Storie originali > Commedia
Ricorda la storia  |      
Autore: Pichichi    28/01/2012    0 recensioni
La storia comincia con la classica tombolata della notte a cavallo fra l'anno vecchio e quello nuovo; con lo zio Tonino a tenere le redini del gioco, tutta la famiglia si diverte banchettando e prendendosi in giro a vicenda. Per il babbo Michele, però, inizia una serie di strane coincidenze. Quanta verità c'è nella superstizione popolare?
«To’, pesca un po’ tu, vediamo che ne esce» porse il sacchetto alla madre di Arcangela.
«Novantasei!» proclamò, fra lo smarrimento generale.
«No, no, sessantanove! Sottosopra» corresse Tonino.
«Terno!» strillò Luca, scattando subito in piedi, anche lui accompagnato, come la madre, da esclamazioni d’irritazione.
«Così non vale, però! Questa sera la famiglia Tancredi è fortunata!»
Michele li osservava senza entusiasmo, tenendo le mani adagiate sulla pancia e non riservando nemmeno un’occhiata alla sua cartella, ancora vuota.
«Che gioco scemo» concluse.
Genere: Commedia, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Annotazioni: naturalmente la tombola utilizzata dai protagonisti e alla quale si fa riferimento per tutto il racconto è la Smorfia napoletana; nata come un metodo per interpretare i sogni e spesso utilizzata nel gioco del lotto, la Smorfia associa ad ogni numero, da uno a novanta, una precisa immagine o elemento (es. 1= l'Italia).

CARTELLA N.16

 

L’anno vecchio l’avevano ormai salutato dignitosamente da un’ora e nessuno ci pensava più, immersi com’erano in quella caotica tavolata ormai spoglia dei piatti, dei bicchieri e delle posate con cui avevano consumato la cena dell’ultimo dell’anno, dando fondo a tutto quel che c’era, non lasciando avanzata nemmeno l’ultima fetta di panettone. Dopo il conto alla rovescia, lo scambio di auguri reciproci, la visione dei botti colorati al sicuro, dietro i vetri delle finestre, si era dovuto accontentare Luca, l’ultimogenito di casa Tancredi, che aveva manifestato il suo fortissimo desiderio di giocare alla tombola.

A nulla erano valse le proteste delle mamme, gli inviti di suo padre a lasciar perdere e tornarsene a letto, così si era stabilito di giocare al massimo due giri e di tornare poi ognuno a casa propria.

«Guarda babbo, guarda, ho vinto sei euro!»

Michele, suo padre, lanciò una rapida occhiata alle monete che il figlio teneva in mano e fece un gesto svogliato d’assenso; si domandava sempre quando suo figlio avrebbe abbandonato quell’aria giocosa e tipicamente infantile che lo caratterizzava per acquisire una mentalità più adulta, più matura. Gli anni passavano e Luca era ormai un dodicenne, pur se continuava a comportarsi proprio come avrebbe fatto un qualsiasi bambino; Michele invece avrebbe compiuto il suo secondo quarto di secolo proprio quell’Aprile e la cosa non gli piaceva per niente: ormai, grattandosi il capo, non avvertiva niente più che una peluria rada; non era mai stato troppo alto, ma ora la sua schiena cominciava anche ad incurvarsi ed era stato costretto da sua moglie Arcangela ad acquistare un paio di occhiali per sopperire alla miopia. Quei pensieri gli mettevano addosso malinconia, così sprofondò ancora di più nella sua sedia e mandò giù un altro sorso di vino rosso.

«Allora, allora, uno alla volta! Pagate la quota e prendete le cartelle!»

All’altro capo della tavola si trovava un uomo dal viso allegro e dalle movenze frenetiche, che raccoglieva i centesimi che i parenti elargivano e distribuiva le cartelle della tombola fra i vari partecipanti, cercando di accontentare tutti.

«Io voglio la nove, io voglio la nove!» si sbracciava Luca gridando più di tutti, nonostante avesse con sé già tre cartelle.

«E fa’ un po’ silenzio, quanto gridi!» gli disse ad un certo punto un’anziana signora vestita di nero, la suocera di Michele, che comprò due cartelle per sé e due per la figlia.

