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Autore: mydrama__    28/01/2012    1 recensioni
La vita è un insieme di battaglie, e ogni tipo di arma è ammessa. Si lotta per la giornata, si combatte contro le avversità, si usano ogni tipo di mezzo per andare avanti Ma qual è il prezzo di questa guerra così dolorosa? La malinconia, la frustrazione, la mancanza della voglia di essere se stessi. E quindi? Sperare, sognare che un giorno ci sia una tregua, che tutti vincano. E intanto la musica di tre angeli riescono ad essere superiori ai rumori fastidiosi che sono esterni, non apprezzi altro. La musica ti rilassa, anche se la guerra è ancora in corso...
Genere: Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Vedo solo bianco, la solitudine, il vuoto. Quel bianco che c'è anche sui muri dell'orfanotrofio, odiosi. Quel bianco di quella luna, così lontana, così perfetta, la guardo dalla stanza del riformatorio dove mio fratello c'è dentro. Mi mette sicurezza. Quel bianco delle stelle, così luccicanti, così belle, così odiose. Potrebbero un po' illuminare 'sto mondo che sta cadendo a pezzi, no? Quel bianco negli occhi di mio padre, pieni di tristezza, che lo distruggeva ogni secondo, minuto, giorno della sua vita. Perché ci si sposa con l'abito bianco? Perché si consegna il foglio 'in bianco'? Perché si alza la bandiera bianca? Perché quando si invecchia vengono i capelli bianchi? Perché quando si sta male, si diventa bianchi? Conclusione: tutto ciò che è distruttivo, è bianco. E invece il colore giallo? Perfetto, senza nessuna sfumatura di grigio o di nero. E ne parliamo del blu? E' il mio colore preferito: il cielo, il mare, i suoi occhi. Mi ci perdo come una barchetta di carta bianca in mezzo al mare. So che affonderò, ma ho presente che sarò nel mare più bello, più limpido, più blu. Ora vedo tutto bianco, tutto vuoto. «Dove sono?»



 
Mi ritrovai in un letto d'ospedale. Che strano, anche quello era bianco.
«Come stai?» Una voce tonante mi risvegliò dal mio sonno, o forse, svenimento. Era la donna armadio (così tutti la chiamavano) grazie al fatto che la statura e la robustezza di quella donna potevano certo assomigliare a quelle di una ragazza che gioca a Football. Ero imbarazzata, c'era così tanta gente attorno a me che non riuscivo nemmeno a respirare, mi sentivo chiusa, e non avevo mai visto così tante persone accanto. 
«B-bene?» Risposi con un sospiro, scrutando bene chi fosse venuto a visitarmi. 
C'erano tutte le assistenti dell'orfanotrofio dove risiedevo, era così strano vederle insieme, e vederle così preoccupate. Sulla loro faccia solitamente vedevo solo la classica espressione di severità, di autorità e di indifferenza. Ma quella volta erano preoccupate, una donna esile piangeva addirittura, la donna armadio batteva le dita delle mani sulla cinta, e un uomo sulla quarantina batteva la penna sul muro. 
 
«Hai avuto un incidente due giorni fa, non ti ricordi proprio nulla? Usa quella testa, pigrona!» La donna armadio mi scrutava severamente, ma in un certo senso le facevo pena, anche se cercava in tutti i modi di nasconderlo. 
«Ho solo voglia di... sapere cosa è successo.» 
«Sei uscita di nascosto dall'orfanotrofio con Virginia, avete voluto fare la trasgressive, eh? E poi un uomo ci ha telefonato, e noi siamo andati in ospedale. Ma dico, siete impazzite? Scappare? Avete ancora sedici anni! Sinceramente, da te me l'aspettavo!» Era tipico di me. Quelle quattro mura mi soffocavano, e la necessità di uscire era forte, molto forte, più forte delle regole rigidissime che vigevano in quel carcere. Ma non era a questo che stavo pensando... 
«E Virginia?» Calò il silenzio. Si sentiva in ticchettio dell'orologio, la penna che il responsabile batteva ancora sul muro, le parole lontane delle infermiere che dovevano parlare di cosa avrebbero fatto oggi, shopping con le amiche, e ogni necessità che ha una donna. Quel silenzio stava diventando troppo strano, perché nessuno parlava?
«E Virginia? Come sta?» Dissi, spezzando quel silenzio troppo distruttivo, troppo bianco. Come può il silenzio, il nulla, a fare così male? Mi stavo preoccupando, stavo iniziando a sudare, iniziai a muovere le mani, quel poco che riuscivo, e non avendo ottenuto ancora una risposta, urlai:«Mi dite adesso cosa è successo a Virginia?»


