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Autore: TsukiNezu    30/01/2012    2 recensioni
"Sapeva che avrebbe dovuto stare male e si sentiva come se stesse male, ma non era reale: tutto ciò che sentiva non era più reale. 

Avrebbe dovuto anche provare paura per la sua condizione attuale, ma non riusciva ad averne. 

Lentamente, stava abbandonando tutte le sue insicurezze.
"
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Chiuse gli occhi e spiccò il volo. 



Era libera. Di colpo sentì la stanchezza degli ultimi mesi scivolarle addosso come acqua piovana, e si meravigliò, ma solo per un attimo, di quanto a lungo avesse sopportato tutto quel dolore senza un lamento.
In fondo, ci era abituata alla sofferenza, alle privazioni, alla solitudine e a tutte quelle sensazioni opprimenti che si attaccano ai sentimenti e alle debolezze che sono proprie di ogni uomo.
Conosceva meglio di chiunque altro il peso della sua costrizione e l’impotenza derivata dalla sua condizione.
E meglio di chiunque altro, ora, poteva godere della lieve pressione dell’aria fresca sul suo volto,
volare libera dalle sue inquietudini, senza fretta e a bassa quota, in quello spazio illimitato ed immenso.
Libera.
Senza pensieri. Come aveva sempre sognato di essere.


Neppure una volta dubitò di stare sognando.
Neppure una volta considerò l’idea di aprire gli occhi.

Aveva troppa paura che l’incanto si spezzasse, così restò immobile nell’aria, le palpebre serrate,
lasciando che l’intero suo corpo fluttuasse come quando, da ragazza,
era solita uscire di notte dalla sua camera di nascosto e,
abbandonati i suoi vestiti sulla riva del lago, 
si abbandonava all’elemento che le era più familiare. 
Alla luce della luna distingueva a malapena le sue forme immerse nell’acqua, ma non le dispiaceva questa mancanza di definizione.
Attorno a lei solo il silenzio ed il lieve sciabordio delle onde.
Assaporò la dolce nostalgia di quel deja-vu.  

Lei amava il lago. Amava quel lago.


Si rivide bambina, infagottata nel suo cappotto invernale, mentre lanciava sassolini in quelle acque calme cercando di farli rimbalzare.
Si rivide un po’ più grande, mentre correva insieme al suo cane nel boschetto lì accanto,
e mentre faceva i compiti seduta alla grande scrivania con i piedi di leone del padre.
Rivide i volti delle sue amiche d’infanzia, i cartoni alla tv, le gare di nuoto e la prima sigaretta, fumata di nascosto nei bagni della scuola.

Le immagini di una vacanza risalente a chissà quando si fecero prepotentemente vive nei suoi pensieri.
Si ricordò di lui, del loro primo incontro alla festa di Claudia, del modo in cui l’aveva corteggiata e poi invitata a ballare;
ricordò i pomeriggi passati nel “loro” locale ed il sapore dei biscotti fatti in casa,
il rombo della sua moto ed i fuochi d’artificio, le lunghe corse in riva al lago ed il suo primo bacio dato con la schiena contro le barche sulla riva.
Ricordò la luce di un falò riflessa sulle sue iridi, le sue parole dolci sussurrate nel silenzio della notte, le sue braccia forti che la stringevano, l’eco di mille promesse.


Ma non riusciva a ricordare il suo volto.
I suoi occhi brillavano davvero? Le sue parole erano davvero dolci? Quelle braccia erano davvero forti?

Lo vide osservarla dal finestrino di un treno in partenza per qualche luogo lontano da lei.
Piangeva? Rideva? Quel riflesso sul vetro non le permetteva di capirlo.


