CARTELLA
N.16
L’anno vecchio
l’avevano ormai salutato dignitosamente da un’ora e
nessuno ci pensava più,
immersi com’erano in quella caotica tavolata ormai spoglia
dei piatti, dei
bicchieri e delle posate con cui avevano consumato la cena
dell’ultimo dell’anno,
dando fondo a tutto quel che c’era, non lasciando avanzata
nemmeno l’ultima
fetta di panettone. Dopo il conto alla rovescia, lo scambio di auguri
reciproci, la visione dei botti colorati al sicuro, dietro i vetri
delle
finestre, si era dovuto accontentare Luca, l’ultimogenito di
casa Tancredi, che
aveva manifestato il suo fortissimo desiderio di giocare alla tombola.
A nulla erano
valse le proteste delle mamme, gli inviti di suo padre a lasciar
perdere e
tornarsene a letto, così si era stabilito di giocare al
massimo due giri e di
tornare poi ognuno a casa propria.
«Guarda babbo,
guarda, ho vinto sei euro!»
Michele, suo
padre, lanciò una rapida occhiata alle monete che il figlio
teneva in mano e
fece un gesto svogliato d’assenso; si domandava sempre quando
suo figlio
avrebbe abbandonato quell’aria giocosa e tipicamente
infantile che lo
caratterizzava per acquisire una mentalità più
adulta, più matura. Gli anni
passavano e Luca era ormai un dodicenne, pur se continuava a
comportarsi
proprio come avrebbe fatto un qualsiasi bambino; Michele invece avrebbe
compiuto il suo secondo quarto di secolo proprio quell’Aprile
e la cosa non gli
piaceva per niente: ormai, grattandosi il capo, non avvertiva niente
più che
una peluria rada; non era mai stato troppo alto, ma ora la sua schiena
cominciava anche ad incurvarsi ed era stato costretto da sua moglie
Arcangela
ad acquistare un paio di occhiali per sopperire alla miopia. Quei
pensieri gli
mettevano addosso malinconia, così sprofondò
ancora di più nella sua sedia e
mandò giù un altro sorso di vino rosso.
«Allora, allora,
uno alla volta! Pagate la quota e prendete le cartelle!»
All’altro capo
della tavola si trovava un uomo dal viso allegro e dalle movenze
frenetiche,
che raccoglieva i centesimi che i parenti elargivano e distribuiva le
cartelle
della tombola fra i vari partecipanti, cercando di accontentare tutti.
«Io voglio la
nove, io voglio la nove!» si sbracciava Luca gridando
più di tutti, nonostante
avesse con sé già tre cartelle.
«E fa’ un
po’
silenzio, quanto gridi!» gli disse ad un certo punto
un’anziana signora vestita
di nero, la suocera di Michele, che comprò due cartelle per
sé e due per la
figlia.
«Siamo tutti a
posto, vero?» domandò lo zio Tonino, che aveva
assunto il comando della
situazione e si era munito di tabellone e sacchetto con i numeri.
«Tutto a posto,
Miche’?» chiese ad un tratto guardando il fratello
e strizzandogli l’occhio. «E
Peppino?»
Michele indicò
il divano che stava di fronte alla televisione, sul quale si era seduto
loro
fratello Giuseppe qualche ora addietro e sul quale si era addormentato
profondamente, a dispetto di tutto il baccano che si faceva,
«E tu non giochi?
Sempre il solito guastafeste!»
Gli si era
avvicinata Arcangela, sua moglie, che aveva due cartelle in mano e
tutta l’aria
di divertirsi molto: le era sempre piaciuto il gioco della tombola,
simpatia
incoraggiata dalla straordinaria fortuna di cui godeva; non passava
più di un
giro senza che lei non avesse vinto qualcosa.
Michele rispose
con un borbottio confuso, allontanandosi d’istinto col corpo,
perché, bicchiere
dopo bicchiere, la testa cominciava a diventargli pesante; anche a lui
sarebbe
piaciuto fare come suo fratello minore, che si era poggiato
compostamente allo
schienale del divano e a tratti russava.
«E dai! Facciamo
così, te la compro io una cartella!» Arcangela
contò le monete che aveva in
mano e allungò venti centesimi verso Tonino.