«Siamo tutti a posto, vero?» domandò lo zio Tonino, che aveva assunto il comando della situazione e si era munito di tabellone e sacchetto con i numeri.

«Tutto a posto, Miche’?» chiese ad un tratto guardando il fratello e strizzandogli l’occhio. «E Peppino?»

Michele indicò il divano che stava di fronte alla televisione, sul quale si era seduto loro fratello Giuseppe qualche ora addietro e sul quale si era addormentato profondamente, a dispetto di tutto il baccano che si faceva,

«E tu non giochi? Sempre il solito guastafeste!»

Gli si era avvicinata Arcangela, sua moglie, che aveva due cartelle in mano e tutta l’aria di divertirsi molto: le era sempre piaciuto il gioco della tombola, simpatia incoraggiata dalla straordinaria fortuna di cui godeva; non passava più di un giro senza che lei non avesse vinto qualcosa.

Michele rispose con un borbottio confuso, allontanandosi d’istinto col corpo, perché, bicchiere dopo bicchiere, la testa cominciava a diventargli pesante; anche a lui sarebbe piaciuto fare come suo fratello minore, che si era poggiato compostamente allo schienale del divano e a tratti russava.

«E dai! Facciamo così, te la compro io una cartella!» Arcangela contò le monete che aveva in mano e allungò venti centesimi verso Tonino.

«E lascia stare, sta’ ferma!» Michele le spinse il braccio di lato, ma Arcangela oppose resistenza.

«Zitto, zitto! Tonino, qui una cartella per Michele!»

Tonino, che già si stava occupando della ripartizione dei premi, li guardò con aria sorpresa.

«Ah sì? E com’è?»

«È questa qui che non sta mai zitta!»

«Oh, che brontolone!» Arcangela recuperò la cartella che le offriva Tonino e la mise davanti al marito. «Dai che è divertente».

«Qua vi divertite solo tu e tuo figlio, a me mi rompete proprio le scatole.»

«Be’, guarda! Mi sembrano numeri buoni... ecco la tua parte di pasta.»

Arcangela afferrò una manciata di ditali, la pasta di forma cilindrica che utilizzavano come segnapunti in mancanza di altro, poi tornò a sedersi accanto al marito e gli poggiò una mano sul braccio. Michele tirò su col naso  si raddrizzò sulla sedia, osservando con una smorfia diffidente la cartella che gli era toccata.

«Ci siamo tutti?» domandò Tonino, dando uno sguardo a tutta la tavolata e scuotendo il sacchetto.

«Sì, sì!»

«Dai, comincia!»

«Vado allora?»

«Vai, vai!»

Tonino prese finalmente posto e infilò una mano nella sacca, frugando ben bene e indugiando apposta per alimentare la suspense nei giocatori. La madre di Arcangela guardava le figure sulla propria cartella, sua figlia incitava il cognato a sbrigarsi, le sue sorelle giocherellavano con la pasta e infine i ragazzi si scambiavano previsioni sul primo estratto.

Finalmente venne estratto il primo numero, il venticinque, cui seguirono una serie di esclamazioni insoddisfatte e l’entusiasmo di Arcangela, che aveva potuto segnare la prima casella.

«Tu niente?»

«Niente» rispose Michele con aria risentita.

Sua moglie sembrava invece entusiasta e già sicura di poter condurre una giocata vantaggiosa; Michele si disinteressò della seconda estrazione, almeno finché non fu vittima dell’urlo di Arcangela.

«Quarantasei!»

«Ambo! Due su due!» informò lei trionfante, allungando la mano per prendere la vincita. Alla sua esclamazione seguirono numerosi borbottii e lievi imprecazioni.

«Non si può giocare con te, vinci sempre! Che gusto c’è?»

Passarono altre diverse estrazioni e nessuno si dimostrava troppo felice dell’andamento, così incitarono Tonino a mescolare un po’ meglio i numeri.

«To’, pesca un po’ tu, vediamo che ne esce» porse il sacchetto alla madre di Arcangela.

«Novantasei!» proclamò quella, fra lo smarrimento generale.

«No, no, sessantanove! Sottosopra» corresse Tonino.

«Terno!» strillò Luca, scattando subito in piedi, anche lui accompagnato, come la madre, da esclamazioni d’irritazione.

