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Autore: Eggie    30/01/2012    0 recensioni
Bryant Aidan era solo un ladruncolo. E non avrebbe mai combinato nulla di buono. [Il Regno]
Genere: Azione, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Nota dell'autrice: a dir la verità non ho idea se questa storia possa "stare" qui. In fondo, è presa da un libro. Quindi... Boh. Chiamiamolo Spin-off. [Il Regno] 



Gillon faceva schifo.

Anche se il sole rischiarava i monumenti donando loro una luce dorata. Anche se le stradine lastricate si snodavano sinuose tra edifici di stupefacente bellezza. Anche se ovunque si respirava aria di storia. Anche se sopra la sua testa, pendenti da fili legati alle abitazioni, ondeggiavano dolcemente lanterne a forma di fiore, che di tanto in tanto attiravano piccoli nugoli di fate scintillanti.

Ecco, nonostante tutto questo, Gillon continuava a fare schifo.

Lui tutte quelle straordinarie opere d'arte, quelle che toglievano il fiato a chiunque visitasse la città, non le vedeva spesso. Era troppo occupato a mangiare la polvere del campo di baracche dove viveva, ai margini di... di tutto. Ai margini della città in sé, della società, della civiltà. Il suo unico desiderio era andarsene, e un giorno ci sarebbe riuscito, altroché,

Sua sorella maggiore, Lucy, gli aveva ficcato in mano una scopa e l'aveva sistemato a ramazzare il selciato, ma per quanto spazzasse, la polvere non se ne andava (il che era logico, visto che stava colpendo terra e sabbia), ed era altamente probabile che l'avesse confinato lì solo per tenerlo occupato... E soprattutto lontano dai guai.

Da quando era morto suo padre, tre anni prima, l'occupazione preferita di Lucy era tentare di tenerlo fuori da qualsivoglia problema. Eppure, lui era un bravo ragazzo... A volte.

Un ghigno malizioso si dipinse sul suo volto pallido, mentre pensava alle sue ultime malefatte.

Rubato tre polli al mercato. Il venditore l'aveva sorpreso mentre infilava -e non sapeva bene nemmeno lui come aveva fatto- il terzo nella sua sacca. Negare era inutile, visto che dall'interno proveniva un baccano terribile e la stoffa si agitava qua e là, quasi fosse indemoniata. Così era scappato.

Senza pensarci un secondo, si era voltato e aveva cominciato a correre. Il tizio del banchetto non era riuscito a star dietro alle sue gambe da tredicenne, e dopo un po' aveva desistito. Non era una mossa da codardo, fuggire, almeno non dal suo punto di vista. Se si fosse messo di nuovo nei guai, Lucy quella dannatissima scopa gliel'avrebbe spezzata sulla testa, altro che fargli pulire il cortile. E poi lui i soldi per quei tre stupidi polli non li aveva proprio.

La verità era che senza quel piccolo stipendio da carpentiere che il suo vecchio portava ogni settimana non c'erano più i soldi per nulla. Per quanto, doveva ammettere che quegli animali li aveva rubati per noia e per scommessa con il suo amico Stewart. Che però se l'era data a gambe ancora prima che lui afferrasse il primo volatile. Vigliacco.

Sospirò, soffiando via i capelli dalla fronte e guardando in alto. Il sole picchiava dritto sopra la sua testa, quel giorno, e i riflessi di esso uniti alla sua chioma fulva lo facevano sembrare avvolto dalle fiamme. Era una strana visione, ma era anche piacevole; di sicuro, non era fuori posto a Gillon, la città della bellezza: Bryant Aidan era davvero un giovane di rara avvenenza, anche se non poteva averne consapevolezza, ancora.

«Ehi, Stewart... Stewart!» avvistò in lontananza il suo amico, e lasciò immediatamente cadere la ramazza a terra, correndogli incontro con passo agile.

Lui lo osservò torvo, per un secondo: «Mia madre ha saputo della scommessa.» affermò dopo un attimo di silenzio, cupo in viso, «Non mi è permesso abbandonare il campo per due settimane.»