«E lascia stare,
sta’ ferma!» Michele le spinse il braccio di lato,
ma Arcangela oppose
resistenza.
«Zitto, zitto!
Tonino, qui una cartella per Michele!»
Tonino, che già
si stava occupando della ripartizione dei premi, li guardò
con aria sorpresa.
«Ah sì? E
com’è?»
«È questa qui
che non sta mai zitta!»
«Oh, che
brontolone!» Arcangela recuperò la cartella che le
offriva Tonino e la mise
davanti al marito. «Dai che è
divertente».
«Qua vi
divertite solo tu e tuo figlio, a me mi rompete proprio le
scatole.»
«Be’, guarda!
Mi
sembrano numeri buoni... ecco la tua parte di pasta.»
Arcangela
afferrò una manciata di ditali, la pasta di forma cilindrica
che utilizzavano
come segnapunti in mancanza di altro, poi tornò a sedersi
accanto al marito e
gli poggiò una mano sul braccio. Michele tirò su
col naso si
raddrizzò sulla sedia, osservando con una
smorfia diffidente la cartella che gli era toccata.
«Ci siamo
tutti?» domandò Tonino, dando uno sguardo a tutta
la tavolata e scuotendo il
sacchetto.
«Sì,
sì!»
«Dai, comincia!»
«Vado allora?»
«Vai, vai!»
Tonino prese
finalmente posto e infilò una mano nella sacca, frugando ben
bene e indugiando
apposta per alimentare la suspense nei giocatori. La madre di Arcangela
guardava le figure sulla propria cartella, sua figlia incitava il
cognato a
sbrigarsi, le sue sorelle giocherellavano con la pasta e infine i
ragazzi si
scambiavano previsioni sul primo estratto.
Finalmente venne
estratto il primo numero, il venticinque, cui seguirono una serie di
esclamazioni insoddisfatte e l’entusiasmo di Arcangela, che
aveva potuto
segnare la prima casella.
«Tu niente?»
«Niente»
rispose
Michele con aria risentita.
Sua moglie
sembrava invece entusiasta e già sicura di poter condurre
una giocata
vantaggiosa; Michele si disinteressò della seconda
estrazione, almeno finché
non fu vittima dell’urlo di Arcangela.
«Quarantasei!»
«Ambo! Due su
due!» informò lei trionfante, allungando la mano
per prendere la vincita. Alla
sua esclamazione seguirono numerosi borbottii e lievi imprecazioni.
«Non si può
giocare con te, vinci sempre! Che gusto
c’è?»
Passarono altre
diverse estrazioni e nessuno si dimostrava troppo felice
dell’andamento, così
incitarono Tonino a mescolare un po’ meglio i numeri.
«To’, pesca un
po’ tu, vediamo che ne esce» porse il sacchetto
alla madre di Arcangela.
«Novantasei!»
proclamò quella, fra lo smarrimento generale.
«No, no,
sessantanove! Sottosopra» corresse Tonino.
«Terno!»
strillò
Luca, scattando subito in piedi, anche lui accompagnato, come la madre,
da
esclamazioni d’irritazione.
«Così non
vale,
però! Questa sera la famiglia Tancredi è
fortunata!»
Michele li
osservava senza entusiasmo, tenendo le mani adagiate sulla pancia e non
riservando nemmeno un’occhiata alla sua cartella, ancora
vuota.
«Che gioco
scemo» concluse.
Ci furono cinque
o sei estrazioni di pausa, nei quali si mantenne il silenzio fra i
giocatori,
mentre ognuno prendeva i suoi segnapunti e li apponeva sulle caselle
fortunate.
«Undici, i
topi!»
«Ventisette,
sessanta, cinquantuno!»
Dopo un po’
Tonino avvicinò il sacchetto alla sua nipotina, incitandola
a pescare il numero
ed enunciare la relativa figura corrispondente.
«Trenta!»
proclamò lei con voce squillante, «le palle del
tenente!»
In un secondo
momento, rendendosi conto di ciò che aveva pronunciato, si
portò le mani alla
bocca e domandò scusa, fra le risate generali. La suocera di
Michele completò
una fila, mentre Arcangela diede ancora prova della sua buona sorte
aggiudicandosi il premio stabilito per aver conseguito, in
un’unica cartella, il
completamento di due righe. A quel punto non restava che aggiudicarsi
la
tombola.