«Così non vale, però! Questa sera la famiglia Tancredi è fortunata!»

Michele li osservava senza entusiasmo, tenendo le mani adagiate sulla pancia e non riservando nemmeno un’occhiata alla sua cartella, ancora vuota.

«Che gioco scemo» concluse.

Ci furono cinque o sei estrazioni di pausa, nei quali si mantenne il silenzio fra i giocatori, mentre ognuno prendeva i suoi segnapunti e li apponeva sulle caselle fortunate.

«Undici, i topi!»

«Ventisette, sessanta, cinquantuno!»

Dopo un po’ Tonino avvicinò il sacchetto alla sua nipotina, incitandola a pescare il numero ed enunciare la relativa figura corrispondente.

«Trenta!» proclamò lei con voce squillante, «le palle del tenente!»

In un secondo momento, rendendosi conto di ciò che aveva pronunciato, si portò le mani alla bocca e domandò scusa, fra le risate generali. La suocera di Michele completò una fila, mentre Arcangela diede ancora prova della sua buona sorte aggiudicandosi il premio stabilito per aver conseguito, in un’unica cartella, il completamento di due righe. A quel punto non restava che aggiudicarsi la tombola.

«Babbo, ma tu non hai segnato niente?» Luca si accorse della scheda bianca che suo padre teneva davanti a sé e gli si avvicinò.

«Ah, è vero! Guarda, il sedici è già uscito» Arcangela si preoccupò di aggiornare, assieme al figlio, la cartella del marito.

«Aspetta, aspetta, che siamo rimasti indietro! È uscito il quarantuno?»

«Il quarantuno? Sì.»

«L’ottantacinque? L’ottantanove?»

«Sì, tutti e due.»

Si scoprì che alla cartella di Michele mancavano solo tre numeri per essere completata, il che lo rendeva uno dei papabili vincitori. Lui, tuttavia, osservava la pesca con molto distacco e con tutta l’aria di voler mandare via tutti quanti ed infilarsi rapidamente nel letto; il vino cominciava a fare effetto: gli occhi gli si chiudevano, anche per via del calore sprigionato dal caminetto del salotto.

«Ohi Miche’, reggi ancora un po’!» gli gridò Tonino sorridendo, notando la sua aria sonnolenta, «pesca tu, va’!»

Gli lanciò il sacchetto e Michele lo afferrò con la mano, rimettendosi composto e stropicciandosi un occhio. Non vedeva davvero l’ora che se ne andassero tutti, cominciava ad averne abbastanza di tutto quel vociare. Sordo alle richieste di sua moglie e suo figlio, che lo pregavano di estrarre quei numeri a loro necessari per vincere, infilò la mano nel sacchetto.

«Settantuno!» scoppiò a ridere. «Eccoti qua, Tonino!»

Anche gli altri membri della tavolata risero con lui, consci del fatto che a tale numero era associata la definizione “uomo di merda”.

«Ma zitto, zitto! Vai, pesca ancora!»

Michele ripeté il gesto precedente.

«Sei!»

Luca esultò, apponendo ancora un altro segno alle sue cartelle; guardò meglio la casella numero sei e, dopo averci riflettuto, domandò:

«Quella che guarda a terra... ma che cosa significa? Io mica l’ho capito.»

«Sinceramente non lo so neanch’io» convenne sua madre.

«Eh... te lo spiegherò quando sarai più grande!» ridacchiò Tonino, facendo cenno al fratello, seduto all’altro capo del tavolo, di estrarre ancora.

«Vediamo... diciassette! La disgrazia!»

«Tombola!» saltò su la moglie di Peppino.

«Ma no! Me ne mancava solo uno...»

«Certo però, fare tombola col diciassette...»

«Sia come sia, gli euro me li sono guadagnati!».

«Perché, scusa? Che succede se si fa tombola col diciassette?» chiese Michele, che aveva abbandonato il sacchetto e già pregustava un sonno che sarebbe durato fino al mezzogiorno seguente.

«Niente! È solo che, con tutto rispetto parlando... non si sa mai, ecco.»

Tonino si era alzato e aveva infilato già una manica nel cappotto, ma trovò il tempo di rispondere alla domanda e accompagnare la frase con un gesto esplicativo, quello del toccarsi la patta dei pantaloni.

