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Autore: Levineisabitch_    27/01/2012    35 recensioni
La sindrome di Stoccolma, attraverso le vicende di Monique, Sabrina e Paul.
Quando ti innamori del chi ti ha rovinato la vita.. nulla è scontato.
La sindrome di Stoccolma è una condizione psicologica nella quale una persona vittima di un sequestro può manifestare sentimenti positivi (talvolta giungendo all'innamoramento) nei confronti del proprio sequestratore.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quarta classificata al contest "l'amore impossibile" di Carla Volturi con 135 punti. 



La sindrome di Stoccolma è una condizione psicologica nella quale una persona vittima di un sequestro può manifestare sentimenti positivi (talvolta giungendo all'innamoramento) nei confronti del proprio sequestratore.

Stockholm. (Come innamorarsi di chi ti ha rovinato la vita.)

Monique stava giocherellando con l’orlo della maglietta che si stava distruggendo lentamente: quella maglia era vecchissima, ma rimaneva la sua preferita.
I capelli castani le ricadevano sulle spalle, morbidi e lisci.
Sotto la maglietta si scorgeva il piercing all’ombelico che brillava.
Era sdraiata sul suo letto a fissare il soffitto, Sabrina era nell’altra stanza, probabilmente a fare quello che stava facendo lei: niente.
Paul doveva essere uscito per andare al lavoro, come al solito, e loro erano confinate nelle loro stanze, troppo impaurite per uscire.
I suoi occhi color cioccolato vagavano per la stanza, ora.
Oramai quella era la solita routine da quasi un anno, forse addirittura di più, avevano perso il conto dei giorni.
Si sentì un ‘toc toc’ sordo alla porta e Monique si girò con una scintilla negli occhi: Paul doveva essere tornato.
Dopo qualche secondo vide una figura esile, con il viso sommerso da capelli biondi ossigenati che sparavano in ogni direzione.
Era Sabrina, che incosciente.
I suoi piercing, a sopracciglio e labbro, erano in bella vista e lei, come faceva sempre, li stava torturando.
Sapeva benissimo che se Paul l’avesse beccata in corridoio mentre lui era via si sarebbe incavolato e Dio solo sa cosa avrebbe potuto fare.
Peccato che lei fosse fatta così, amava rischiare anche in quella situazione assurda.
Le due ragazze, diciottenni, erano nelle mani di Paul da un anno che le aveva rapite per avere qualcuno che gli tenesse compagnia.
I genitori delle due erano disperati mentre loro vivevano la loro vita in un altro Paese, senza pensieri.
Perché, a dire il vero, loro con Paul si trovavano molto bene.
Il loro sequestratore era un ragazzo di ventuno anni, con i capelli neri e gli occhi marroni, banali.
Era piuttosto basso e magro, ma nell’insieme carino.
Sabrina, con addosso solo una maglia lunga che le faceva da vestaglia, esitò sulla porta per poi entrare e sedersi sul letto di Monique.
"Hei."  salutò.
"Se ti trova qui sei morta." fu l’unica reazione della ragazza.
Le due erano così diverse che tendevano a litigare e a far innervosire il loro sequestratore, ma negli ultimi mesi si era instaurato un equilibrio che nessuno dei tre voleva rompere.
"Eddai, non fare la santarellina. Tanto lo sai che con qualche bacio e qualche carezza risolvi tutto con lui." ammiccò Sabrina, saccente.
Monique le stava simpatica, ma a volte era davvero pallosa con quelle mille regole che sapeva benissimo poteva infrangere.
Avrebbe dovuto godersi fino all’ultimo quella sua possibilità di trasgredire con Paul, ma non lo faceva e questo dava su ai nervi a Sabrina.
"Non dire cretinate, dai. Quella sei tu. Cosa sei venuta a fare?" chiese acida Monique, come se non gliene fregasse niente, ma era curiosa al riguardo.
-Winston.- furono le uniche parole di Sabrina che le lanciò un pacchetto bianco e blu.
Dentro c’erano sette sigarette.
Monique ne prese una e poi si allungò verso il suo comodino recuperando l’accendino.
Il fumo era diventato il suo vizietto, ogni tanto sentiva il bisogno di soddisfarlo, ma non spesso comunque.
Quella condizione in cui era costretta a stare l’aveva portata a quello, neanche lei sapeva come.
Era Sabrina che l’aveva iniziata alle sigarette.
La accese e cominciò ad aspirare e a buttare fuori fumo grigio che riempì la camera.
Intanto Sabrina accendeva la seconda sigaretta nell’arco di pochi minuti: la prima l’aveva fumata a metà e poi l’aveva spenta sulla moquette color cioccolato.
"Dici che alla fine ce ne andremo da qua?" chiese d’un tratto Sabrina, cogliendo l’altra ragazza alla sprovvista.
-No.- fu la secca risposta, che era più una speranza.
A lei piaceva quella vita, perché con i suoi genitori era sempre un litigare per cose futili e oltretutto la odiavano.