Si rivide mentre, frenetica,  preparava la sua valigia e lasciava con calligrafia tremante i suoi saluti su un foglio.
Si rivide mentre si chiudeva dietro la porta di casa per l’ultima volta, mentre caricava il suo piccolo bagaglio sul treno e voltava le spalle ai dolci luoghi della sua infanzia.
Piangeva, ma sapeva che era la cosa più giusta da fare.
Non sarebbe tornata indietro. Non si sarebbe mai pentita. 
Arrivata per restare, quella mattina vide il sole sorgere mentre raggiungeva a piedi il portone di casa di lui:
“Non mi hai aspettato!" – gli disse fingendo di tenere il broncio, e si godette la sua espressione stupita, le sue risate di incredula gioia e l’odore del suo dopobarba,
il vento gelido e loro due a braccetto sul viale, un abbraccio caldo, il cigolio del letto e l’aroma del caffè.



Il suo primo impiego, i suoi primi guadagni, la loro modesta vita e la loro piccola felicità.
Lui e le sue carezze, lui e le sue premure, i pomeriggi al parco, le sue mani sulle sue mentre le insegnava a suonare la chitarra.
Lui e la sua sicurezza, le uniche cose di cui avesse mai avuto bisogno.
Lui, la sua sicurezza.
Lui che avrebbe dato indietro il mondo piuttosto che lasciarla andare.

Lui ed i suoi scatti d’ira.
Rivide suo padre con la sua larga schiena, che si allontanava sorreggendosi la testa tra le mani.
“Papà…papà…”
“Fà ciò che vuoi.”

Lei, in lacrime, non poté fare altro che guardarlo andare via.
“Scusami papà…” – singhiozzava – “…scusami…”
“Andiamo.” – le aveva detto l’altro, con l’ematoma sotto l’occhio che lentamente andava gonfiandosi.
E lei l’aveva seguito, senza una parola.
Lui e le sue pretese. Lui e la sua gelosia.
“Se mi ami, fallo.” – e lei eseguiva.
Lui e le sue fissazioni.
“Se non mi ami, dillo.” – e lei taceva.
Il lago, il suo lago. Quanto le mancava.




Gli anni passavano.
La sua bellezza sfioriva. Il lavoro non andava. I soldi mancavano.
Bè…erano sempre mancati. Ma, stavolta, più del solito.
Lei si sentiva vuota come la conchiglia di un mollusco, e avrebbe tanto voluto che un bambino riempisse quello spazio.
Anche questo le era stato negato: lui non avrebbe mai sopportato l’ingombrante presenza di un piccolo marmocchio urlante con cui contendersi le attenzioni di lei.
Discussero a lungo sulla questione.
Una sera, messo con le spalle al muro dalle sensate argomentazioni di lei, lui perse le staffe.
La picchiò.
Poi uscì di casa e vagò per le strade alla ricerca di qualcuno che potesse punirlo per la malvagità dell’atto compiuto. Lo trovò alla settima birra, in un locale di periferia.

Tornò a casa grondando sangue.
Lei lo medicò in silenzio, chiedendosi se questa non fosse altro che una richiesta di attenzioni,
ma mise ben presto da parte ogni domanda ed ogni accenno alla questione sul bambino.
Le lacrime di lui le sembravano sincere.
Anche se, allo stato attuale delle cose, lei non ricordava neppure che faccia avesse lui. 


Ricordò in un attimo i tanti sacrifici della sua vita nella Grande Città, ed il percorso che quotidianamente faceva per andare a lavoro, e la vetrina di quel negozio di scarpe vicino al suo ufficio:
lei ci passava davanti ogni giorno, ogni giorno vedeva quel paio di stivali di pelle rossa, così graziosi.
Avrebbe potuto permetterseli.
Ma non avrebbe mai avuto l’occasione per sfoggiarli. E non aveva voglia di raccontarsi bugie inutili.
L’agenzia di viaggi. Le foto dei laghi finlandesi appese al muro dietro l’operatore.
Sentiva di nuovo pulsare qualcosa lì dove credeva che, ormai, ci fosse solo uno spazio vuoto.

Decise di farsi un regalo.
Lavorò fino a spezzarsi la schiena per pagarsi quel viaggio: era il suo sogno, la motivazione che riempiva ogni sua giornata.
Sapeva che, se fosse riuscita a vedere con i suoi occhi quella distesa immensa di acqua placida, avrebbe ritrovato il suo equilibrio.
O meglio, lo avrebbero ritrovato.
Tutto sarebbe andato meravigliosamente bene,
tutto sarebbe tornato come prima, e ci sarebbero stati ancora pomeriggi al parco e note di chitarra, tazze di caffè caldo dopo notti d’amore e biscotti fatti in casa e baci dati all’ombra delle barche.