«Babbo, ma tu
non hai segnato niente?» Luca si accorse della scheda bianca
che suo padre
teneva davanti a sé e gli si avvicinò.
«Ah, è vero!
Guarda, il sedici è già uscito»
Arcangela si preoccupò di aggiornare, assieme
al figlio, la cartella del marito.
«Aspetta,
aspetta, che siamo rimasti indietro! È uscito il
quarantuno?»
«Il quarantuno?
Sì.»
«L’ottantacinque?
L’ottantanove?»
«Sì, tutti e
due.»
Si scoprì che
alla cartella di Michele mancavano solo tre numeri per essere
completata, il
che lo rendeva uno dei papabili vincitori. Lui, tuttavia, osservava la
pesca
con molto distacco e con tutta l’aria di voler mandare via
tutti quanti ed infilarsi
rapidamente nel letto; il vino cominciava a fare effetto: gli occhi gli
si
chiudevano, anche per via del calore sprigionato dal caminetto del
salotto.
«Ohi Miche’,
reggi ancora un po’!» gli gridò Tonino
sorridendo, notando la sua aria
sonnolenta, «pesca tu, va’!»
Gli lanciò il
sacchetto e Michele lo afferrò con la mano, rimettendosi
composto e
stropicciandosi un occhio. Non vedeva davvero l’ora che se ne
andassero tutti,
cominciava ad averne abbastanza di tutto quel vociare. Sordo alle
richieste di
sua moglie e suo figlio, che lo pregavano di estrarre quei numeri a
loro
necessari per vincere, infilò la mano nel sacchetto.
«Settantuno!»
scoppiò a ridere. «Eccoti qua, Tonino!»
Anche gli altri
membri della tavolata risero con lui, consci del fatto che a tale
numero era
associata la definizione “uomo di merda”.
«Ma zitto,
zitto! Vai, pesca ancora!»
Michele ripeté
il gesto precedente.
«Sei!»
Luca esultò,
apponendo ancora un altro segno alle sue cartelle; guardò
meglio la casella
numero sei e, dopo averci riflettuto, domandò:
«Quella che
guarda a terra... ma che cosa significa? Io mica l’ho
capito.»
«Sinceramente
non lo so neanch’io» convenne sua madre.
«Eh... te lo
spiegherò quando sarai più grande!»
ridacchiò Tonino, facendo cenno al
fratello, seduto all’altro capo del tavolo, di estrarre
ancora.
«Vediamo...
diciassette! La disgrazia!»
«Tombola!»
saltò
su la moglie di Peppino.
«Ma no! Me ne
mancava solo uno...»
«Certo però,
fare tombola col diciassette...»
«Sia come sia, gli
euro me li sono guadagnati!».
«Perché,
scusa?
Che succede se si fa tombola col diciassette?» chiese
Michele, che aveva
abbandonato il sacchetto e già pregustava un sonno che
sarebbe durato fino al
mezzogiorno seguente.
«Niente! È
solo
che, con tutto rispetto parlando... non si sa mai, ecco.»
Tonino si era
alzato e aveva infilato già una manica nel cappotto, ma
trovò il tempo di rispondere
alla domanda e accompagnare la frase con un gesto esplicativo, quello
del
toccarsi la patta dei pantaloni.
«Quanto sei
volgare!» ribatté sua moglie, prendendolo
sottobraccio, già pronta ad uscire.
«Certo, come se
tu non avessi fatto le corna, sotto il tavolo!» la
rimbeccò lui.
In breve tempo
tutti quanti si avviarono verso il portone di casa, rinnovando gli
auguri e
promettendo di rivedersi, il giorno dopo, per pranzare tutti insieme,
da
qualche parte. Arcangela si accordò con le cognate su chi
avrebbe dovuto
preparare il primo e quale tipo di pasta fresca avrebbero scelto,
Tonino salutò
Luca con un buffetto e Peppino fu costretto, suo malgrado, a svegliarsi
dal
sonno profondo in cui era caduto per seguire la moglie giù
per le scale.
«Oh,
finalmente!» Arcangela chiuse il portone con aria sollevata.
