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Autore: smokejack    27/01/2012    0 recensioni
Anno 457, isola di Delo.
Le feste Targelie sono alle porte e l'aedo Niceforo di Ascra è stato convocato dal governo di Atene come attrazione principale per l'ultima serata delle celebrazioni..
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità greco/romana
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La mattina in cui Niceforo salpò dal porto di Ascra fu la più fredda dell’intero anno.
Molte nubi oscuravano la Beozia e il vento faceva lacrimare chiunque si affacciasse sull’uscio della propria casa.
Sapeva che la nave non l’avrebbe aspettato, perciò si incamminò di buon’ora.


Non era solito un freddo simile nel mese di Targhelione ma, come alcuni vecchi del luogo andavano dicendo, sembrava Demetra fosse adirata per lo scempio commesso da alcuni giovani che avevano osato violare il Tesmoforion.
Unica via per lavare via una simile colpa la si sarebbe potuta trovare solamente nelle feste Targelie, confidando nella clemenza del dio Apollo dall’arco d’argento.


Così quell’anno i preparativi furono tre volte più ferventi del solito e dopo il mese di Sciroforione l’intera isola apparve come vergine, appena scoperta e inesplorata.
Si decise inoltre di convocare un aedo, affinché cantasse le meravigliose gesta del dio nell’ultimo giorno dei festeggiamenti.
Scelsero dunque Niceforo di Ascra.


La sua fama era giunta difatti sino a Pericle, che in quel periodo da Atene dirigeva anche le attività di Delo, essendo essa sotto l’influsso della Lega.
Egli non voleva però il bene dell’isola, l’avrebbe anzi volentieri rasa al suolo alla prima occasione, perciò scelse il cantore di cui aveva sentito parlare peggio e fece convocare così Niceforo.



Alle Targelie del 457 l’ospite d’onore sarebbe stato quindi un giovane suonatore d’arpa della Beozia, che mai si era esibito di fronte ad un numero di spettatori superiore ai cinquantatre.
Cosa che lo angosciava sì, ma solo fino ad un certo punto, perché l’ansia non si impadroniva spesso di Niceforo e il suo demone lo guidava.
La sua preoccupazione più grande in quel momento era trovare un rimedio contro il mal di mare.



 
A bordo ebbe modo di mangiare un pezzo di una strana focaccia che gli uomini del posto chiamavano tharghelos.
Gli dissero che avrebbe placato il rimestare dei suoi intestini, ma non fu così e perciò quando approdarono a Delo, la sera, Niceforo si sentiva più stanco di quando si era coricato la notte precedente.
Ma constatò che a un’ora tanto tarda il sole non era ancora tramontato e fu tanto lo stupore che ogni malanno gli sembrò cosa alquanto infima a confronto.


Da subito cominciò a comprendere perché quell’isola così irreale si chiamasse Delo, che deriva dal verbo ‘mostrare’, perché anche quando nel resto della Grecia scendono le tenebre, lì tutto è manifesto e ogni cosa si svela agli occhi dello straniero come boccioli di rosa in primavera.
Coprì la parte restante di tragitto su un carro trainato da due asini, giungendo solo ore dopo presso l’Ekklesiasterion, ossia il luogo dove si riuniva la Bulè, dove attenderlo c’erano gli anziani capi del popolo.
Mentre lo vedevano giungere scuotevano il capo all’unisono.


Dopo l’accoglienza fu condotto presso la casa in cui avrebbe alloggiato nei quattro giorni seguenti.
Era la casa di Ippia e Dafne che ivi vivevano con i loro due giovani figli, e che erano stati estratti a sorte nel Consiglio della città per ospitare l’aedo straniero.
A loro l’idea non era mai piaciuta, ma ci tenevano alla vita e lo trattarono come il terzo frutto del loro amore.
L’ospitalità è sacra, recitava l’iscrizione in marmo sulla facciata del Prytaneion.