Oh, sì, sarebbe stato fantastico,
ma lui aveva rovinato tutto, e nel modo peggiore:
“Che stronzata, spendere questa barca di soldi per una mèta così inutile. Se ci tieni tanto a vedere i laghi, prenditi un giorno di ferie e vattene a Bracciano, non è la stessa cosa?”
Non bastava un lago qualsiasi.


Lui e il suo egoismo. Lui e le sue crisi.
Lui che fingeva di non averla vista piangere quando, a letto, le mostrava le spalle.
Lui che baciava lievemente i lividi che lui stesso aveva causato, e cercava di attenuare il dolore di lei con deboli scuse…promesse che puntualmente tornavano ad essere tradite.
Ferite dell’anima, non del corpo, e l’inferno si ripeteva, ogni volta peggiore.
Ma lei amava quel piccolo uomo così insicuro. Oh, sì che lo amava, davvero.

Anche se ora non riusciva a ricordarne i tratti. Lo amava?


Si era alzato il vento. Poteva sentirlo sulle spalle e sulle braccia.
Ma ancora non apriva gli occhi.


Si ricordò invece di sua madre. L’ultima immagine che aveva di lei risaliva a quindici anni prima, quando con suo padre aveva cercato di riportarla a casa.
Era una donna fragile che per tutta la vita aveva avuto serie difficoltà a dimostrare amore verso la sua unica figlia: parlava poco.
Forse perché non sapeva come esprimere ciò che provava. O forse perché non aveva nulla da dire.
La sua voce, però, era rimasta scolpita a fuoco nei suoi ricordi. Ed una sera, poco dopo cena, fu quella stessa voce a risuonare nella cornetta dell’apparecchio telefonico della cucina.

“Tuo padre sta morendo.”

Lei si fece di ghiaccio e rimase a lungo in piedi ed immobile, schiacciata tra il frigorifero e la parete.
Poi si riscosse, corse verso la camera da letto e cominciò ad ammucchiare alla rinfusa i vestiti in una sacca.
“Dove vai?” – la voce di lui.
“Torno a casa.” – rispose.
“Tu non puoi tornare a casa.”
“Mio padre sta male.”
“Tu non puoi tornare a casa.”

Lei lo ignorò e continuò a raccogliere i suoi effetti personali.
Corse fuori e si diresse verso la stazione, che distava pochi isolati.
Si accorse in quel momento che presto sarebbe stata di nuovo a casa, davvero: avrebbe rivisto luoghi familiari, volti amici, la sua casa, il suo lago.
La circostanza non era allegra, ma lei sorrise ugualmente.


Il treno arrivò fischiando, ed i passeggeri arrivati cominciarono ad accalcarsi vicino alle porte.
Fu in quel momento che il suo telefonino squillò.
Brutto segno.
Continuava a spostare lo sguardo tra il treno e il cellulare, convincendo se stessa che niente avrebbe dovuto fermarla proprio ora che stava partendo.
Quanto aveva aspettato quel momento?
La suoneria non accennava a smettere, anzi, le stava mettendo addosso un’inquietudine mai provata prima:
si sentiva nuda tra la gente, giudicata dallo sguardo inquisitore altrui, sporca, vigliacca, inutile.
“Sto scappando” – si diceva – “sto solo scappando!”

Decise infine di rispondere. Sapeva che era lui, e gli avrebbe spiegato le sue ragioni, gli avrebbe chiesto scusa. Gli avrebbe anche giurato che sarebbe tornata.
Ma, nel frattempo, sarebbe salita sul treno, così che nulla avrebbe potuto mai convincerla a tornare sui suoi passi. Non ora che papà…

Mise un piede sul predellino per farsi coraggio.
Schiacciò il tasto verde sul suo telefono e rimase in attesa.
Sorrise.
Non era lui! Era solo la vicina di casa.
Vedi che succede, a volte, a non rispondere?
La sua bocca si piegò in un debole sorriso mentre la ascoltava.
Durò pochi secondi.