«Quanto sei volgare!» ribatté sua moglie, prendendolo sottobraccio, già pronta ad uscire.

«Certo, come se tu non avessi fatto le corna, sotto il tavolo!» la rimbeccò lui.

In breve tempo tutti quanti si avviarono verso il portone di casa, rinnovando gli auguri e promettendo di rivedersi, il giorno dopo, per pranzare tutti insieme, da qualche parte. Arcangela si accordò con le cognate su chi avrebbe dovuto preparare il primo e quale tipo di pasta fresca avrebbero scelto, Tonino salutò Luca con un buffetto e Peppino fu costretto, suo malgrado, a svegliarsi dal sonno profondo in cui era caduto per seguire la moglie giù per le scale.

«Oh, finalmente!» Arcangela chiuse il portone con aria sollevata.

«Ho vinto un bel po’ di euro fra una partita e l’altra, guarda» le mostrò Luca, incamminandosi poi verso la sua stanza.

«Quante sciocchezze...», asserì Michele fra sé.

«Eh, non dire così!» lo rimproverò subito Arcangela. «Scherza scherza, a me non è che sia tanto piaciuta ‘sta cosa».

«Quale cosa?»

«Che è uscito il diciassette...»

«Ma quanto sei scema, quante scemenze che dici, proprio come mio fratello! Me ne vado a letto, va’.»

Quando ormai aveva già oltrepassato la soglia della camera, si voltò bruscamente in preda ad un improvviso pensiero.

«Michela e Grazia non sono ancora tornate?»

«Lo sai che i veglioni dei ragazzi durano sempre fino a tardi...»

«E ho capito, ma sono quasi le due, che caspita! Domani le grido per bene. Sono stanco per aspettarle, se no...»

Detto questo andò ad appropriarsi della sua parte di letto e fece appena in tempo ad infilarsi il pigiama e poggiare la testa sul cuscino che già era sprofondato in uno stato di incoscienza profonda.

Tuttavia il suo non fu un sonno tranquillo; spesso gli capitava di addormentarsi di botto a causa della troppa stanchezza accumulata durante il giorno, per poi risvegliarsi la mattina senza ricordare alcunché, avendo l’impressione che fra il momento in cui aveva toccato il letto e quello in cui aveva riaperto gli occhi fosse passato pochissimo tempo, non più che una manciata di secondi. Quella notte non fu così, anzi fu il protagonista di un curioso sogno.

Michele aveva sposato Arcangela, segretaria impiegata alla scuola elementare, ottenendo da lei tre figli: le prime, Michela e Grazia, avevano già passato la soglia dei diciotto anni, mentre Luca, il più piccolo, era arrivato in un secondo momento ed era stata una benedizione, unico maschio a poter ereditare il nome e il cognome del nonno. Michele lavorava a giornata presso un certo Pio Rendina, che gli assegnava di volta in volta lavori quali imbiancare i muri di un appartamento, riparare le tubature di qualche scarico, piazzare l’intonaco, oltre che semplici lavori di trasporto. Ad iniziarlo in quel mondo era stato un suo carissimo amico, Pasquale, di qualche anno più grande, disgraziatamente morto per un tumore maligno al fegato. Quel compagno di lavoro e di bevute, a cui non aveva più pensato, gli fece visita in sogno.

Sognò di recarsi come faceva ogni sera libera al circolo, di sedersi con i suoi storici compagni e insieme bere birra, leggere i giornali e giocare a carte fino a tardi. Era il suo svago preferito e non c’era luogo che stimasse più tranquillo; in quel momento aveva in mano tre carte ed era attesa la sua giocata per la partita di briscola. Si sentì toccare il braccio e si voltò per incontrare un viso conosciuto.

«Butta l’asso di bastoni, butta l’asso.»

«Pasquale? Che dici?»

«Butta l’asso di bastoni.»

«E come lo butto, che me lo piglia subito?»

«Tu butta l’asso di bastoni.»

Michele non ascoltò quel che gli diceva, giocò una carta qualsiasi fra le due rimanenti e pescò la successiva.

