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Autore: Marguerite Tyreen    26/01/2012    2 recensioni
[Missing Moments di "Niente di Personale"]
Stoccolma, 2 gennaio 1893
Di giorno in giorno, poteva scegliere chi diventare. Talvolta era un pirata, in qualche occasione un investigatore dal fiuto prodigioso, più spesso un archeologo che scavava nella storia.
Ma, allo stesso tempo, si accorgeva che mai come in quel momento stava costruendo pezzo dopo pezzo il vero Ingmar, aldilà di quello che gli altri desideravano che fosse. Sentiva i sogni librarsi senza vincoli e senza catene, tracciare la strada che – sentiva – avrebbe seguito.
Si rendeva conto, sempre più chiaramente, che forse non avrebbe mai avuto la vita avventurosa che raccontavano i romanzieri. Ad ogni modo, desiderava almeno qualcosa che ne fosse il suo sembiante opaco, qualcosa che ricordasse come un ritratto un po’ sbiadito, la sensazione piena del contatto con l’arte, di un che di divino, scoperto per caso nel segreto di una soffitta.

La storia di Ingmar Strandberg, "lo Svedese", prima di Paloma e della Rivoluzione Messicana.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: L'Ottocento
- Questa storia fa parte della serie 'Niente di Personale'
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Ho scritto questa storia per il compleanno della mia carissima Acquasalata e a lei, infatti, è dedicata. Fin dalla nascita di Niente di Personale è sempre stata una delle più affezionate sostenitrici dello Svedese e di Paloma e mi ha accompagnato nella lunga galoppata anche nella stesura del suo seguito.
Quindi, in un primo momento, non era stata pensata per la pubblicazione, tuttavia ho creduto fosse carino condividerla con voi, nel caso aveste seguito la storia principale. In caso contrario, temo che questo missing moment non sia del tutto comprensibile ^^' Pardon!
Spero che possa farvi piacere rituffarvi nel mondo di Ingmar e nella Svezia di inizio secolo.
Vi ringrazio per essere arrivati fin qui e se vorrete proseguire :)
Un caro saluto,
vostra
Marguerite.


 

***


 

 

Ad Acquasalata,
per il suo Compleanno.
Sogna, Ragazza, sogna. ^^

Poetry is indeed something divine.
(P. B. Shelley)


