovava ragione.

 

"Chiariremo, la prossima volta. Ecco. Ma ora sappi che ci arrivo. Ci arrivo."

 

Tre minuti.

 

Stava già correndo via, tronfio e seccato, ingenuo e tonto come un bambino ostinato.

 

Lei rimase invece lì, muta e perplessa a fissare la sua immagine farsi sempre più piccola, arrossendo poi violentemente, e sciogliendosi in sottile e bieco pudore.

 

"Aspettaci. Aspettaci qui, noi torneremo da te. Per restare."

 

Due minuti.

 

Ma, accidenti, non importa più.

 

 

                                                                                -

 

 

La sera è convulsa negli scatti dei movimenti, e non vuole realizzare con esattezza l’accaduto.

Non vuole ricordare quell’ultimo scatto metallico di dita fredde sulla sua mano nell’allontanarsi.

 

Tenta di svegliarsi, anche se sa che non potrà farlo nemmeno questa volta.

 

E’ come malattia.

 

Insana, insano il malore vibra sulle sue dita, vivo sulle labbra dischiuse e digrignate in muto pianto, aspre al contrarre la mascella al limite.

 

Silente, nel dolore si sente viva, nell’oppressione al petto sente ogni parte di sé ritrarsi e ricostitursi più salda di prima.

Sana ogni pensiero, e il nodo che le incatena la gola è parte consistente nonché portante di sé; come possono essere le gambe che cedono, i seni che si sporgono maggiormente ad ogni espirare per poi ritrarsi.

 

Fa capolino per poi ritrarsi nei più intimi recessi di quel che Winry è e tenta di essere.

 

Tante volte ha allungato le mani al nulla, colmandosi di vuoto e vuoto, svuotandosi di fiato.

 

Ricorda senza difficoltà le piccole mani di Edward aiutarla con gesto secco a rialzarsi, più grandi a trarla sulla schiena larga, ancora minute a domandarle con buffo, serio cipiglio se vuole sposarlo quando saranno grandi, assieme ad Alphonse.

Ricorda di aver sopito sensazioni incomprese con fievoli moniti accennanti alla sua altezza.

Ricorda la sua treccia bionda ondeggiare lieve, scomparendo all’orizzonte con Al.

 

"Per favore. Per favore dà a mio fratello una casa in cui tornare, dell’affetto. Ti prego, cerca di colmarlo per entrambi. Non lasciarlo crollare. E’ mio fratello. Mio fratello."

 

Ricorda inoltre i pugni serrati e duri di Al, immonde urla a sfogare quel che i suoi occhi, mentendogli freddamente, mai avrebbero potuto fare.

 

In quella realtà che manipolava affinché fosse falsa, terrore per il cui strideva di notte, cercava dolore fisico nel cieco logorare le braccia metalliche, cercando qualcosa che non avrebbe mai più riavuto, qualcosa che si allontanava assieme al fratello portato via dal lettino bianco, cercando conforto nei ricordi, riemergendone ancor più lacerato.

-

Conforto nasce, fievole e spento, al suo ritrovarsi dinanzi a pietra bianca, fredda e vuota, incisa di lettere e numeri che la vista asciutta ma al contempo offuscata non distingue, come incrociate, sfocate e prive d’un qualunque senso logico.

L’erba è fresca a ciuffi tra le sue dita; la stringe, l’estirpa, e Den mugola piano sul suo grembo, pelliccia trasandata di lieve vecchiaia, bocca arida di maggiori guaiti.

 

Winry è lì, straniera e di casa d’un tempo; ospite e sconosciuta nel gelido fischio del vento.

 

Nel passare delle stagioni, nel mutare del tempo, consuma gli occhi tentando di scorgere qualcosa di nuovo in quel cimitero, che non cambia.

 

Con gli anni è più alta, flessuosa e gentile, il volto macchiato del piacevole lamento per sé stessa, la commiserazione che la fa cedere in quel bianco sontuoso, pulito e perfetto.

 

Nervosamente, soleva ormai sorridere a chiunque incrociasse d’un tutto suo sorriso che le tirava su le labbra, contraendole duramente la mascella, gli occhi schiusi d’una risata che non vuol’esser tale; che non lo tollera.

 

Il bianco marmoreo l’acceca ora, riempiendo la sua visione a tratti, schizzandole in viso l’umido fiato delle memorie che le fa crollare il capo cieco e sordo ad interazioni esterne, che crolla malamente lasciandola rinchiusa in quell’universo in cui il suo sentimento è sottile ma tangibile.

 

Attraverso il marmo, può lo stesso vederlo risplendere.

 

E i nomi di Sara e Urey Rockbell le pungono gli occhi, perforandole la retina e trapassandola; nulla recepisce, nulla scagiona l’inesplicabilità del suo agire soffuso, leggero e celato.

 

Le lacrime isteriche ch’ora ne bagnano le labbra, e assapora lentamente, e non assaporerà altro che non sia il sale delle sue illusioni, che le stringono le spalle minute, ne incurvano il petto pesante in dolore.

 

"Aspettaci. Aspettaci qui, noi torneremo da te. Per restare."

 

Ancora un po’, ancora un po’, intima in collaudata ed ormai consunta tolleranza alle gambe fiacche che rifiutano di sostenerla oltre ancora un po’ e sarà tutto finito. Così, lievemente. Ed in un batter di ciglia sarà tutto nuovo e perfetto, sovrapponendosi alle menzogne dei miei occhi, celando a lungo la mestizia dell’attuale realtà. E sarà buffo, davvero buffo.

 

Sarà tutto perfetto perché lei lo ama; e lui tornerà lì per restare, per lei.

 

O per lasciarglielo credere.

 

Leva le iridi cerulee al cielo, il viso tondo incorniciato di ciocche bionde e scomposte, mentre si sente infiacchita e logora, e si allontana lentamente con Den dal giaciglio ove riposano le sue speranze e sogni più antichi, e in cui l’ardere vivo delle nuove l’aiuta a rialzarsi.

Ogni giorno l’aiuta a ricominciare daccapo.

 

Chiude gli occhi, e pensa che per ora è abbastanza così.

-

 

 

Fine

  
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