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Autore: Clarance    29/01/2012    1 recensioni
A volte la vita, fa brutti scherzi, alle volte, ci viene portata via.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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SUDDENLY. Camminava con le mani in tasca,in maniera pesante,piuttosto velocemente. Lo sguardo fisso sui propri piedi. Era così fuori di sé, che neanche cercare di contare i propri passi lo riportava alla realtà. O almeno, ad una concezione più realistica di quel che gli accadeva in torno. Quel pomeriggio di febbraio, mentre camminava, non si rese conto che sulla strada principale c’era stato l’ennesimo incidente. Oppure, che la gioielleria dei fratelli Haker era stata svaligiata. Forse, non se ne sarebbe accorto comunque: in quella città la criminalità era alla portata del giorno.

Non sentiva nulla di nulla.. Ma più camminava,più andava in contro all’uragano di eventi che stavano accadendo, imperterrito. Ma, anche se si fosse fermato,lo avrebbero raggiunto lo stesso.

Alzò lo sguardo sentendo il cellulare nel cappotto in pelle vibrare. Era un ragazzo comune, dai tratti semplici ed occhi e capelli neri. Forse, un po’ troppo magro per essere uno e settanta. Afferrò il Nokia semi-distrutto ed aprì l’applicazione per i messaggi di testo:Era sempre lui…Non diceva niente di rilevante, o che lo potesse scuotere più di quanto non lo era già. Quindi, rimise il cellulare al suo posto e riprese a camminare.

Alla prima fermata dell’autobus che vide si fermò e, fortunatamente, quest’ultimo non si fece attendere: stava cominciando a salire una leggera nebbiolina, quella che anticipa la pioggia, che,a sua volta, precede forti acquazzoni.Salì sul bus e si sedette senza fare il biglietto. Accanto a lui si mise una bambina. Be’, forse non tanto bambina. Avrà avuto si e no tredici anni, anche se secondo lo standard delle ‘tredicenni’ del ventunesimo secolo, tredici anni non li dimostrava affatto. Era vestita in maniera allegra, un giacchetto dalle strisce color arcobaleno.. Sentì la voglia di sorridere, ma non ci riuscì. Quindi tornò ad ammirare le proprie adidas bianche.

Adidas bianche…
Adidas bianche…

Una voce meccanica annunciò la fermata a cui si era fermato l’autobus. Ne aveva dette altre? Forse…O forse no.

“Ospedale.”

Rimase seduto finché il mezzo pubblico non si fermò. Non era ancora del tutto sicuro di voler scendere. Ma prima che ripartisse, superò la ragazzina che lo seguì allontanarsi e poi scendere velocemente, con lo sguardo. Pensò che quel ‘signore’ avesse qualcosa che non andava, poi si appropriò del posto vicino al finestrino per guardare fuori. Stava andando dalla sua migliore amica.

Magari il ragazzo fosse stato diretto per una meta altrettanto piacevole.

Quando poggiò i piedi sul marciapiede asfaltato ,grigio e sudicio, impiegò parecchi secondi per girarsi verso la struttura bianca dell’ospedale, e ne passò molti di più a fissarlo in silenzio. Era grande, immenso. Troppo colossale. Si sentiva piccolo. Inferiore…

Impotente...

Strinse le mani a pugno dentro le tasche e si rese conto che stava sudando dal fatto che fossero così umide. Non era un gran problema al momento. Si mise a scorrere tutte le finestre che gli erano davanti, partendo da destra, poi facendo un giro dall’alto verso il basso, e così via. Che senso aveva entrare lì? Sarebbe cambiato qualcosa se fosse andato anche lui? Non voleva…Non voleva…

Eppure riprese a camminare. Aspettò che il semaforo fosse verde e poi attraversò velocemente, sempre con quel passo pesante, trascinato. Salì i gradini che portavano all’entrata con altrettanto ‘entusiasmo’, e solo una volta superate le porte scorrevoli, alzò lo sguardo dalle scarpe, che a causa della pioggerellina leggera erano passate da bianche a grigiastre.