«Per tre polli?» Bryant si fece sfuggire uno sbuffo misto a una risata, incrociando le braccia al petto e inarcando un sopracciglio, come faceva sempre Lucy quando era perplessa e divertita allo stesso tempo dal suo comportamento, «Che esagerazione! Abbiamo fatto carognate ben peggiori.»

Calò il silenzio.

Carognate.

Erano ben consapevoli che le loro bravate erano ben più che semplici ragazzate, erano dei veri e propri crimini, azioni riprovevoli di cui avrebbero dovuto vergognarsi. E a volte capitava... Beh, raramente.

La maggior parte delle volte erano allegramente inconsapevoli della gravità dei loro gesti. Dall'alto dei loro tredici anni, credevano di essere invincibili, e soprattutto impunibili. Il fatto che qualche volta fossero stati scoperti non scalfiva minimamente la loro supponenza.

«Già...» Stewart scosse la testa biondo cenere, supportando l'amico, «Ma non ne è mai venuta a conoscenza.» tracciò una parabola invisibile nel terreno, con un piede, «È tutta colpa tua.» lo colpì violentemente su un braccio, con il pugno chiuso, «Avevo un appuntamento con un tizio, oggi, e adesso non potrò andarci.»

Bryant si massaggiò il muscolo, dolorante. Gli dispiaceva di aver fatto perdere un appuntamento -che poteva immaginare essere “di lavoro”- a Stewart; il suo amico era sempre stato quello che prendeva l'iniziativa, salvo poi tirarsi indietro all'ultimo istante e lasciarlo da solo in mezzo ai guai, eppure lui lo seguiva ciecamente.

Non era davvero un codardo. Molto più semplicemente, Stewart non era tipo da mettersi nelle grane per piccoli furtarelli come lui, non ne valeva la pena: gli serviva qualcosa di grosso, per mettersi in gioco; di solito, lasciava le scommesse riguardanti pennuti al rosso, per semplice divertimento. Aveva la stoffa del capo. Bryant, invece, si sentiva più gregario; non avrebbe mai e poi mai avuto il coraggio di prendere il comando, insomma, lui non era un leader, e non lo sarebbe mai stato. Sapeva di essere parecchio carismatico se si impegnava, ma sentiva nel profondo del suo cuore che anche crescendo non avrebbe voluto prendere responsabilità.

Semplicemente, non faceva per lui.

«Ouch.» protestò, «Senti, mi dispiace. Ma è stata tua l'idea di fregare tre polli.» fece una smorfia, «Ricordi? “Bryant dai, voglio vederti girare con quei cosi sotto la giacca, sai che ridere!”» lo scimmiottò,

«Avevi lo zaino. La scommessa non era più valida.» tentò di giustificarsi l'altro, «E sai una cosa? Qualcuno ha cantato. Altrimenti, mia madre non l'avrebbe mai scoperto... E io penso sia stato tu.» lo accusò, fissandolo duramente.

Bryant indietreggiò, indeciso su cosa rispondere. Si sentiva offeso e scandalizzato del fatto che Stewart, il suo migliore amico, potesse davvero pensare che l'aveva tradito. In realtà, in cuor suo sapeva benissimo che non lo credeva affatto; era solo una scusa per chiedergli un favore... Che non tardò ad arrivare.

«Per rimediare, andrai tu all'appuntamento.» Stewart sembrava piuttosto sicuro, per essere uno che credeva di essere stato turlupinato dal suo complice,

«D'accordo.» sbuffò il rosso, «Chi devo incontrare?»

«Un tizio. Si chiama Darren.» tagliò corto l'amico, «Lo riconoscerai perché ha una benda sull'occhio,» abbassò la voce fino a sussurrare, «gliel'hanno strappato via, sai...» affermò, tentando di impressionarlo, «Tu digli che ti manda Stewart, e dagli questo.» estrasse dalla tasca un ciondolo, che Bryant riconobbe come quello che l'amico portava sempre al collo, e glielo consegnò, «Occhio, questa è roba che scotta.»