Non appena si fu ripreso, gli venne offerta una delle migliori cene che avesse mai mangiato ed ebbe modo di discutere con Ippia riguardo alle cose della vita, alle cose che appaiono importanti agli occhi degli uomini, ma non a quelli degli dèi. E gli uomini non lo sanno.
- Sei felice, straniero?
- Perché me lo chiedi?
- Perché spesso si osa commettere il delitto di essere tristi.
  Ti assista Apollo, straniero.
E si coricarono.


Niceforo non dormì né quella notte né le tre seguenti, sicché la situazione in cui si era venuto a trovare lo agitava troppo.
Ma destatosi il mattino seguente di buon’ora si recò presso l’Agora per assistere alla prima giornata delle Targelie.

 
Caldo, sole.
Un tumulto di gente, urla e sudore; Delo vive.
Nel mezzo della folla un uomo e una donna, sangue e il disprezzo che si riversa come fiumi in piena.
Sole, caldo.
E’ giusto pagare al posto di chi ha sbagliato?
Fiaccole e torce si agitano nell’aria con moti ondulatori e continui, scanditi dalle grida di esseri tutt’altro che umani.
Una scia di sangue lungo la Via dei Leoni, fino al Tempio di Latona, madre del divino Apollo per il quale tutto questo ha luogo e che nascosto dietro il suo disco infuocato nel Cielo osserva in silenzio.
E’ il rito della Purificazione e i due pharmakoi sono chiamati ad espiare le colpe di un popolo empio che ha causato l’ira del dio.
E l’uomo si accascia in ginocchio tre passi prima dell’altare.
Una fiaccola gli viene rigirata nel fianco, ma sa che sarebbe inutile anche solo soffrire; la donna è già morta da tempo.
Alza lo sguardo e lo incrocia con quello di un aedo giunto da lontano, estraneo a tutto ciò, ma parimenti coinvolto in quegli istanti, come se avesse trascorso su quell’isola tutti i suoi natali.

- Sii felice, straniero.

 

Sconvolto nell’animo e nei pensieri, Niceforo tornò verso sera presso la dimora ormai disabitata nella periferia della città e vi trovò solo due ombre che erano state una volta due fanciulli, giovani virgulti ellenici.
E gli promise che li avrebbe portati con sé in quel di Ascra, glielo giurò, perché i giuramenti sono sacri e non possono essere sciolti nemmeno dal sadico dio.


Abbondanza di prodotti della terra che alla terra ritornano, nei riti di offerta delle primizie.
E il dio pare stia entrando nella predisposizione d’animo necessaria a concedere il suo perdono a Delo, ma come qualche poeta avrebbe detto solo qualche secolo più tardi dall’altra parte del continente ‘melius est abundare quam deficere’.
Ceste di ortaggi ricolmano l’Agora e canti propiziatori riecheggiano per tutta l’isola.
Kalòs Apollon!
Kalòs Apollon!, il grido unanime si leva dalla piazza.
Ora che i pharmakoi sono stati scacciati, l’empietà si allontana dalla città come le rondini che migrano all’arrivo della stagione delle nevi.
Il perdono del dio, la priorità.


A Niceforo sembrò tanto insolita quanto innaturale quella combinazione di riti liberamente ispirati da cerimonie orfiche e misteriche, che pensò di lasciare l’isola.
Probabilmente tanto non se ne sarebbe accorto nessuno.
Mentre lucidava l’arpa, la vecchia arpa dei suoi antenati, in vista dell’imminente esibizione, si rese conto che d’un tratto le sue convinzioni su quale brano epico presentare si erano gradualmente dissolte e stava cominciando a dimenticare vari passaggi delle opere che meglio conosceva.
Si disse allora che dopo l’inno ad Apollo si sarebbe lasciato guidare dall’istinto e dalle richieste del suo pubblico.
Magari così facendo avrebbe trovato la via di fuga più rapida, o almeno covava questa speranza.



L’eterno giorno di Delo volgeva al termine, nonostante la luce del Sole spandesse ancora su ogni angolo di ogni grotta di quella terra.
Niceforo pensò che forse era giunto il momento di vivere quel giorno che tutti gli avevano detto capitare una sola volta nella vita.