«Ah! Ti avevo detto di lasciarlo, dovevi lasciarlo andare!» cominciò ad agitarsi Pasquale, sempre standogli accanto. «Perché l’hai tenuto, perché?»

«Ma calmati, calmati, che c’è?»

«Dovevi tirare i bastoni, non tenerteli.»

«Va bene, lo tiro adesso, se è così importante...»

Pasquale lo guardò con un paio di occhi straniti, quasi vacui.

«Ma adesso non si può più... adesso è tardi.»

«Che significa che è tardi?»

L’altro spostò lo sguardo dalla faccia dell’amico alle tre carte che questo aveva in mano.

«Adesso ti restano solo i denari» disse riferendosi al cavallo che si ritrovava.

Michele sembrò ricordarsi solo in quel momento di avere accanto l’amico e d’un tratto i contorni della stanza cominciarono a sfumare, così come le carte, il tavolo da gioco e l’avversario contro cui aveva intrapreso la partita.

«Ma tu come stai, va tutto bene?» domandò.

Pasquale improvvisamente si fece piuttosto pensieroso e rispose con voce grave:

«Io non tanto bene, no. Non sto bene affatto».

Continuarono a parlare ancora un po’, ma Michele non colse più altri dettagli dello scambio di battute, lasciando che l’immagine di loro due che chiacchieravano si allontanasse sempre più dalla sua percezione; al momento in cui questa scomparve corrispose la sua ripresa di coscienza.

Spalancò gli occhi al buio della camera, si ricordò di essere nel suo letto e del sogno che aveva fatto. Turbato, si mise a sedere e si toccò la fronte e il collo, scoprendo di essere sudato; attribuì la colpa di quello stato alle lenzuola di flanella, imposte da sua moglie, che lo inviluppavano e lo riscaldavano troppo.

Nel silenzio della stanza cominciò a riflettere su quanto aveva sognato; certamente ne era rimasto scosso e in generale, esaminandola da sveglio, quella comparsa tanto inattesa quanto strana non gli faceva una buona impressione. Per non parlare di quella storia delle carte: che cosa voleva significare?

Sì, gli era capitato altre volte di ricevere in sogno la visita di parenti defunti, ma questi si erano limitati a parlare con lui in modo vario, ad accompagnarlo da qualche parte, altre volte ancora non avevano nemmeno aperto bocca. Ridicolo: quando mai s’era sentito parlare di un sogno in cui un defunto si metteva a giocare a briscola?

«Che roba... sarà colpa del vino.»

Certamente il pensiero un po’ lo inquietava, ma non ritenne necessario svegliare la moglie, che dormiva beata accanto a lui, per riferirle tutto e chiederle un parere; in fondo si sentiva anche un po’ sciocco a lasciarsi prendere da tutti quei pensieri, così lasciò perdere e tornò sotto le lenzuola, voltandosi su un fianco per riprendere a dormire.

Il primo dell’anno non ricevette alcun incarico lavorativo, ma la mattina del secondo giorno Pio Rendina gli telefonò per informarlo di un nuovo affare che aveva per le mani; si trattava di sostituire una bombola del gas, un compito semplice e non troppo faticoso, per lui che era abituato ad imbiancare muri e intonacare le pareti. Michele non aveva troppa voglia di impegnarsi per tutta la mattina, perché aveva in programma di scendere al mercato, comprare le verdure e la pasta necessaria per cucinare un bel pranzo per la sua famiglia. Tuttavia fu incoraggiato dal figlio minore.

«Mi piacerebbe comprare la nuova playstation» aveva detto un giorno a tavola, soprappensiero.

Così Michele ci aveva pensato su, concludendo che il ricavato di quel lavoretto l’avrebbe conservato per comprare al figlio più piccolo quel che desiderava; pur se lo prendeva sempre in giro e lo rimproverava, lo stuzzicava molto l’idea di fargli quella sorpresa. La mattina del tre Gennaio, dunque, infilò il giubbino, il cappello e la sciarpa e si incamminò verso l’azienda che gli aveva indicato Pio, per prendere in consegna la bombola da sostituire. Mentre scendeva a grandi passi in paese, con le guance arrossate e gli occhi stretti per il freddo, avvistò in lontananza la sagoma di una signora anziana, vestita di nero, che procedeva a piccoli passi nella direzione opposta alla sua.