“Signora, ha intenzione di salire?” –  un ragazzo con un pesante zaino da campeggio aspettava paziente il suo turno dietro le sue spalle.
Lei si volse lentamente a guardarlo, con aria assente.
La sua mente registrò a malapena il contesto nel quale si trovava: la stazione, la folla ammassata sul binario, il treno, la sua mano sinistra sui sostegni del treno,
la destra che reggeva il cellulare dal quale ancora proveniva la voce della vicina, il grande orologio in alto sopra la sua testa.
Lo stesso che tanti anni prima l’aveva accolta al suo arrivo in quella città che non era la sua.
Di colpo le sembrò così innaturale trovarsi lì, che ebbe un capogiro.

Lentamente appoggiò il piede di nuovo a terra, sul binario.
“Sto arrivando.” – sussurrò più a se stessa che al suo telefono, e riagganciò.
“Non sale più?” – era il controllore.

Lei non rispose.
Gettò un’ultima occhiata al treno che si stava via via riempiendo e poi corse via dalla stazione, nella notte.

La verità è che, quella sera, le fu chiesto di fare una scelta.
Tutti gli uomini, nel corso della vita, sono messi di fronte a una scelta fondamentale, e quasi tutti finiscono sempre per commettere gli stessi errori: non scegliere, scegliere male.
Sarebbe molto più piacevole se si potesse avere tutto, o, per assurdo, se non si avesse niente.

Lei scelse male: si autoconvinse che sarebbe riuscita a restare vicina, contemporaneamente, ai due uomini più importanti della sua vita…perché non sarebbe riuscita ad abbandonare nessuno dei due, mai.
E così, mentre suo padre a chilometri di distanza esalava l’ultimo respiro, lei se ne stava seduta nella sala d’aspetto dell’ospedale, ad aspettare notizie del suo amore.
Che, non appena lei aveva varcato la porta di casa, aveva buttato giù un flacone intero di idraulico liquido.
Ma poi, troppo pavido per morire in casa da solo, si era trascinato tra dolori lancinanti sul pianerottolo ed aveva raschiato con le unghie sulla porta della vicina di casa finchè ella, dopo avergli aperto, non lo aveva soccorso.

Una degente si mise a sedere nel posto accanto al suo.
La guardò a lungo prima di chiederle: “E’ qui per suo marito?”
“Non siamo sposati.” – rispose lei.
“E’ tanto che state insieme?”
Lei non sapeva rispondere a quella domanda.
Le sembrava una vita intera. Si limitò ad annuire.
“Oh! Non l’avrei mai detto, lei sembra ancora così giovane…non avete mai pensato di…”
“Senta”
– la interruppe bruscamente lei girandosi a guardarla.
Era una signora anziana. Proprio il genere di persona che non aspetta altro che vedere volti nuovi con cui fare conversazione. Una persona sola.
Chissà se anche lei appariva così, agli occhi degli altri.
“Secondo lei” – le parole le sorsero in bocca prima che potesse fermarle – “il matrimonio è una buona occasione per calzare stivali rossi di pelle?”
La signora le restituì uno sguardo perplesso: “Vuole sposarsi in comune o in chiesa?”
“Non è importante.”
“Bè…direi che non è il tipo di calzature adatto ad un matrimonio…”

Calò il silenzio.

Si alzò lasciando la signora al suo posto con un’espressione vagamente attonita, e gettò uno sguardo alla finestra. 
Si ricordò di quando, in notti simili a quella, andava a nuotare nel lago, da sola.
Era la sua piccola trasgressione.
Pensò al giorno in cui era venuta nella Grande Città per inseguire il suo sogno d’amore.
Quando lui rappresentava ancora quella voglia di vivere senza freni, il piacere e la sua giovinezza, che lentamente negli anni era andata sfiorendo.
Era stata trasgressione anche quella?