Something Divine



Stoccolma, 1916

- Perché amate l’arte, signorina? – domandò il professore, rigirandosi tra le dita sottili il libretto della studentessa, nel quale, alla fine dell’esame, anch’egli avrebbe apposto la propria firma ed il massimo dei voti.
- Perché amo l’arte, professor Strandberg? – lei lo guardò un po’stranita, cercando di non incontrare troppo a lungo quei suoi occhi azzurri.
Lo sapeva bene che la risposta non avrebbe pregiudicato l’esito, dal momento che non era altro se non un parere personale. E, allora, perché esitava?
- Esattamente. Mi avete parlato tanto bene di Tiziano, di Raffaello. In un modo così accurato, poi… Non vi sarà difficile dirmi anche che cosa vi trasmettono quelle opere. Perché noi esseri umani abbiamo bisogno della bellezza per vivere, dell’espressione di simili geni, della pittura, della poesia, della letteratura, della sublimazione che possiamo ottenere solo dall’arte per sperare di elevarci dalla nostra quotidianità?
Ingmar Olaf Strandberg posò sulla cattedra il libretto e gli occhiali che inforcava talvolta per leggere. Era l’ultimo esame della giornata eppoi sarebbe potuto uscire dall’Università, nonostante la nottata si prospettasse altrettanto lunga.
Attese la risposta, col bel viso aguzzo appoggiato al palmo della mano.
- Perché sono carine. Le loro opere, intendo.
Ingmar guardò lontano: - Carine… già, carine. – replicò distrattamente, porgendole la mano – Va bene così: abbiamo finito. Buona fortuna per i vostri studi, signorina.
“Carine”. Ridacchiò tra sé, imboccando il corridoio, con un paio di libri sotto il braccio.
Un gatto è carino, una coppia di fidanzati che passeggiano al chiaro di luna. Ma l’arte è vita, che diavolo! Più o meno come il denaro o come l’amore, ma priva delle viltà del primo e dei fastidi che il secondo porta con sé.
L’arte è quanto ha permesso a me di elevarmi dalla mediocrità che ha ingrigito finora la mia esistenza.
- Professor Strandberg! – un rumore affrettato di tacchi sul parquet, alle sue spalle, lo fece voltare.
- Renate! – sorrise alla sua assistente, galante come sempre, sapendo perfettamente che lei sarebbe avvampata davanti a quella confidenziale cordialità – Non ho alcuna intenzione di sfuggirvi, non c’è bisogno che vi scapicolliate nei corridoi.
Non arrossì, quella volta, e uno strano presentimento gli attraversò la schiena sottoforma di un brivido gelido. Si limitò a prenderlo saldamente sottobraccio e a condurlo verso il suo studio. Spalancò la porta, invitandolo chiaramente ad entrare, e la richiuse dietro di sé.
Diede anche un giro di chiave, così, per sicurezza.
- Renate, non pensavo che voleste passare alle vie di fatto tanto rapidamente. Dopo tutta la fatica che mi avete fatto durare per corteggiarvi in questi mesi! – commentò lui, con voce suadente, mentre deponeva i libri sulla scrivania. Tolse la giacca e la issò con precisione alla spalliera della sedia, poi passò ad allentarsi il nodo della cravatta, come a dire che voleva mettersi a proprio agio.
- Ma cos’avete capito? – la ragazza gli puntò addosso quei suoi occhi grandi, color miele e confusi – Rivestitevi, per carità! Pensate se dovesse entrare qualcuno!
- Ma se avete chiuso a chiave!
- Già, avete ragione. – non sapeva più dove posare lo sguardo – Ma non siamo qui per quello che pensate. Dovete scappare, professor Strandberg, e il prima possibile.
- Scappare, ragazza mia? Con il corso a metà? E per andare dove?