Michele la identificò solo quando le fu più vicino: era una comare della madre di Arcangela, sempre evitata da sua moglie per via dello stressante terzo grado cui la sottoponeva ogni qualvolta si incontravano. Anche lui sbuffò fra sé, preparandosi a rispondere alle domande che gli sarebbero state proposte.

«Buongiorno, come state?» domandò per primo, sperando così di abbreviare i tempi.

«Oh, buongiorno! Non vi avevo mica riconosciuto. Stavate scendendo in paese?»

«Eh sì, ho da fare.»

Fece per girarle attorno e farle capire che aveva fretta, tuttavia quella lo guardava con aria curiosa.

«E vostra moglie come sta?»

«Sta bene, sta bene, grazie.»

«Anche lei in ferie?»

«Sì, riprenderà con l’inizio della scuola.»

«Capisco, capisco. Bravo, proprio bravo» annuì e gli sorrise, poi gli si avvicinò di più posandogli una mano sul braccio.

«Ci sei stato al camposanto?»

«Come?» domandò Michele.

«Ricordati sempre di andare a visitare il camposanto, sempre» il tono delle sue parole si era fatto confidenziale e grave.

Stupito da quelle parole e dalla piega che aveva preso la conversazione, Michele si allontanò istintivamente.

«Vi saluto, che ora devo andare in paese, sono in ritardo.»

«La salute è la cosa più importante, ricordatelo!»

Oltremodo turbato da quella scena, una volta che si fu liberato della sua presa Michele si allontanò da lei scendendo con rapidità la strada che lo aveva condotto in piazza; non sapeva perché, ma quelle parole lo avevano messo molto a disagio. Lui non ci teneva troppo, al culto dei morti e alla religione in generale, ma non poteva nemmeno definirsi un ateo; semplicemente non ci pensava, perché aveva ben altro di cui occuparsi. Perché avrebbe dovuto recarsi al cimitero, a far visita a chi?

Con tutta una serie di ragionamenti in testa prelevò la bombola del gas e giunse, accompagnato da un furgoncino, fino all’abitazione prescelta. Dopo mezz’ora era già chino sul pavimento della cucina, con la faccia sotto i mobili, ad occuparsi della sostituzione.

Svolse il suo compito meccanicamente. Preferiva dedicarsi all’attività di imbianchino, ma non disdegnava farsi carico di quelle mansioni per poter facilmente guadagnare qualcosa. Accettava tutti i lavori che Pio gli proponeva e così avrebbe continuato fino a che non sarebbe stato troppo stanco per sollevare dei gravi, come in quel momento. Aveva afferrato la bombola usata, coricata per terra, con entrambe le mani e la stava sollevando.

«Non vuoi aiuto?» aveva domandato il ragazzo che l’aveva accompagnato.

«No, no, faccio solo. Apri il furgone intanto».

Allo stesso modo con cui non prestava troppa fede alle questioni religiose, Michele non credeva in alcuna forza soprannaturale, che fosse il destino, il caso o la cabala. Mentre afferrava la bombola per i bordi e si preparava ad alzarsi in piedi, sentì una specie di stanchezza invaderlo, come se d’un tratto gli venissero meno tutte le forze. Non badandovi, attribuendo quella sensazione al troppo calore generato dai termosifoni della casa, piantò i piedi per terra e cominciò lentamente a raddrizzarsi. Aveva intenzione, una volta riuscito a guadagnare centimetri, di raddrizzare la bombola verticalmente e trascinarla così fuori dalla casa; aveva tenuto addosso il giubbino, convinto che avrebbe impiegato pochissimo tempo, e ora cominciava a patire il caldo e sentir colare sulle tempie gocce di sudore e di fatica. Tuttavia, stringendo i denti, era riuscito a tirarsi su e a portare con sé il suo carico.