Pensò alla sua vita, ora così orrendamente ordinaria. Al suo compagno così egoista ed insulso.
Nulla di ciò in cui aveva creduto fino a quel giorno conservava più il suo senso.
Si ritrovò a sperare che quel suo grande amore morisse, che venisse corroso dall’interno nel più doloroso dei modi e che niente e nessuno più si frapponesse tra lei e la sua libertà.
Pensò che avrebbe ricominciato tutto da capo.
Sarebbe tornata a casa, avrebbe avuto di nuovo la sua famiglia ed i suoi amici.
Tutto sarebbe andato meravigliosamente bene.


Chiamò a casa per avere notizie di suo padre.
Le dissero che era morto.


Lei prese a pugni la sensazione di vuoto che la pervase e, facendosi forza, cercò di spiegare a sua madre che non sarebbe stata sola, che lei sarebbe tornata, che avrebbero potuto ricominciare, che…

“Non ho più una figlia. E questa non è più casa tua.”

Rimase immobile.
Nelle orecchie, il suono ripetuto di una conversazione spezzata.
Non disse nulla.
Si lasciò cadere al suo posto accanto alla signora e, per la prima volta dopo tanti anni, pregò.

Lui era obiettivamente uno stronzo.
Le aveva portato via per sempre l’occasione di riconciliarsi con suo padre;
l’aveva soggiogata con le sue insicurezze e con le sue paure, l’aveva ridotta ad uno straccio.
Lui, come uomo, non valeva nulla.
Ma era il suo tutto. Ed odiarlo era impossibile.
“Non portarti via anche lui…”





Sospesa e fluttuante in quella strana atmosfera, non avrebbe saputo dire se stava galleggiando nell’aria o nel flusso dei suoi ricordi.
Sapeva di trovarsi in un posto con molta luce: la vedeva trasparire dalle sue palpebre chiuse, ma ancora non si decideva ad aprire gli occhi.
Il pensiero del padre, l’ultima immagine che aveva di lui vivo, le facevano male.
Ma anche il dolore appariva solo come un ricordo. Non stava realmente male.
Sapeva che avrebbe dovuto stare male e si sentiva come se stesse male, ma non era reale: tutto ciò che sentiva non era più reale.
Avrebbe dovuto anche provare paura per la sua condizione attuale, ma non riusciva ad averne.
Lentamente stava abbandonando tutte le sue insicurezze.
 
Socchiuse un occhio.
Subito venne investita da una luce bianca fortissima, talmente intensa che non riuscì a vedere nulla.




Il bianco splendente attorno a lei divenne il bianco della ceramica del lavandino del suo bagno.
Si rivide in piedi con le mani sui rubinetti, mentre fissava i test di gravidanza positivi appoggiati accanto al tappo.
Si sentiva bene, era felice.
Non sapeva se anche lui l’avrebbe presa bene, ma credeva che in nome dell’amore così passionale che, sicuramente, un tempo li aveva uniti, avrebbe accettato la sua decisione di tenerlo.
Nessun uomo sarebbe potuto restare indifferente, di fronte al miracolo di una nuova vita che si compie: sì, tutto sarebbe andato meravigliosamente bene.
Lui rincasò in quel momento. Sembrava allegro: forse era il momento adatto per dirglielo.

E se lui, dopo due anni, avesse tentato di nuovo il suicidio per richiamare la sua attenzione?
“No” – aveva pensato – “perché stavolta non vado da nessuna parte. 
Anzi, cominceremo una nuova vita, in tre.
Gli farò capire i suoi sbagli, gli darò sicurezza, gli darò una famiglia.”

Con un figlio, tutto sarebbe stato più facile.
E se lui non avesse accettato la realtà dei fatti, lei in qualche modo già sapeva che il suo orgoglio di madre avrebbe sopraffatto l’orgoglio di donna.
Sarebbe tornata a casa sua, dove la aspettava il lago. Avrebbe chiesto scusa a sua madre, che non avrebbe saputo rifiutare asilo ad una figliola prodiga e al suo nipotino.
Sapeva che se la sarebbe cavata perché lei, quel bambino, lo desiderava più di ogni altra cosa al mondo.