- La polizia è venuta a cercarvi, un’ora fa. Io ho detto che non c’eravate, che vi cercassero a casa vostra. Spero di aver fatto bene.
Si lisciò i baffi, pensoso, mettendosi a sedere sul tavolo: - Avete fatto benissimo, sì. Cioè, no! Avete fatto male! Pensate davvero che io abbia qualche conto in sospeso con la giustizia, tanto da dover fuggire?
- Oh, io so tante cose, professor Strandberg.
- A che proposito?
- Le armi. È per quello che vi cercano.
- Armi? – esibì la sua espressione più innocente, spalancando su di lei i suoi occhi di un purissimo azzurro – Non sono mai andato nemmeno a caccia.
- Le armi che avete rubato tre settimane fa al deposito dell’esercito. Quelle che dovevate rivendere ai messicani. No, non chiedetevi come lo so, vi basti sapere che non l’ho detto a nessuno.
- Cosa volete da me, Renate? Perché non mi avete denunciato, se ne siete certa? Intendete forse ricattarmi? – un bagliore d’ira gli colorò le belle gote pallide.
- No, no… - scrollò immediatamente la testa – Voglio proteggervi. Sapete, la sera in cui prendevate accordi per il colpo, vi ho seguito. È stata l’unica volta, ve lo assicuro. Volevo vedere dove andavate, quale donna detenesse il privilegio di avervi, di chi dovessi essere invidiosa. E ho saputo…
- Che non si trattava di una donna, ma di ben altro.
- Già… Perché lo fate? Beh, domanda stupida, la mia.
- Per denaro, naturalmente. E voi? Perché mi avete seguito? Perché volete proteggermi, ora?
Lei gli sfuggì con lo sguardo, poi, non riuscendo a vincere la propria timidezza, gli diede la schiena. Rispose, con la voce che le tremava: - Perché vi amo.
- Nonostante tutto? – le chiese, senza ottenere indietro nemmeno una parola – Renate!  - le pose saldamente le mani sulle spalle, costringendola a voltarsi - Nonostante quello che sono?
- Nonostante tutto.
- Allora perché mi siete sempre sfuggita?
- Perché sapevo che voi non avreste potuto amare me. Non come io desideravo, almeno. Siete sempre alla ricerca di qualcosa, Ingmar. Non so di cosa. Non sono sicura che si tratti solo di denaro. C’è dell’altro, ma forse io non riesco a capirvi. Ma non ha più molto senso cercare di farlo, adesso.
- Temo di no . Partirò questa notte stessa.
- Mi mancherete. So che sperare che mi penserete è solo un’illusione, ma io vorrei lasciarvi una cosa, prima che ve ne andiate. Ci pensavo da un po’, ma ora non c’è più molto tempo per riflettere. – tolse dal cassetto della scrivania un libro.
- L’Isola del Tesoro? – trasalì lui, sorridendo appena e accettando il regalo – Scelta strana, per farvi ricordare.
- Siete sempre alla ricerca di qualcosa, voi. Vi auguro di trovarlo, quel tesoro. Promettetemi che avrete cura di voi.
- Non preoccupatevi, Renate. – disse, rivestendosi - Ingmar Strandberg è quanto mi preme di più a questo mondo. Cielo, perdonatemi! Non so come ringraziarvi, per quello che state facendo per me. Mi sdebiterò con un consiglio: non pensatemi e non rimpiangete nulla. Forse è stato meglio così: io sono uno che non resta.
Le depose un bacio sulla guancia. Grazie, aggiunse, prima di gettarsi il lembo bianco della sciarpa sulla spalla e sparire dietro la porta.
Lei rimase un istante a contemplare il legno scuro dell’uscio. Si portò la mano alla gota, dove lui l’aveva baciata, chiudendo gli occhi e afferrando quell’istante brevissimo prima che potesse volare via del tutto.
Fai attenzione, Ingmar. Gli disse in silenzio. E buona fortuna.