Soddisfatto, mosse qualche passo verso l’uscita della cucina; all’improvviso, però, ebbe una violenta vampata di calore e gli sembrò, per un attimo, di vedere tutto annebbiato. Non si era neanche ripreso da quello stato di capogiro che avvertì la forza scivolare via dalle sue mani, le dita distendersi, gli arti illanguidirsi, e prima che potesse rendersene conto lasciò andare la bombola, non essendo più in grado di reggerne il peso. Ci fu un momento in cui riprese la piena coscienza di sé, riscuotendosi dallo stato in cui era scivolato, quello in cui avvertì la bombola schiantarsi con una velocità non indifferente sul suo piede, producendo un tonfo sordo insieme allo scricchiolio delle ossa. Istintivamente gridò di dolore e pose una mano avanti, la destra, a reggere la bombola per impedirle di piombare sul pavimento. Ma siccome la testa gli girava, il caldo gli aveva ottenebrato i riflessi e il peso sul piede gli aveva fatto perdere l’equilibrio, si ritrovò per terra con le dita schiacciate e perse presto coscienza, fra il dolore fortissimo e il capogiro.

Fortunatamente le sue urla avevano attirato la padrona di casa e l’altro ragazzo, che lo trovarono steso per terra con una gamba rannicchiata contro il petto e la bombola del gas che rotolava sul pavimento, mostrando una chiazza nera e rossa sulle dita della sua mano.

Dei momenti successivi Michele non ebbe che una percezione sommaria: non avrebbe saputo dire se l’avessero portato prima in ospedale e sottoposto ad un rapido esame, ad una radiografia, o se lo avessero steso sul suo letto in attesa del ritorno della moglie dalle compere mattutine.

«Luca?» aveva chiamato piano, riconoscendo una piccola sagoma acquattata all’angolo del materasso.

Subito lui si era avvicinato, il volto corrucciato in una smorfia del tutto infantile.

«Babbo, babbo, che hai?»

«Niente, che ho?»

«Sei caduto, ti sei rotto la mano... sei rimasto schiacciato.»

Michele distinse un ripetuto miagolio nell’aria, che identificò poi essere il pianto del figlio.

«Ma sei cretino? Che piangi a fare? Dov’è la mamma?»

Se avesse avuto un po’ più di forza gli avrebbe allungato un buffetto, perché la smettesse di tirare su col naso e gemere sommessamente; ma non se la sentiva: la gamba sinistra era come di piombo, aveva acquistato quella stessa consistenza che lo inchiodava al letto come una catena e rendeva pesante e fiacco anche il resto del corpo. Le dita della mano destra, poi, non le avvertiva più: erano come atrofizzate.

Nella confusione della mattinata non capì bene se gli avessero per prima cosa applicato le bende ed il gesso, oppure atteso il ritorno della moglie per procedere alla corsa in ospedale. Ricordava però molto bene il momento in cui Arcangela era rientrata a casa e si era precipitata al suo capezzale.

«Michele, Michele! Che è successo?»

Era pallidissima e non sapeva dove mettere le mani, tanto che dopo essersi seduta accanto a lui cominciò a tastargli prima il petto e poi a carezzargli le guance.

«Niente, che è successo?».

Quasi gli seccava tutta quell’aria solenne e catastrofica; fra sé invece, riacquistata la memoria degli eventi, si dava del cretino e dell’imbecille per essersi fatto vincere a quel modo dalla stanchezza.

«Come ti senti?»

«E come mi sento... come vuoi che mi senta? Sempre domande cretine fai.»

Arcangela, agitatissima, pareva sul punto di erompere in pianto; si voltò, notò la presenza di Luca e gli intimò di uscire un momento. Esaudita la sua richiesta cominciò a parlare.

«Sapessi che spavento che mi hai fatto prendere! Ho fatto una corsa che avrei preso una multa, per quanto andavo veloce.» Deglutì, poi continuò a parlare. «Quel Pio Rendina è un maiale! Un maiale! Lui campa col lavoro vostro e vi mette davanti a tutti questi rischi e se vi succede qualcosa? Niente! Sai come si chiama una persona del genere? Uno stronzo, un pezzo di merda!»

Michele ridacchiò di gusto nel sentirla parlare così.

«Mo’ pure le parolacce dici? È una cosa seria allora... »

«Non scherzare! Guarda qui come ti sei conciato!»

Gli prese una mano fra le sue, molto più piccole, sforzandosi per vincere il pianto e le lacrime che erano ormai prossime.

«Quando mi hanno telefonato, sai che paura... come potevo sapere io?»