«Ho vinto un bel
po’ di euro fra una partita e l’altra,
guarda» le mostrò Luca, incamminandosi
poi verso la sua stanza.
«Quante
sciocchezze...»,
asserì Michele fra sé.
«Eh, non dire
così!» lo rimproverò subito Arcangela.
«Scherza scherza, a me non è che sia
tanto piaciuta ‘sta cosa».
«Quale cosa?»
«Che è uscito
il
diciassette...»
«Ma quanto sei
scema, quante scemenze che dici, proprio come mio fratello! Me ne vado
a letto,
va’.»
Quando ormai
aveva già oltrepassato la soglia della camera, si
voltò bruscamente in preda ad
un improvviso pensiero.
«Michela e
Grazia non sono ancora tornate?»
«Lo sai che i
veglioni dei ragazzi durano sempre fino a tardi...»
«E ho capito, ma
sono quasi le due, che caspita! Domani le grido per bene. Sono stanco
per
aspettarle, se no...»
Detto questo
andò ad appropriarsi della sua parte di letto e fece appena
in tempo ad
infilarsi il pigiama e poggiare la testa sul cuscino che già
era sprofondato in
uno stato di incoscienza profonda.
Tuttavia il suo
non fu un sonno tranquillo; spesso gli capitava di addormentarsi di
botto a
causa della troppa stanchezza accumulata durante il giorno, per poi
risvegliarsi la mattina senza ricordare alcunché, avendo
l’impressione che fra il
momento in cui aveva toccato il letto e quello in cui aveva riaperto
gli occhi
fosse passato pochissimo tempo, non più che una manciata di
secondi. Quella
notte non fu così, anzi fu il protagonista di un curioso
sogno.
Michele aveva
sposato Arcangela, segretaria impiegata alla scuola elementare,
ottenendo da
lei tre figli: le prime, Michela e Grazia, avevano già
passato la soglia dei
diciotto anni, mentre Luca, il più piccolo, era arrivato in
un secondo momento
ed era stata una benedizione, unico maschio a poter ereditare il nome e
il
cognome del nonno. Michele lavorava a giornata presso un certo Pio
Rendina, che
gli assegnava di volta in volta lavori quali imbiancare i muri di un
appartamento, riparare le tubature di qualche scarico, piazzare
l’intonaco,
oltre che semplici lavori di trasporto. Ad iniziarlo in quel mondo era
stato un
suo carissimo amico, Pasquale, di qualche anno più grande,
disgraziatamente
morto per un tumore maligno al fegato. Quel compagno di lavoro e di
bevute, a
cui non aveva più pensato, gli fece visita in sogno.
Sognò di recarsi
come faceva ogni sera libera al circolo, di sedersi con i suoi storici
compagni
e insieme bere birra, leggere i giornali e giocare a carte fino a
tardi. Era il
suo svago preferito e non c’era luogo che stimasse
più tranquillo; in quel
momento aveva in mano tre carte ed era attesa la sua giocata per la
partita di
briscola. Si sentì toccare il braccio e si voltò
per incontrare un viso
conosciuto.
«Butta l’asso
di
bastoni, butta l’asso.»
«Pasquale? Che
dici?»
«Butta l’asso
di
bastoni.»
«E come lo
butto, che me lo piglia subito?»
«Tu butta
l’asso
di bastoni.»
Michele non
ascoltò quel che gli diceva, giocò una carta
qualsiasi fra le due rimanenti e
pescò la successiva.
«Ah! Ti avevo
detto di lasciarlo, dovevi lasciarlo andare!»
cominciò ad agitarsi Pasquale,
sempre standogli accanto. «Perché l’hai
tenuto, perché?»
«Ma calmati,
calmati, che c’è?»
«Dovevi tirare i
bastoni, non tenerteli.»
«Va bene, lo
tiro adesso, se è così importante...»
Pasquale lo
guardò con un paio di occhi straniti, quasi vacui.
«Ma adesso non
si può più... adesso è
tardi.»
«Che significa
che è tardi?»
L’altro spostò
lo sguardo dalla faccia dell’amico alle tre carte che questo
aveva in mano.
«Adesso ti
restano solo i denari» disse riferendosi al cavallo che si
ritrovava.