Fu un attimo. Un soffio.
Il silenzio, un luccichio negli occhi di lui.
“No.” – disse.
“No.” – disse lei, ed era la risposta al “No.” di lui.
Si fronteggiarono per qualche secondo, poi lui sorrise e si voltò lievemente.

“Ha capito” – pensò lei, di colpo sollevata – “ha capito quanto abbiamo bisogno di calore in questa casa…lo ha capito…”
In verità era lei ad aver bisogno di calore, lei a volersi sentire libera di amare e di crescere ed accudire il frutto  dei suoi sentimenti,
affinché tutto ciò che l’aveva condotta a quel punto, dalla notte in cui aveva lasciato il suo paese sul lago, non si rivelasse un errore.
Voleva calore e voleva che ne avesse anche lui, che capisse, che imparasse.
Voleva calore.

Non fu calore, però, quello che sentì, bensì una lancia di ghiaccio sull’addome.
Cos’era?



Abbassò lo sguardo in fretta e vide il manico del coltello. Non riusciva a vederne la lama.


Aprì anche l’altro occhio e cercò di abituarsi alla luce intensa.  Ora riusciva a vedere i contorni sbiaditi delle cose attorno a lei.
Ancora un po’…ancora un po’…


Guardava i suoi occhi senza espressione e cercava di muovere la bocca, ma non le uscivano le parole.
Era incredula. Semplicemente incredula.
Non era possibile che stesse accadendo proprio a lei.


Fu come quando, da bambina, faceva le capriole sul prato del giardino.
Era la stessa identica cosa: una capriola, un rapido avvitamento, ed ecco che il mondo aveva perso i suoi colori. Tutto il paesaggio attorno a lei era dipinto a colori freddi.
Si accorse a malapena delle sue braccia spalancate, del suo corpo nudo riflesso sullo specchio d’acqua sottostante, dei suoi capelli al vento e del fatto che stava fluttuando nell’aria, come un dirigibile a bassa quota.
Venne rapita proprio dal paesaggio. Quel paesaggio…



“Non ti preoccupare. Non fa male, vero?”

Sì che faceva male. Faceva malissimo.

“Non ti lascio sola.”


Era il suo lago, il suo paese, la sua campagna.
Sulla destra poteva vedere il profilo di quella montagna dove faceva lunghe escursioni  a caccia di funghi con suo padre, nelle domeniche autunnali. Era davvero così basso? E dire che, quand’era bambina, le sembrava un’altura immensa.  Vide il bosco ai suoi piedi e le parve di sentire la voce della sua maestra delle elementari: “Bambini, non andate a giocare lì! E’ pericoloso!”
Pericoloso? Quei due alberi?
Dritto davanti a sé, le case dai tetti sbiaditi, il campanile della chiesa, la diga sul fianco della parete di roccia, il litorale. Erano anni che mancava da lì, ma non avrebbe mai potuto sbagliarsi a riguardo: era il paese che l’aveva vista nascere, lo stesso paese dal quale una ragazza giovane e bella, dalla finestra di camera sua, aspettava per tutto l’anno che arrivasse l’estate, i turisti, una ventata d’aria nuova che – sperava – un giorno l’avrebbe portata via da lì.
Poi era arrivato lui. E lei lo aveva seguito.

“Vengo con te, amore. Ti raggiungerò subito.”

Era stata lei a dire quelle parole?
O era la voce di lui?


Si passò una mano sulla schiena, e subito si rese conto di dov’era finita la lama del coltello.
Trapassava il suo corpo da parte a parte.


“No” – pensava – “non puoi venire con me, non qui.
Non ti permetterò di entrare ancora nella mia vita, non ti permetterò di allontanarmi ancora dalle persone che amo.
Non ti permetterò nulla di tutto ciò!”



Sotto di lei c’era il lago, una distesa color argento che ormai aveva poco del suo antico colore verde smeraldo, ma conservava ancora la trasparenza delle sue acque.
Vedeva il riflesso delle nuvole sopra di lei, vedeva il suo corpo specchiarvisi statico e capì che quel posto aveva qualcosa di strano: era tutto troppo immobile per essere vero.