La insultavano e avevano provato a picchiarla.
Con Paul questo non succedeva perlomeno.
"Ti sei innamorata della persona che ti ha rovinato la vita." la accusò Sabrina, malvagia, senza preavviso. 
Aveva tirato fuori quel discorso senza un vero motivo. 
"Chiudi quella fogna che osi chiamare bocca." bofonchiò Monique.
Sabrina aveva ragione, l’aveva sempre. Era anche vero, però, che anche lei voleva rimanere lì, se no sarebbe già scappata da molto tempo.
Anche se Monique non voleva che succedesse, ma era successo e oramai era troppo tardi.
"Ok. Tanto sai che è così." alzò le spalle Sabrina incurante.
"Può darsi." l’assecondò Monique, spegnendo la sigaretta e ritornando a fissare il soffitto sopra di lei.
Furono così che passarono i mesi per Sabrina e Monique: a base di chiacchierate senza un vero scopo e sigarette fumate di nascosto.
Ma prima o poi quel circolo vizioso sarebbe dovuto finire.
Non sarebbe andata avanti per sempre, nel subconscio le due ragazze lo sapevano.
Difatti un giorno d’estate i tre ragazzi si svegliarono e sotto alla loro finestra trovarono degli uomini. Ci misero poco a capire chi fossero.
Urlavano come degli ossessi con dei megafoni, in loro direzione.
"Polizia! Aprite subito!" la polizia urlava fuori dall’appartamento di Paul e le due ragazze erano terrorizzate.
Monique non voleva andarsene, si era seriamente innamorata di Paul, non poteva lasciarlo ora. Camminava avanti e indietro per la stanza, nervosa.
Sabrina era quasi felice, nonostante non volesse nemmeno tornare alla vita di prima, ma temeva la reazione che avrebbe potuto causare nel ragazzo: se fosse esploso?
Sarebbe bastato un attimo e sarebbe potuta finire male.
Bisognava stare calmi, molto calmi.
Ma nessuno lo era, alla fine.
"Fate qualcosa, diamine! Qualsiasi cosa!" urlò Paul in preda all’ira.
La polizia era lì fuori da due ore e i tre erano in preda al panico, ognuno per le sue ragioni e a modo suo, anche se cercavano di non darlo a vedere.
Paul corse in camera sua e prelevò una pistola dalla cassetta di sicurezza.
La teneva lì per le emergenze, ma non l’aveva mai tirata fuori, se non per farla vedere alle due ragazze, per spaventarle, il primo giorno di prigionia.
"Io la faccio finita! Non ho fatto nulla! Voi stavate bene qui." urlava ancora Paul, in preda all’ansia.
Si precipitò in soggiorno, dove c’erano le altre due, e sotto i loro occhi si portò l’arma alle meningi e, dopo essersi mangiucchiato il labbro per mezzo minuto, si sparò.
Un secondo e tutto finì.
Un boato percorse la stanza, facendo gelare il sangue nelle vene di Monique.
Le ragazze videro gli occhi di Paul immobilizzarsi e la vita lasciarlo.
Forse se lo meritava.
Monique non resse il colpo, cadde in ginocchio e con le mani andò a cercare la pistola.
Ci mise un’eternità a trovarla, le sue dita andavano a vuoto durante i primi tentativi.
Nel frattempo sul suo viso scendevano lacrime, sommessamente.
"Ti rendi conto? Ti rendi conto? Ti rendi conto? Aiuto, aiuto, aiuto." Monique ripeteva sempre le stesse parole, come un mantra.
Sabrina non aveva la forza di bloccarla, era paralizzata.
Una cosa di cui si pentì, ma che non aveva potuto evitare.
Fu un attimo e anche Monique stramazzò al suolo, dopo aver impugnato l’arma.
Il sangue zampillava dal suo petto: si era sparata al cuore.
Sabrina non sapeva cosa fare, così si sporse fuori dalla finestra e fece segno ai poliziotti di entrare, senza emozione negli occhi, come se fosse una bambola di porcellana.
"E’ finita." sussurrò a fior di labbra, senza realmente crederci.
Dopo venti minuti molti uomini entrarono nella casa e alcuni di loro trascinarono fuori Sabrina che continuava a girarsi per vedere la scena, non poteva evitarlo, ne sentiva il bisogno, come se fosse un silenzioso addio.
I due amanti erano a terra, vicini e il sangue era ovunque, persino sulle pareti.
Erano morti, non si poteva più fare niente per loro.
Troppo tardi.
Sabrina andò in riabilitazione per un anno ma ogni notte sognava quel giorno e non riusciva a liberarsi dai ricordi.
Non ce l’avrebbe mai fatta, dato che in parte era colpa sua.
"Me ne rendo conto, ma non farlo, non premere il grilletto, per favore." si ripeteva ogni giorno in un segreto dialogo con Monique.
Pensava di essere diventata matta.
Anche se alla fine quello che aveva fregato Monique era Stoccolma.
 La Sindrome di Stoccolma.





Note autrice.
Salve! Grazie mille per tutte le recensioni che avete lasciato, ve ne sono grata.
Mi è stato chiesto perchè Sabrina non è scappata. Beh, anche lei soffriva della Sindrome di Stoccolma. 
Solo che non se ne rendeva conto, tutto qui.
Alla prossima e grazie ancora.

   
 
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