***

Stoccolma, 2 gennaio 1893

- Signorino Ingmar! Signorino, dove siete finito? – Hilda, la sua istitutrice, fasciata in un severo  lungo e accollato abito di velluto nero, era quasi inciampata lungo le scale nel tentativo di inseguire il piccolo demonio biondo che faceva di tutto per sfuggire alle lezioni di matematica.
Ingmar doveva trovare un nascondiglio sicuro al più presto, uno che lei non conoscesse ancora.
La porta della soffitta scricchiolò con rumore inquietante, aprendosi su un pavimento di legno impolverato e sull’enorme stanza buia.
L’aria odorava di chiuso, di antico e di mistero, almeno nella sua fantasia di bambino.
Come i veri esploratori! Si disse Ingmar per farsi coraggio. Come gli archeologi che si introducono nelle tombe dei faraoni.
Ne aveva sentito parlare durante le ore di storia della signorina Hilda e la sua fantasia aveva presto abbandonato quei libri ingialliti e pieni di date, per correre alle dune immaginarie di un deserto mai visto, alle piramidi e ai mille pericoli che, lui, con coraggio inaudito sarebbe stato in grado di superare, portando infine alla luce un preziosissimo tesoro.
Rovistò nella tasca per trovare il mozzicone di candela e la scatola dei cerini, richiudendosi subito dopo l’uscio alle spalle.
La fiamma dorata e tremolante illuminò alcuni bauli accatastati, qualche scatola da cui ancora uscivano abiti di foggia antica ma un poco sorpassata, bastoni da passeggio e cappelli che nessuno avrebbe mai più usato. Le cose di suo padre, realizzò. Non se n’era andato da molto, tre anni quasi, e mamma non era riuscita a disfarsene, nonostante Erland, il nuovo marito, non volesse trovarseli in giro, nonostante la nuova vita da cominciare e tutto il resto.
Un bagliore catturò il suo interesse. Erano piccoli riflessi di luce, piccoli lampi lucidi e colorati, accatastati in un angolo.
Libri! I libri di papà! Sussultò, sorpreso.
Per quanto avesse solo sei anni quando era venuto a mancare, lo ricordava seduto in poltrona, avvolto nella vestaglia che sapeva di colonia e di tabacco da pipa, a leggere accanto al caminetto. Erano cose difficili, allora, nella sua mente di bambino, ammassi di fogli stampati fitti, pieni di parole per lo più incomprensibili ma che sembravano catturare il vecchio Hans Strandberg lontano, molto lontano.
Troppo lontano, spesso, dacché sentiva mamma rimproverarlo di occuparsi più della letteratura che degli affari, delle terre e degli affitti.
La letteratura… c’era in quel termine qualcosa di magico – sentiva – di superiore alla sua vita noiosa, fatta di lezioni di grammatica e di geografia e di brevi momenti in cui lasciava la fantasia galoppare fuori dalle austere vetrate di casa Strandberg.
Qualcosa di divino e inafferrabile, ma che non era mai riuscito ad oltrepassare la barriera variopinta delle copertine di pelle di quei volumi.
Sua madre Liv e adesso anche Erland e persino la signorina Hilda gli riempivano la testa di mille nozioni che, dicevano, gli sarebbero servite per essere un gentiluomo a modo e un buon latifondista. Non gli avevano mai insegnato a sognare, a fantasticare, lui che avrebbe desiderato vedere il mondo, salpare i mari, conquistare terre e divenire da ultimo vecchio, ricco, appagato e pieno di vita da narrare.
Non aveva mai letto per piacere personale e temeva, ad un tratto, che fosse troppo tardi.
Aprì uno dei libri, vi passò sopra le dita rosate, sentendo la porosità della carta sotto i polpastrelli, seguendo il titolo con l’indice: L’Isola del Tesoro e odorando forte il profumo dell’inchiostro.
Un raggio di luce attraversò la polvere della finestra, cadendo con prepotenza giallastra sulle pagine dischiuse, svelandogli un mondo, finalmente.
Vi sprofondò, dimenticando le lezioni della signorina Hilda, lo sguardo severo di sua madre e il gelo che non era mai riuscito a sciogliere di Erland.
Le parole diventavano di colpo immagini, le immagini si riempivano di suoni, di colori, di profumi talmente vicini, talmente veri che, se provava a chiudere gli occhi, persino Stoccolma, persino quella casa riusciva a svanire.
E, di giorno in giorno, ogni volta che tornava in soffitta – eppoi, col tempo, diventando più ardito, ogni volta che portava nella propria stanza un nuovo romanzo – poteva scegliere chi diventare. Talvolta era un pirata, in qualche occasione un investigatore dal fiuto prodigioso, più spesso un archeologo che scavava nella storia.
Ma, allo stesso tempo, si accorgeva che mai come in quel momento stava costruendo pezzo dopo pezzo il vero Ingmar, aldilà di quello che gli altri desideravano che fosse. Sentiva i sogni librarsi senza vincoli e senza catene, tracciare la strada che – sentiva – avrebbe seguito.
Con il passare dei mesi si rendeva conto, sempre più chiaramente, che forse non avrebbe mai avuto la vita avventurosa che raccontavano i romanzieri. Ad ogni modo, desiderava almeno qualcosa che ne fosse il suo sembiante opaco, qualcosa che ricordasse come un ritratto un po’ sbiadito, la sensazione piena del contatto con l’arte, di un che di divino, scoperto per caso nel segreto di una soffitta.