«Non ce l'ha fatta.»


Furono le parole secche della donna armadio a gelarmi lo stomaco, a gelarmi il cuore. Sbiancai. Presi in mano il cellulare e la chiamai, ma il suo cellulare lo aveva la responsabile in mano, tutto in frantumi, come il mio cuore in quel momento, quel cuore che aveva sempre aperto le porte a tutto e a tutti, ma senza successo, a quanto pare. Ero sempre stata riservata sui miei sentimenti, ma quella volta una lacrima cadde dal mio viso, scorrendo per tutta la guancia fino al collare che prima di allora non avevo notato. Nessun dolore faceva più male di quello che stava succedendo, nemmeno le ossa rotte potevano distruggere. Il cuore è sempre stata l'arma più letale.

 
Non risposi nulla, le persone presenti mi guardavano ipnotizzate, avevano sempre visto il mio viso indifferente, impassibile, ma mai tristezza, rabbia, felicità. E in quella situazione ero la classica ragazza sedicenne che ha perso una persona cara, che in faccia era distrutta. 
 
I responsabili se ne andarono, e rimasi con i miei pensieri, pronti a ribellarsi contro di me. 
Non ci credevo, Virginia non c'era più. Presi in mano di nuovo il mio cellulare, era vuoto, come me in quel momento. I miei occhi verdi stavano pian piano diventando due fiumi di lacrime, verdi di quella speranza che in quel momento mancava. I miei capelli rossi fiammanti erano raggruppati in una coda di cavallo che mi cadeva sulle spalle, e mi ricordavano tanto l'odore del sangue. Mi venivano i brividi, ero così ditrutta che mi addormentai. 


 
Passarono giorni, poi ritornai nella gabbia, quella gabbia chiamata orfanotrofio. Ero considerata una reduce di guerra in quel momento: alcuni mi guardavano ammirati, con gli occhi spalancati, e alcuni invece avevano paura di me, di quello che potevo fare. I passi rimbombavano nel corridoio bianco con finestre sbarrate, ero molto imbarazzata, ma dal mio viso non traspariva niente, se non gli occhi verdi leggermente lucidi. Arrivai in mensa, mi sedetti in un angolo da sola e presi fuori una scatola di mirtilli, e iniziai a mangiarli, lentamente, come se fossero sassolini di una spiaggia marittima. Guardai fuori dalla finestra: c'era tanto blu, e tanto giallo. Che invidia. Vedevo bambini giocare con il proprio cane, mamme preoccupate del tragitto che percorreva il proprio figlio sulla strada, adulti indaffarati che andavano di fretta a lavoro, un anziano che passeggiava nel parco... quella era la normalità di comuni abitanti, invece nella 'gabbia' la monotonia era sempre presente: colazione, scuola, pranzo, studio, merenda, studio, cena, letto, e questo tutti i santi giorni. Io c'ero lì da molto, quindi ero anche abbastanza abituata, ma arrivavano persone casiniste che credevano di poter 'comandare' quel posto, ma invece rimanevano deluse, vedendo come il silenzio era la chiave del funzionamento di quel posto. Se qualcuno scappava, c'era silenzio. Se qualcuno marinava scuola, c'era silenzio. Ma anche se qualcuno si faceva male, c'era silenzio. 

I miei pensieri erano sempre molto contorti, e per questo mi affascinavano: mi prendevano via un sacco di tempo, e non me ne accorgevo nemmeno. Fino a quando qualcuno mi toccò la spalla, facendomi sobbalzare all'improvviso. 
«Ciao, Alice, mi dispiace per Virginia. Ti chiama la preside.»
  
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