Michele sembrò
ricordarsi solo in quel momento di avere accanto l’amico e
d’un tratto i
contorni della stanza cominciarono a sfumare, così come le
carte, il tavolo da
gioco e l’avversario contro cui aveva intrapreso la partita.
«Ma tu come
stai, va tutto bene?» domandò.
Pasquale improvvisamente
si fece piuttosto pensieroso e rispose con voce grave:
«Io non tanto
bene, no. Non sto bene affatto».
Continuarono a
parlare ancora un po’, ma Michele non colse più
altri dettagli dello scambio di
battute, lasciando che l’immagine di loro due che
chiacchieravano si
allontanasse sempre più dalla sua percezione; al momento in
cui questa
scomparve corrispose la sua ripresa di coscienza.
Spalancò gli
occhi al buio della camera, si ricordò di essere nel suo
letto e del sogno che
aveva fatto. Turbato, si mise a sedere e si toccò la fronte
e il collo,
scoprendo di essere sudato; attribuì la colpa di quello
stato alle lenzuola di
flanella, imposte da sua moglie, che lo inviluppavano e lo riscaldavano
troppo.
Nel silenzio
della stanza cominciò a riflettere su quanto aveva sognato;
certamente ne era
rimasto scosso e in generale, esaminandola da sveglio, quella comparsa
tanto
inattesa quanto strana non gli faceva una buona impressione. Per non
parlare di
quella storia delle carte: che cosa voleva significare?
Sì, gli era
capitato altre volte di ricevere in sogno la visita di parenti defunti,
ma
questi si erano limitati a parlare con lui in modo vario, ad
accompagnarlo da
qualche parte, altre volte ancora non avevano nemmeno aperto bocca.
Ridicolo:
quando mai s’era sentito parlare di un sogno in cui un
defunto si metteva a
giocare a briscola?
«Che roba...
sarà colpa del vino.»
Certamente il
pensiero un po’ lo inquietava, ma non ritenne necessario
svegliare la moglie,
che dormiva beata accanto a lui, per riferirle tutto e chiederle un
parere; in
fondo si sentiva anche un po’ sciocco a lasciarsi prendere da
tutti quei
pensieri, così lasciò perdere e tornò
sotto le lenzuola, voltandosi su un
fianco per riprendere a dormire.
Il primo
dell’anno non ricevette alcun incarico lavorativo, ma la
mattina del secondo
giorno Pio Rendina gli telefonò per informarlo di un nuovo
affare che aveva per
le mani; si trattava di sostituire una bombola del gas, un compito
semplice e
non troppo faticoso, per lui che era abituato ad imbiancare muri e
intonacare
le pareti. Michele non aveva troppa voglia di impegnarsi per tutta la
mattina,
perché aveva in programma di scendere al mercato, comprare
le verdure e la
pasta necessaria per cucinare un bel pranzo per la sua famiglia.
Tuttavia fu
incoraggiato dal figlio minore.
«Mi piacerebbe
comprare la nuova playstation» aveva detto un giorno a
tavola, soprappensiero.
Così Michele ci
aveva pensato su, concludendo che il ricavato di quel lavoretto
l’avrebbe
conservato per comprare al figlio più piccolo quel che
desiderava; pur se lo
prendeva sempre in giro e lo rimproverava, lo stuzzicava molto
l’idea di fargli
quella sorpresa. La mattina del tre Gennaio, dunque, infilò
il giubbino, il
cappello e la sciarpa e si incamminò verso
l’azienda che gli aveva indicato
Pio, per prendere in consegna la bombola da sostituire. Mentre scendeva
a
grandi passi in paese, con le guance arrossate e gli occhi stretti per
il
freddo, avvistò in lontananza la sagoma di una signora
anziana, vestita di
nero, che procedeva a piccoli passi nella direzione opposta alla sua.
Michele la
identificò solo quando le fu più vicino: era una
comare della madre di
Arcangela, sempre evitata da sua moglie per via dello stressante terzo
grado
cui la sottoponeva ogni qualvolta si incontravano. Anche lui
sbuffò fra sé,
preparandosi a rispondere alle domande che gli sarebbero state proposte.
«Buongiorno,
come state?» domandò per primo, sperando
così di abbreviare i tempi.
«Oh, buongiorno!