La prima cosa che vide, fu un infermiera che gli sfrecciò davanti, con delle garze in mano, ma neanche questo lo sorprese più di tanto. Rimase fermo, si scrutò intorno, e poi cominciò a percorrere lunghi corridoi uno dietro l’altro, alla ricerca della direzione giusta da seguire. Non voleva chiedere informazioni. Questa volta, nel cammino, fu difficile ignorare quel che lo circondava, e più cose lo colpirono.. Vide due ragazzi abbracciati, uno asiatico,che aveva si e no la sua età, o forse un po’ meno di venticinque anni, ed un altro biondo, col viso completamente sfigurato: doveva essersi ustionato. Si tenevano per mano, ed il biondo poggiava la parte del volto intatta sulla spalla dell’altro, che lo accarezzava.


Aveva la sua stessa identica espressione.

Continuando a girovagare, incappò nel reparto maternità. Si affacciò nel corridoio aureo e vide una cosa che, come non era riuscita a fare la bambina, gli fece stendere le labbra in un flebile sorriso, ma nonostante tutto sentito: una madre sulla sedia a rotelle, dai lunghi capelli neri e con ancora il pancione che fra le braccia stringeva un fagottino azzurro. Improvvisamente, la porta che teneva socchiusa venne spalancata da un uomo molto più alto di lui che fece come se non esistesse. Corse verso i due e strinse prima lei e poi il bambino che teneva in braccio. Il sorriso scomparve, e riprese la ricerca.

Alla fine, dopo più di mezz’ora che vagava, decise di riprendere in mano il Nokia per controllare il piano e il numero della stanza. In seguito, non avrebbe più cancellato quell’sms.
Una volta prese le coordinate,salì un piano più in alto, svoltò per qualche austero corridoio e poi si trovò davanti alla camera. Intravide qualcuno al suo interno, e si nascose dietro ad un muro: un infermiera lo superò osservandolo in malo modo. Il cuore gli andava a mille. Aveva paura. Aveva paura della cosa che tutti noi temiamo di più: Della verità. Della cruda, spietata realtà. Era lì. Quel che era successo era successo. Si mise una mano fra i capelli stringendoseli il più forte possibile. Sarebbe voluto tornare a pensare alle sue scarpe da ginnastica sporche …

Sentì delle goccioline di sudore rigargli la fronte e scivolare giù, sulla punta del naso e poi sulle labbra.. Lacrime salate che sapevano di paura.

A un certo punto si spinse con le mani contro il muro e voltò l’angolo di corsa. La porta era sempre più vicina, la porta aperta. Le figure che erano all’interno si facevano più nitide.
Mike si voltò per primo: aveva gli occhi grigi, un bel naso all’insù e del capelli così biondi da sembrar bianchi. La prima volta che l’aveva visto, lo aveva scambiato per una ragazza. Ma i suoi occhi, non erano più molto belli,adesso. Erano arrossati, gonfi.. Era lui, che continuava a mandargli quegli stupidi ed inutili sms. Accanto a lui, una donna dai capelli bianchi, sulla cinquantina. Margaret.. Quando anche lei lo vide sussurrò con la voce rotta dalle lacrime il suo nome.

“Jonathan..”

Mike gli saltò addosso, buttandogli le braccia al collo.. Non era molto più basso di lui. Lo strinse forte e si lasciò di nuovo andare al pianto e così anche la donna. Ogni tanto, sussurrava la frase “non è giusto”. Ma lui, Jonathan, non poteva rispondergli né abbracciarlo di rimando. Fissava, a bocca aperta, chi era nel letto davanti a loro fra flebo e computer vari.

Bionda e bella, spiritosa, dolce, delicata: il suo fiorellino personale, da accudire e curare.. Susie.

Una ragazza sulla ventina, era sdraiata davanti a lui, con la pelle biancastra e ricoperta di bende: un incidente, il motorino non l’aveva vista e lei non era riuscita a sfuggirgli. Un occhio bendato, l’altro chiuso, quegli occhi che lo avevano guardato con così tanto amore, grandi e azzurri: il suo mare personale. Era lì. Silenziosa… irrigidita. Attaccata a delle macchine infernali.