Il ragazzo sapeva benissimo che se il biondo diceva “roba che scotta” intendeva dire che era davvero roba bollente. Si avviò verso il luogo dell'incontro, barcollando e stringendosi nella sua vecchia giacca verde militare. Almeno, Darren non sembrava un nome minaccioso.

Sapeva che l'uomo lo stava aspettando dietro il vecchio teatro dedicato a Thomas Sallow, grande mecenate di Gillon vissuto un centinaio (o più, lui non era molto ferrato in storia) di anni prima. Era davvero una beffa, incontrarsi per affari loschi dietro uno dei luoghi più sfarzosi della città.

«E-Ehi, scusa...» balbettò, non appena ebbe visto colui che stava cercando, «I-io...»

«Cosa vuoi, moccioso?» Darren lo guardò appena, continuando a fumare la sua sigaretta appoggiato alla parete, «Non è aria, evapora.»

«Mi manda Stewart.» con un unico respiro, Bryant spiattellò quello che gli aveva consigliato di dire il suo amico, «Guarda.» gli mostrò il ciondolo, come un automa, sul palmo della sua mano aperta.

Lui lo guardò storto per qualche istante, poi la sua espressione si fece addirittura feroce. Si scostò dalla parete, girando intorno a Bryant e spingendolo spalle al muro. Mentre il respiro del ragazzino si faceva più affannoso, lo imprigionò contro i mattoni con il suo corpo: «Mi stai prendendo in giro?» domandò, bloccandogli la gola con un avambraccio, «Ti avverto, ragazzino, se è una specie di trappola, ti ammazzo!»

Il volto pallido del rosso divenne, se possibile, ancora più cereo, mentre sentiva le ginocchia cedere: «No, no...» tentennò, con gli occhi sgranati, «Mi ha... Mi ha mandato Stewart, lui non è potuto venire perché...» si bloccò, indeciso se dire la verità o inventarsi una scusa, ma il panico di avere un uomo di cento chili che faceva forza sul suo collo esile gli impediva di pensare, «Sua madre ha... L'ha messo in punizione.»

Darren strabuzzò gli occhi, per qualche istante: «Sua... Madre?» chiese, allibito,

«Sua madre.» ripeté il giovane, «Lei... Ha scoperto un furtarello da nulla e l'ha punito.»

«Quindi... Stewart sarebbe un ragazzino come te?» l'uomo inspirò una boccata di fumo e la espirò lentamente, «Non me lo aspettavo.» parve pensieroso, «Oh, beh.» concluse, «Immagino che per il lavoro vadano bene anche dei mocciosetti. Anzi, dovreste avere anche meno difficoltà a passare.»

Passare?

Passare dove?

Passare da cosa?

Non ebbe nemmeno il coraggio di chiederglielo.

«Un tiro?» Darren sembrava dimentico di avere davanti un tredicenne, mentre gli offriva una sigaretta.

Anche qui, Bryant non ebbe il coraggio di rifiutare. Portò la sigaretta alla bocca e inalò il fumo acre. Cominciò immediatamente a tossire, cercando di trattenere i conati.

«Su, e che sarà mai, moccioso.» l'uomo gli rifilò delle pacche sulla schiena, peggiorando solo la situazione, «Non sarai mica così delicato, vero? Altrimenti come affronterai la banda degli otto?»

Solo sentire il nome della banda degli otto gli fece mozzare il respiro in gola. Dalla tosse convulsa passò improvvisamente all'apnea totale.

La banda degli otto?

Quelli erano criminali veri. Quelli ammazzavano la gente, facevano girare gioielli e pietre preziose, e armi, un sacco di armi rubate agli elfi. Non era di due polli o un borsellino trafugato al mercato, che si trattava.