Sembrava impossibile che le tenebre potessero scendere anche in un posto simile, ma girandosi intorno tutto ciò che riesce a scorgere è oscurità.
Sciami di persone accorrono nel mezzo dell’Agora e si spintonano vicendevolmente per riuscire ad ottenere il posizionamento migliore; nessuno vuole perdersi il momento più sentito delle intere Targelie.
E fra loro sta di certo nascosto Apollo Coelispex, che scruta i cieli, in attesa di udire il suo giovane collega nell’arte musicale.
Perché il dio è in grado di suonare ogni strumento esistente nel mondo fra i mortali, e non tollera che qualcuno possa saper utilizzarne uno meglio di lui; e nessuno nei fatti è in grado di farlo, ma egli lascia loro cullarsi nell’illusione.
Ma nel tempo di tutti questi pensieri, il silenzio è calato nell’Agora e non si aspetta altro che la prima nota di un’arpa.
E il dolce suono di una voce.


Delfi giace ormai lontana sotto me,
O Numi, fratelli tutti, giungete

Chè sì grand’impresa altro non compì,
ma l’Aphetoros, di Latona figlio,
ch’ogni mane traina il Sole nell’aere      5
e Luce dona a li uomini mortali
con l’auree corse del carro di Febo.

Rimira! Ares eversore di mura,
che già d’Efialte fosti incatenato,
recluso in bronzea giara per lung’anni;    10
e Afrodite tu sinuosa, ch’or danzi,
distratta non sia da fuorviantï eco
sicchè voi conosciate l’alta impresa
che mi prese forte in terra Delfica.

Difatti, padre, morì oggi Pitone,          15
mostro che sorse da Terra e Diluvio,
generato da Fango primordiale
ch’a lungo portò Chaos nella regione
dove l’Oracolo mostra’l Destino
a povere genti d’umana stirpe,            20
a cui fu negato di vedere oltre;
e gl’è nascosto il segreto di Fato
e di Tuche, che regolano il Caso
e dispongono per Necessità.
Or giace Delfina morta in Delfi,          25
caduta sotto i colpi delle frecce
che il Loxias scoccò per lei letali,
responsabile di tale ferocia
solö a causa di tremendi lutti
che Pitone adduss’in quelle terre.        30
Bestia! Il suo capo condussi fetido
alle pendici dell’alto Parnaso
e della sua carcassa mi servii
per dar vita al nuovo Oracolo Delfico.   
Dio né mortale capace di tanto            35
mai fu generato nel mondo tutto,
alcun in grado di simile impresa
nacque in grembo a nobili stirpi Danae
come mai acqua torbida è sgorgata
presso la sacra fonte Aretusa,            40
cara ad Artemide figlia di Zeus.
Gioite, fratelli, tutti voi in coro
uniti nell’ode di tal’impresa.

 



E lascia parlare il dio in prima persona, lasciandosi scivolare addosso la macchia di una qualche colpa.
E Niceforo capisce che non è quello, non è quello il momento di fermarsi e porre fine all’occasione perfetta.


Dopo il congedo una sensazione di compiacimento cominciò a serpeggiare per le strade dell’isola e si fermò nelle case degli abitanti, come il Pitone di cui poco prima si era parlato.
La notte era solo ai suoi albori e Niceforo non dormì ancora.
 
Giunge in fretta l’alba in una terra in cui non tramonta mai il sole oltre le montagne, sulla costa.
E Niceforo non volle saperne di ipocriti commiati da parte di iniqui giudici dell’operato umano, così fece preparare la sua misera nave e levò le ancore per tornare alla sua amata Ascra, insieme a Filostrato e Melissa, figli di uomini valorosi, morti per la stoltezza di un popolo intero, salvati da una fine quantomeno simile.
Così si conclude il racconto dell’aedo Niceforo e delle feste Targelie dell’anno 457 dell’isola di Delo, il primo a cogliere l’attimo, a discapito di uomini e dèi, vivendo con totale empatia il resto dei giorni della sua vita.

 
  
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