Aveva sedici anni quando, una sera, sedeva accanto al camino, nel posto che era stato di suo padre, con un libro sulle ginocchia, a guardare da dietro i vetri la neve che cadeva imbiancando il parco.
- Non trovi che dovresti dedicarti a qualche attività più edificante, mio caro Ingmar, che fantasticare inutilmente su qualcosa che non avrai mai?
Erland si era piazzato di fronte a lui, fissandolo da sopra gli occhiali tondi.
- Come?
- L’avventura, Ingmar. I sogni. Sono una perdita di tempo. Una chimera che non potrai ottenere, dovessi struggerti per tutto il resto dei tuoi giorni.
- Una sua forma, magari, anche se imperfetta… - aveva preso a dire lui, cercando di dimostrarsi affabile ed accomodante, anche se freddo: un’arte che pareva aver imparato bene.
- Storie! – afferrò con disprezzo la copia dell’Isola del Tesoro, rigirandosela tra le mani come uno strano animale a due teste – Sappi che io non ho alcuna intenzione di mantenere un parassita. Stai diventando un uomo e, come tale, dovresti essere portato ad occuparti del patrimonio di famiglia e smetterla con queste sciocchezze. – gettò il libro nel camino, fingendo di non vedere il lampo di rabbia che aveva attraversato lo sguardo azzurrissimo del ragazzo.
- Occupati della tua vita, non di quella degli altri, delle tue proprietà, del tuo denaro, Ingmar! E lascia i romanzetti a chi non ha altro.
Ingmar guardò a lungo le fiamme alte crepitare, troppo sorpreso da quel gesto per riuscire veramente a reagire.
Decise in quel momento che avrebbe vissuto soltanto per se stesso e per null’altro: Ingmar Olaf Strandberg divenne il suo pensiero fisso.
Decise che avrebbe avuto tutto quello che la vita, materialmente, avrebbe potuto offrirgli, in un turbinio di donne e di gioco, accantonando i sogni e tutto quello che, a conti fatti, non aiutava ad accumulare denaro. E il denaro andava e veniva dalle sue tasche di avventuriero, speso con una facilità che non faceva onore ai rischi che aveva corso per ottenerlo.
L’arte e la poesia sarebbero stati un espediente per conquistare le donne, per mascherare dietro una apparenza rispettabile di professore il mercenario che era diventato.
La bellezza di un quadro, le forme perfette di una scultura, l’accordo sonoro di due parole meravigliosamente accostate, il suo mondo dorato e divino e ormai lontano, avevano lasciato il posto a quanto di più terreno avesse potuto trovare.


***

San Miguel (Messico), 1916

Mi ci sono consumato gli occhi, sui libri, allora.
Pensò, seduto sulla panca di legno di un treno che ormai stava passando il confine degli Stati Uniti con il Messico.
Gli occhi e gli anni migliori. Chi potrebbe dirlo, vedendomi adesso? Il mercante d’armi, lo Svedese, con la sua mira infallibile, il suo sangue freddo e il suo distaccato contegno.
Se davvero mi prendessi il tempo di pensarci, forse rimpiangerei quello che avrei potuto essere e che non sono diventato. Forse.
Ma era meglio non ragionarci. Aprì il volume che gli aveva regalato Renate e che aveva portato con sé, per il viaggio. Ne odorò le pagine, ma non ebbe indietro quell’emozione che, ormai, aveva dimenticato.
È troppo tardi per i sogni, per i grandi ideali, per tutto. Sospirò. Quello che sono ha preso il sopravvento su quello che ero e, no, non è che me la passi così male.
Qualcosa manca, a volte, qualcosa di più nobile a tutto questo, ma se non ci rifletto, se non torno con la mente a quei giorni, nemmeno ne sento così tanto la necessità.
Il treno fischiò, frenando con strattoni, cigolii e sbuffi di fumo alla stazione di San Miguel.
Il suo piede destro, avvolto elegantemente nello scarpino bianco, si staccò dal predellino e si posò nella polvere del suolo messicano.
Tra quel caldo che aveva già cominciato a maledire, la sagoma del paese e la linea dell’orizzonte striata di viola si fondevano, coi contorni sfocati e tremanti.
Chissà quali avventure mi aspetteranno qui…
Rise di sé, a quel pensiero che, improvvisamente, lo aveva riportato alla sua infanzia.
Quali avventure, quali sogni, quali passioni?
Forse, dietro al denaro, alle armi, al sangue, al profitto, il piccolo Ingmar era ancora presente.
Forse, non si era smarrito del tutto.



 

Fine

   
 
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