Susie…
La sua Susie...

Ancora fra le braccia di Mike, sentì le gambe cedere e la vista farsi appannata. Qualcos’altro di umido gli sfiorò le labbra, ma stavolta, non era sudore. Il diciassettenne, il fratellino prediletto di Susie, lo lasciò andare intimorito dalla sua reazione.. Jonathan si rimise in piedi ancora prima che le ginocchia toccassero il suolo e si piombò sul capezzale della ragazza. Quel che bagnava il proprio volto, scivolò anche su quello di lei.

“Amore mio..” Sussurrò in preda ad un pianto straziato.

No. Non era giusto.

Jonathan, era sempre stato considerato un ragazzaccio. Dai suoi genitori. Dai suoi parenti. Dalle sue insegnanti e dai suoi compagni di scuola. Perché? Perché era silenzioso. Non amava socializzare. Perché interagire con altri? Che senso avrebbe avuto? Il suo mondo era bello così com’era. Il pomeriggio in skate, la sera a vedere le stelle, ogni tanto una birretta. Viveva in pace. E poi.. Nel suo mondo entrò anche Susan Ostine. La ragazza più bella della scuola. Era ormai all’ultimo anno di liceo e, girovagando per la scuola in solitaria, era incappato in una ragazza che piangeva china sui libri.. Stretto in mano un cellulare verde.. Così stretto, che quando riuscì a farglielo lasciare, se ne ritrovò un pezzo nel palmo della mano. Era una ragazza del secondo anno.. L’aveva riconosciuta dal colore dell’uniforme che aveva indosso. lui non l’aveva, costava troppo. Quel giorno, il padre di Susie era morto. E lui era stato con lei. E da quel giorno, era sempre stato con lei.


Da quando era andata a trovarla la prima volta in ospedale, andò sempre, ogni giorno. Che ci fosse Pioggia o sole cercava di star con lei il più tempo possibile. E lei, continuava a dormire.. Finì con il perdere uno dei suoi tanti lavori, per accudirla, per quanto potesse farlo.
Il primo mese, era accompagnato da Mike. Le portavano fiori, nuovi film che sapevano le sarebbero piaciuti, musica, ed ogni tanto Jonathan le suonava qualcosa.
Il secondo mese, Mike iniziò a venire meno spesso. L’altro ragazzo, che ormai era sempre più deperito, si sdraiava accanto a lei e giocava con i suoi capelli.. Gli era sempre piaciuto farla arrabbiare mentre la stuzzicava e ogni tanto quando il fratello di lei entrava e lo vedeva così, arrossiva anche.
Il terzo mese, le visite della madre e di Mike si fecero quasi nulle.. Solo nei weekend, portavano a Susan qualcosa,oppure, la venivano semplicemente a salutare. Il quarto mese, lo passò completamente solo, con l’amore della sua vita.. Ogni giorno le portava un libro diverso, partendo dai classici per andare a finire con gli ultimi usciti. Una volta, per variare un po’, decise di portarle un album di foto: c’erano solo le loro, ed erano una più bella dell’altra.

“Vedi amore mio? Qui eravamo al mare.. Te l’ho sempre detto che io in costume sto male –diceva ridacchiando fra sé e sé mentre indicava le immagini colorate dell’album- invece tu sei sempre bella. Oh! E questa qui? Te la ricordavi? Avevi appena compiuto diciotto anni.. Te l’avevo detto che quel vestito era davvero bellissimo.. Mmh. E questa? Non mi ricordo.. Eravamo in montagna? Già,già! Eravamo andati a sciare! Per una volta ero io quello più bravo di te..” E scoppiava di nuovo a ridere. Smetteva ogni volta che però, voltandosi, vedeva che lei non lo faceva con lui.

La sua risata.
Non l’avrebbe più risentita?