Non vi avevo mica riconosciuto. Stavate scendendo in paese?»
«Eh sì, ho da
fare.»
Fece per girarle
attorno e farle capire che aveva fretta, tuttavia quella lo guardava
con aria
curiosa.
«E vostra moglie
come sta?»
«Sta bene, sta
bene, grazie.»
«Anche lei in
ferie?»
«Sì,
riprenderà
con l’inizio della scuola.»
«Capisco,
capisco. Bravo, proprio bravo» annuì e gli
sorrise, poi gli si avvicinò di più
posandogli una mano sul braccio.
«Ci sei stato al
camposanto?»
«Come?»
domandò
Michele.
«Ricordati
sempre di andare a visitare il camposanto, sempre» il tono
delle sue parole si
era fatto confidenziale e grave.
Stupito da
quelle parole e dalla piega che aveva preso la conversazione, Michele
si
allontanò istintivamente.
«Vi saluto, che
ora devo andare in paese, sono in ritardo.»
«La salute è
la
cosa più importante, ricordatelo!»
Oltremodo
turbato da quella scena, una volta che si fu liberato della sua presa
Michele
si allontanò da lei scendendo con rapidità la
strada che lo aveva condotto in
piazza; non sapeva perché, ma quelle parole lo avevano messo
molto a disagio.
Lui non ci teneva troppo, al culto dei morti e alla religione in
generale, ma
non poteva nemmeno definirsi un ateo; semplicemente non ci pensava,
perché
aveva ben altro di cui occuparsi. Perché avrebbe dovuto
recarsi al cimitero, a
far visita a chi?
Con tutta una
serie di ragionamenti in testa prelevò la bombola del gas e
giunse,
accompagnato da un furgoncino, fino all’abitazione prescelta.
Dopo mezz’ora era
già chino sul pavimento della cucina, con la faccia sotto i
mobili, ad
occuparsi della sostituzione.
Svolse il suo
compito meccanicamente. Preferiva dedicarsi
all’attività di imbianchino, ma non
disdegnava farsi carico di quelle mansioni per poter facilmente
guadagnare
qualcosa. Accettava tutti i lavori che Pio gli proponeva e
così avrebbe
continuato fino a che non sarebbe stato troppo stanco per sollevare dei
gravi,
come in quel momento. Aveva afferrato la bombola usata, coricata per
terra, con
entrambe le mani e la stava sollevando.
«Non vuoi
aiuto?» aveva domandato il ragazzo che l’aveva
accompagnato.
«No, no, faccio
solo. Apri il furgone intanto».
Allo stesso modo
con cui non prestava troppa fede alle questioni religiose, Michele non
credeva
in alcuna forza soprannaturale, che fosse il destino, il caso o la
cabala.
Mentre afferrava la bombola per i bordi e si preparava ad alzarsi in
piedi,
sentì una specie di stanchezza invaderlo, come se
d’un tratto gli venissero
meno tutte le forze. Non badandovi, attribuendo quella sensazione al
troppo
calore generato dai termosifoni della casa, piantò i piedi
per terra e cominciò
lentamente a raddrizzarsi. Aveva intenzione, una volta riuscito a
guadagnare
centimetri, di raddrizzare la bombola verticalmente e trascinarla
così fuori
dalla casa; aveva tenuto addosso il giubbino, convinto che avrebbe
impiegato
pochissimo tempo, e ora cominciava a patire il caldo e sentir colare
sulle
tempie gocce di sudore e di fatica. Tuttavia, stringendo i denti, era
riuscito
a tirarsi su e a portare con sé il suo carico.
Soddisfatto,
mosse qualche passo verso l’uscita della cucina;
all’improvviso, però, ebbe una
violenta vampata di calore e gli sembrò, per un attimo, di
vedere tutto
annebbiato. Non si era neanche ripreso da quello stato di capogiro che
avvertì
la forza scivolare via dalle sue mani, le dita distendersi, gli arti
illanguidirsi, e prima che potesse rendersene conto lasciò
andare la bombola,
non essendo più in grado di reggerne il peso. Ci fu un
momento in cui riprese
la piena coscienza di sé, riscuotendosi dallo stato in cui
era scivolato,
quello in cui avvertì la bombola schiantarsi con una
velocità non indifferente
sul suo piede, producendo un tonfo sordo insieme allo scricchiolio
delle ossa.