Cadde in ginocchio sul pavimento, con le mani strette intorno alla pancia.
C’era sangue dappertutto.
Faceva freddo e faceva caldo, che sensazione.
Pensò distrattamente che, tra quei fiotti caldi, c’era anche qualcosa del suo bambino.

Che cosa stupida! Non sapeva neanche se sarebbe stato un maschietto o una femminuccia, non sapeva che nome avrebbe avuto e neanche se i suoi occhi avrebbero ricordato quelli del suo papà.
Non lo sapeva perché non ricordava neppure lei che occhi avesse
l’uomo che, in quel momento, si stava mettendo  a cavalcioni del davanzale del soggiorno.
“Eppure ti avrei voluto bene lo stesso….”

Sangue.

“…scusami se non ho potuto farti da madre….”

Le si annebbiò la vista.

“…ma sono così stanca…”

Lui scomparve al di là della finestra.
Non ebbe bisogno di sentire il fracasso che il suo corpo fece quando, cadendo rovinosamente sulla strada, si trascinò dietro lo stendipanni dei vicini del piano di sotto ed il tendone di plastica del fruttivendolo,
né ci fu bisogno per lei di sentire i clacson delle auto o le urla della gente.
Sapeva già che era morto. Chissà da quanto tempo.

Chissà come si chiamava.

“Non mi hai aspettato.” – pensò.
Vigliacco.


Volse lo sguardo alle sue braccia e non si sorprese di non vederne più i contorni, confusi nel grigio del cielo così come, un tempo, si perdevano nelle acque scure dei suoi bagni notturni.
Ancora una volta, non ebbe paura. Non pensò nemmeno di averne.
Qualunque fine avesse fatto la sua coscienza umana, era un bene che in quel momento se ne fosse andata altrove: le gambe non c’erano più,erano ormai fuse con il lago, figlie del bosco.
Provò a muoverle e vide che le fronde degli alberi vicini si agitavano, mentre la terra tremava lievemente.  Scosse il bacino e mosse il grembo, che non le doleva più, e vide che la superficie dell’acqua si increspava di piccole ondine.
Mosse di poco le braccia e sentì il vento farsi più forte.
Sollevò la testa e tutto intorno a lei si rianimò dei colori della natura.
Tutto prese vita di nuovo, e lei riprese vita insieme al tutto.
Nulla avrebbe più potuto portarla via da quel luogo, perché lei era quel luogo,
avrebbe riempito il vuoto della sua esistenza con l’esistenza di tutti gli abitanti del posto:
avrebbe potuto essere la madre imparziale di una moltitudine di figli senza un nome.
La storia della sua vita le era passata davanti in un attimo, e la verità, quella che aveva sempre cercato, l’aveva raggiunta a un attimo dalla fine.


L’ultimo brandello di lucidità che le era rimasto le fece pensare all’ironia di tutto ciò che le stava capitando: per tutto il tempo non aveva mai desiderato altro che sentirsi libera…

“Libera!”

…era fuggita di notte da quel luogo che la faceva sentire in catene, ora vi faceva ritorno per atto di volontà. E, davvero, era sicurissima che non sarebbe mai riuscita a sentirsi più libera

“Libera!”

di così, ora che più nessuno le avrebbe negato qualcosa ora che più nessuno l’avrebbe imprigionata ora che non avrebbe più dovuto cercare una copia dei luoghi del suo cuore in un cartellone turistico ora che non avrebbe avuto più bisogno di scarpette rosse per sentirsi donna ora che non c’erano più appoggi né insicurezze e la paura era sparita e l’incubo era finito ora che ora che la sua vita era di nuovo nella sue mani, le mani di una donna che più donna non era ma sicuramente adesso è

“Libera!”

“Libera.” – pensò.
“Sono davvero libera!”

“Libera!” – gridò per l’ultima volta l’uomo con il defibrillatore.
Poi, il silenzio.



“Ora del decesso…

  
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