Il quinto mese scorse ancora più lentamente del precedente.. Aveva fatto amicizia con metà dello staff che si prendeva cura del suo fiore al posto suo, ma mai aveva avuto il coraggio di chiedere come stava. Una delle infermiere gli aveva chiesto un appuntamento. Aveva rifiutato e aveva riaperto l’album dei loro ricordi.
Il sesto mese, fecero 6 anni insieme. Suonò la chitarra e le cantò la loro canzone preferita, iniziando a fare progetti su cosa avrebbero potuto fare durante l’estate, quando si sarebbe sentita meglio.

Un giorno entrando in quella che ormai era diventata la sua seconda casa, sorrise ad una delle infermiere –e si chiese se fosse stata quella a chiedergli di uscire- ma lei, declinò lo sguardo. A quel punto si fermò. Tutto quello che aveva intorno, fu come risucchiato dal suo essere. Non sentì più il pianto del bambino appena nato al piano sottostante, o il battere della pioggia contro i vetri, od ancora i tacchi delle ragazze che gli passavano davanti. Tutto fu silenzio.

E’ successo.

E’ successo davvero.


Corse,corse il più in fretta possibile, salì, girò, ed entrò nella camera di Susan.



…Vuota…



Le macchine che l’avevano tenuta in vita, erano sparite e con esse il materasso del letto su cui entrambi erano stati sdraiati. In quel momento, gli venne in mente un’estate che avevano passato insieme, nella casa in campagna di lei.. Aveva i capelli legati con uno sfizioso fiocchetto verde, come il cellulare che aveva distrutto. Erano sdraiati in una distesa di fiorellini di campo e margheritine di bosco.. Uno spettacolo. Jonathan le si era accoccolato con la testa sulle ginocchia, e lei lo guardava negli occhi facendo facce strane: era divertente la sua Susie. “Lo sai che ti amo,vero?” Gli aveva chiesto e lui aveva riso allegramente: “ Io penso che tu mi odi. E lo sai perché? Perché mi hai rapito e non vuoi lasciarmi andare.. Ed io.. io non voglio lasciarmi mandar via.” Lei aveva sorriso, poi si era rattristata un po’. Lo aveva guardato e gli si era avvicinato dicendo: “Se un giorno non ci fossi più ricordati questo: tutto quello che ho è tuo, tutto quello che faccio è per te.. Se tu ti ricorderai di me, allora ovunque sarò, sarò in pace. Ricordatelo sempre.. Ed ora..” Si era alzata facendogli sbatter la testa in terra ed aveva iniziato a correre:” PRENDIMI!”

La stanza era vuota.
Lui non l’avrebbe più inseguita.
Non l’avrebbe più fatta sorridere.
Non avrebbero più visto un film insieme.
Non avrebbero più litigato.
Non avrebbero più fatto la pace.
Non ci sarebbe più stato un noi.


Era di nuovo solo. Lei lo aveva lasciato solo..

Corse fuori dall’ospedale ed attraversò la strada ignorando le macchine: che lo mettessero sotto! Che lo investissero! Correva, correva, correva e correva ancora. Sembrava un fantasma in mezzo a milioni di esseri vivi, pulsanti, felici e tristi nella loro realtà più o meno perfetta. E lui invece, era solo. Morto. Freddo. Ma non abbastanza per essere ancora lì con lei. Corse ancora, corse il più che poteva, finché non vomitò l’anima per quanto aveva corso in fretta. Ripresosi, nonostante il dolore alle gambe, riprese a correre via. Ma come aveva supposto mesi e mesi prima, l’uragano lo stava inseguendo.. Forse, erano già alla pari.

Improvvisamente si ritrovò sul fiume e pensando all’acqua, si rese conto che era completamente bagnato. Pioveva. Le sue lacrime erano pioggia, e la pioggia erano le sue lacrime che s’univano con il fiume, sul quale si affacciò. Guardò l’acqua. Lui era come quell’acqua. Scura. Agitata dal vento dell’uragano. Apparentemente viva.

L’uragano, la disperazione, aveva finalmente vinto la sua corsa e, con le ultime forze che si trovava urlò il nome della sua amata e cadde in terra.



Susie, ti amo.
  
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