Istintivamente gridò di dolore e pose una mano avanti, la
destra, a reggere la
bombola per impedirle di piombare sul pavimento. Ma siccome la testa
gli
girava, il caldo gli aveva ottenebrato i riflessi e il peso sul piede
gli aveva
fatto perdere l’equilibrio, si ritrovò per terra
con le dita schiacciate e
perse presto coscienza, fra il dolore fortissimo e il capogiro.
Fortunatamente
le sue urla avevano attirato la padrona di casa e l’altro
ragazzo, che lo
trovarono steso per terra con una gamba rannicchiata contro il petto e
la
bombola del gas che rotolava sul pavimento, mostrando una chiazza nera
e rossa
sulle dita della sua mano.
Dei momenti
successivi Michele non ebbe che una percezione sommaria: non avrebbe
saputo
dire se l’avessero portato prima in ospedale e sottoposto ad
un rapido esame,
ad una radiografia, o se lo avessero steso sul suo letto in attesa del
ritorno
della moglie dalle compere mattutine.
«Luca?» aveva
chiamato piano, riconoscendo una piccola sagoma acquattata
all’angolo del
materasso.
Subito lui si
era avvicinato, il volto corrucciato in una smorfia del tutto infantile.
«Babbo, babbo,
che hai?»
«Niente, che
ho?»
«Sei caduto, ti
sei rotto la mano... sei rimasto schiacciato.»
Michele distinse
un ripetuto miagolio nell’aria, che identificò poi
essere il pianto del figlio.
«Ma sei cretino?
Che piangi a fare? Dov’è la mamma?»
Se avesse avuto
un po’ più di forza gli avrebbe allungato un
buffetto, perché la smettesse di
tirare su col naso e gemere sommessamente; ma non se la sentiva: la
gamba
sinistra era come di piombo, aveva acquistato quella stessa consistenza
che lo
inchiodava al letto come una catena e rendeva pesante e fiacco anche il
resto
del corpo. Le dita della mano destra, poi, non le avvertiva
più: erano come
atrofizzate.
Nella confusione
della mattinata non capì bene se gli avessero per prima cosa
applicato le bende
ed il gesso, oppure atteso il ritorno della moglie per procedere alla
corsa in
ospedale. Ricordava però molto bene il momento in cui
Arcangela era rientrata a
casa e si era precipitata al suo capezzale.
«Michele,
Michele! Che è successo?»
Era pallidissima
e non sapeva dove mettere le mani, tanto che dopo essersi seduta
accanto a lui
cominciò a tastargli prima il petto e poi a carezzargli le
guance.
«Niente, che è
successo?».
Quasi gli
seccava tutta quell’aria solenne e catastrofica; fra
sé invece, riacquistata la
memoria degli eventi, si dava del cretino e dell’imbecille
per essersi fatto
vincere a quel modo dalla stanchezza.
«Come ti senti?»
«E come mi sento...
come vuoi che mi senta? Sempre domande cretine fai.»
Arcangela,
agitatissima, pareva sul punto di erompere in pianto; si
voltò, notò la
presenza di Luca e gli intimò di uscire un momento. Esaudita
la sua richiesta
cominciò a parlare.
«Sapessi che
spavento che mi hai fatto prendere! Ho fatto una corsa che avrei preso
una
multa, per quanto andavo veloce.» Deglutì, poi
continuò a parlare. «Quel Pio
Rendina è un maiale! Un maiale! Lui campa col lavoro vostro
e vi mette davanti
a tutti questi rischi e se vi succede qualcosa? Niente! Sai come si
chiama una
persona del genere? Uno stronzo, un pezzo di merda!»
Michele
ridacchiò di gusto nel sentirla parlare così.
«Mo’ pure le
parolacce dici? È una cosa seria allora... »
«Non scherzare!
Guarda qui come ti sei conciato!»
Gli prese una
mano fra le sue, molto più piccole, sforzandosi per vincere
il pianto e le
lacrime che erano ormai prossime.
«Quando mi hanno
telefonato, sai che paura... come potevo sapere io?»
Ci fu una pausa
in cui lei riprese fiato, a quanto pareva impaziente di comunicare al
marito
una notizia importante.