Sentì un tremito scuotergli le ginocchia, di nuovo. Lui non era davvero un criminale, lo era per gli standard di un tredicenne, ma non voleva mettersi in casini così grossi. Ormai sapeva, però. E sapeva, oltre al piano di Darren, che dal guaio in cui si era cacciato non ne sarebbe mai più uscito.

 

Bryant alzò di scatto la testa dagli avambracci, appoggiato al tavolo di legno scuro al quale era seduto. Che diavolo di ore si erano fatte?

Era da solo, nella stanza, e sotto le sue braccia, ormai spiegazzata, giaceva la mappa con il percorso della marcia per Quinlan. L'unica luce presente era quella della lanterna ad olio accanto a lui, che si stava esaurendo.

Era rimasto a Darren che lo portava via per nasconderlo in una cassa da infiltrare nel covo della banda degli otto. Scosse la testa, e si alzò, spostando la sedia senza troppa grazia, rumorosamente. Si stiracchiò, e si avviò verso il cucinino, imprecando verso sé stesso per non essere andato a letto prima.

Davanti alla porta della cucina si fermò: era illuminata, dentro c'era qualcuno. Aprì piano, sperando di non disturbare nessuno.

Seduti attorno al tavolo c'erano Vekman, Hesperia, Wolf e James, concentrati sulla loro partita a carte. Erano talmente assorti che Bryant si chiese se non avessero notato i rivoli di fumo che avvolgevano le loro caviglie, salendo fino ai loro busti.

Fumo?

Ma che diavolo era, un sogno?

«Ehm...» si schiarì la voce, per segnalare la sua presenza sperando che nessuno di loro si sentisse preso alla sprovvista e gli saltasse al collo con un coltello, anche se era praticamente certo che gli elfi si fossero accorti di lui già quando era sulle scale -nonostante questo, il rischio che Hesperia gli saltasse addosso brandendo un'arma tagliente per puro divertimento rimaneva molto alto-, «Ragazzi...»

«Bryant...» in coro, lo salutarono tutti, senza staccare gli occhi dalle carte,

«Che... Cosa diamine è tutta questa... Foschia?» chiese incerto, camminando cautamente; visto che non vedeva nulla di ciò che stava sul pavimento, non voleva rischiare di pestare un draghetto della strega, e magari trovarsi quei piccoli denti aguzzi e velenosi conficcati nel polpaccio,

«Ci si è rotta una fiala.» spiegò Wolf, prendendo una carta dall'amica,

«Zitto.» lo rimbeccò lei, «Stavo già per rispondere che era per creare atmosfera. Adesso comincerà a lamentarsi, perché siamo troppo sbadati e bla-bla-bla, quel peso umano

«Oh.» il “peso umano” si grattò la testa, perplesso, «Ed è... Pericoloso

«Ovviamente.» sbuffò Hesperia, «Noi siamo qui perché ci teniamo ad avvelenarci.»

«Veramente prima mi hai dato una pozione per non farmi soffocare.» la corresse Vekman, «Quindi presumo lo sia davvero, pericoloso.»

«L'effetto magico è quasi passato.» spiegò Wolf, «Non corri grossi rischi.»

Non appena Wolf ebbe smesso di parlare, nella stanza fu il silenzio. Gli elfi di sicuro riuscivano a percepire il nervosismo del rosso, e probabilmente anche gli umani potevano intuirlo.

«Che c'è, Bryant?» dopo poco, James parlò, con la sua solita gentilezza, «Sembri turbato.»

Il ragazzo sospirò, memore del brusco risveglio di poco prima: «Beh,» si strinse nelle spalle, «mi ero addormentato nella stanza delle riunioni.» spiegò,

«Uh, povero piccino, voleva dormire nel suo lettino.» lo canzonò Hesperia ironica, «E questo dovrebbe pure... Oh mia Dea, non riesco nemmeno a dirlo.» scosse la testa, con aria sconsolata, «Moriremo tutti.»

«Non è certo quello, simpaticona.» replicò Bryant, piccato, «Il fatto è che se mi guardo indietro, mi sembra di non essere adatto a questo ruolo.» sussultò, «Oh, è quello che hai detto tu.»