Ci fu una pausa in cui lei riprese fiato, a quanto pareva impaziente di comunicare al marito una notizia importante.

«Lo sai, stamattina sono andata al cimitero... »

«Al cimitero? Addirittura?»

«Sì, ho fatto un po’ il giro e mi sono pure fermata sulla tomba di quel tuo collega... Pasquale, no?»

«Pasquale...»

«Pensa, non c’era nemmeno un fiore. Niente, era tutta spoglia, vuota, senza nulla. Ci ho lasciato un crisantemo. Ma perché fai quella faccia?»

Michele le raccontò nei particolari quello che aveva sognato la notte di Capodanno e Arcangela si portò le mani alla bocca, alla fine del racconto.

«Gesù mio! Un’anima del Purgatorio! Ti ha fatto visita in sogno!»

«Ma che Purgatorio e Purgatorio, sarà stato il vino... pure stamattina ho fatto un incontro strano. Ho incontrato, poco prima di andare a prendere il furgone con la bombola nuova, Giovanna Schiena, ti ricordi? La comare di tua madre.»

Arcangela annuì.

«Pensa, mi ha chiesto se ero stato al cimitero e poi mi ha stretto il braccio dicendo che la salute è la cosa più importante!»

«Ah, iettatrice, strega!» saltò su Arcangela.

«Macché, macché, dico solo che è strano, no? E poi ho preso la roba, sono andato alla casa che mi avevano detto e sono cascato come uno scemo. Come un pivellino, capito? È strano, non ero nemmeno tanto stanco stamattina.»

«Miche’, qua secondo me ci sta qualche malocchio».

Arcangela appariva molto seria e preoccupata, mentre Michele scrollò le spalle e si abbandonò a guardare il soffitto della camera. Rifletté qualche secondo, per poi concludere:

«Ma che sciocchezze, tutte sciocchezze.»

«Non dire così, hai visto cos’è successo? Queste cose esistono, cosa credi?»

«Certo, certo! Come quella sera della tombola... siete tutti scemi a credere a queste cose.»

«Hai ragione! Cos’era uscito, il diciassette, vero? Hanno fatto tombola col diciassette?»

«Mah, sì.»

«E allora!» esclamò, come se la verità le si fosse palesata. «Io lo sapevo che era un brutto segno... ti giuro che ho i brividi.»

Michele la guardò negli occhi e lesse nel suo sguardo la sincera paura; era tutta pallida e gli sembrò che ancora le tremassero le labbra per il pianto di poco prima. Gli teneva la mano ferita nelle sue, che pur messe insieme non riuscivano a contenerla. Scosse la testa con fermezza.

«Tutte storie, tutte storie. Sei sempre la solita scema credulona.»

Arcangela aveva tutta l’aria di voler aggiungere dell’altro per convincere il marito della sua tesi, ma poi ci ripensò e tirò un sospiro.

«Ma sì, forse hai ragione tu. La cosa importante è che guarisci.»

Non parlarono più di quegli avvenimenti per un po’ di giorni. Michele se la cavò con una frattura del piede e della mano, così dovette indossare il gesso e reggersi ad una stampella per qualche tempo; tuttavia non aveva riportato danni ingenti e con il dovuto riposo la sua guarigione sarebbe stata completata nei tempi previsti. La paura era passata e dopo un po’ riprese a camminare tranquillamente e svolgere tutte le sue normali funzioni, costretto però dalla moglie a rimanere forzatamente a casa.

Un giorno Luca chiamò a gran voce la madre, che subito accorse preoccupata.

«Che cosa c’è?»

«Per caso hai messo mano nei miei cassetti?»

«No, perché?»

«Non trovo più la tombola. Volevo giocare una partita con i miei amici e non la trovo più. Tu l’hai vista?»

Arcangela restò un attimo in silenzio a riflettere, perplessa per quella notizia.

«No tesoro, non l’ho presa io.»

«Sei sicura? Allora non sai dov’è?»

«No, non lo so proprio.»

Poi aggiunse, non senza un sorriso sfuggitole dalle labbra:

«Dovresti provare a chiedere a tuo padre.»

 

 

   
 
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Commedia / Vai alla pagina dell'autore: Pichichi