«Lo sai,
stamattina sono andata al cimitero... »
«Al cimitero?
Addirittura?»
«Sì, ho fatto
un
po’ il giro e mi sono pure fermata sulla tomba di quel tuo
collega... Pasquale,
no?»
«Pasquale...»
«Pensa, non
c’era nemmeno un fiore. Niente, era tutta spoglia, vuota,
senza nulla. Ci ho
lasciato un crisantemo. Ma perché fai quella
faccia?»
Michele le
raccontò nei particolari quello che aveva sognato la notte
di Capodanno e
Arcangela si portò le mani alla bocca, alla fine del
racconto.
«Gesù mio!
Un’anima del Purgatorio! Ti ha fatto visita in
sogno!»
«Ma che
Purgatorio e Purgatorio, sarà stato il vino... pure
stamattina ho fatto un
incontro strano. Ho incontrato, poco prima di andare a prendere il
furgone con
la bombola nuova, Giovanna Schiena, ti ricordi? La comare di tua
madre.»
Arcangela annuì.
«Pensa, mi ha
chiesto se ero stato al cimitero e poi mi ha stretto il braccio dicendo
che la
salute è la cosa più importante!»
«Ah, iettatrice,
strega!» saltò su Arcangela.
«Macché,
macché,
dico solo che è strano, no? E poi ho preso la roba, sono
andato alla casa che
mi avevano detto e sono cascato come uno scemo. Come un pivellino,
capito? È
strano, non ero nemmeno tanto stanco stamattina.»
«Miche’, qua
secondo me ci sta qualche malocchio».
Arcangela
appariva molto seria e preoccupata, mentre Michele scrollò
le spalle e si
abbandonò a guardare il soffitto della camera.
Rifletté qualche secondo, per
poi concludere:
«Ma che
sciocchezze, tutte sciocchezze.»
«Non dire
così,
hai visto cos’è successo? Queste cose esistono,
cosa credi?»
«Certo, certo!
Come quella sera della tombola... siete tutti scemi a credere a queste
cose.»
«Hai ragione!
Cos’era uscito, il diciassette, vero? Hanno fatto tombola col
diciassette?»
«Mah,
sì.»
«E allora!»
esclamò, come se la verità le si fosse palesata.
«Io lo sapevo che era un
brutto segno... ti giuro che ho i brividi.»
Michele la
guardò negli occhi e lesse nel suo sguardo la sincera paura;
era tutta pallida
e gli sembrò che ancora le tremassero le labbra per il
pianto di poco prima. Gli
teneva la mano ferita nelle sue, che pur messe insieme non riuscivano a
contenerla. Scosse la testa con fermezza.
«Tutte storie,
tutte storie. Sei sempre la solita scema credulona.»
Arcangela aveva
tutta l’aria di voler aggiungere dell’altro per
convincere il marito della sua
tesi, ma poi ci ripensò e tirò un sospiro.
«Ma sì, forse
hai ragione tu. La cosa importante è che guarisci.»
Non parlarono
più di quegli avvenimenti per un po’ di giorni.
Michele se la cavò con una
frattura del piede e della mano, così dovette indossare il
gesso e reggersi ad
una stampella per qualche tempo; tuttavia non aveva riportato danni
ingenti e
con il dovuto riposo la sua guarigione sarebbe stata completata nei
tempi
previsti. La paura era passata e dopo un po’ riprese a
camminare
tranquillamente e svolgere tutte le sue normali funzioni, costretto
però dalla
moglie a rimanere forzatamente a casa.
Un giorno Luca
chiamò a gran voce la madre, che subito accorse preoccupata.
«Che cosa
c’è?»
«Per caso hai
messo mano nei miei cassetti?»
«No,
perché?»
«Non trovo più
la tombola. Volevo giocare una partita con i miei amici e non la trovo
più. Tu
l’hai vista?»
Arcangela restò
un attimo in silenzio a riflettere, perplessa per quella notizia.
«No tesoro, non
l’ho presa io.»
«Sei sicura?
Allora non sai dov’è?»
«No, non lo so
proprio.»
Poi aggiunse,
non senza un sorriso sfuggitole dalle labbra:
«Dovresti
provare a chiedere a tuo padre.»