La strega abbozzò un sorriso sarcastico, come a voler rimarcare quanto appena detto; tornò a concentrarsi sulle sue carte, mentre accoglieva il suo draghetto Florelle sulle ginocchia.

«Sciocchezze, Bryant.» James soffocò una risata, «Siamo ancora vivi, e gran parte di noi ha ancora tutte le parti del corpo.» lo guardò con i suoi occhi acquamarina aperti e sinceri, «È una grande responsabilità la tua, è vero... Ma ci siamo noi ad aiutarti, e poi... Beh, non posso immaginare nessuno più adatto di te, a dire la verità.»

Il rosso guardò l'amico, sentendosi lievemente in colpa: era vero che lui aveva delle grosse responsabilità, ma James... James aveva delle responsabilità verso i suoi affetti. Lui, ad eccezione di Crystal, non aveva niente e nessuno da proteggere e per cui, in caso di disgrazia, si sarebbe sentito distrutto. Il suo amico aveva deciso di occuparsi di Zach, e in cuor suo il rosso sentiva che quella era una vera responsabilità, altro che il peso che gravava sulle sue, di spalle.

«Ho fatto parecchi errori.» affermò, cupo, chinando il capo; non avrebbe mai dovuto lasciarsi trascinare da Stewart, anche se gli sembravano ragazzate innocenti. Si era dimostrato un debole.

«Oh, non sei perfetto.» Hesperia sbuffò improvvisamente, quasi scocciata, «Sai che novità

«Consolante.» Bryant scosse la testa, senza stupirsi del sarcasmo dell'altra,

«Andiamo, capo.» Hesperia grattò la testolina squamosa di Florelle, che si strusciò contro di lei come un gatto, «Nessuno è perfetto, tanto meno qui.» gli fece l'occhiolino, in un raro moto di compassione, «Neanche la tua amata Crystal, se è per questo.» ridacchiò,

«Tutti abbiamo fatto degli errori, Bryant.» lo rincuorò Vekman, sorridendo,

«Già.» l'elfa prese nuovamente la parola, senza aspettare che il biondo terminasse il suo discorso, «Per esempio... Crystal avrebbe potuto evitare di comportarsi come una serpe nei confronti delle sue amiche, James avrebbe potuto... Non fare nulla di ciò che ha fatto in questi mesi,» lanciò un'occhiataccia al ragazzo che le stava accanto, «Wolf avrebbe potuto evitare di tagliarmi quella ciocca di capelli mentre dormivo per tentare di venderla come amuleto di immortalità...»

«Mi ha quasi strappato la testa dal collo, quando se n'è accorta.» la interruppe l'altro elfo, annuendo convinto,

«Mi hai tagliato i capelli mentre dormivo.» ripeté la strega, come se il taglio di una ciocca fosse l'ovvia giustificazione di un elficidio, «E... Oh, Vekman l'altro giorno ci ha portati dritti tra le braccia delle guardie di Conferton, ricordi?»

«E tu, miss Saputella?» Vekman la fissò, risentito, «Anche tu avrai fatto degli errori, sentiamo...»

«Oh, no.» l'elfa sorrise sorniona, «Io sono perfetta

«È la tua modestia che ti rende così eterea e moralmente elevata?» chiese Bryant, sforzando un sorriso; era strano: nonostante quella discussione gli stesse risollevando l'umore, continuava a sentire un peso opprimente sul petto, e il cervello annebbiato dai sensi di colpa.

Wolf doveva averlo notato, perché gli posò una mano sulla spalla: «Forse è meglio se torni a riposarti, Bryant.» gli disse, «Domani sarà una lunga giornata, e gli umani devono dormire per essere nel pieno delle forze.»

Il ragazzo annuì, alzandosi faticosamente dalla sedia sulla quale si era seduto: «Sì,» mormorò, «In effetti mi sento un po' strano, è meglio che vada...»

Stava per uscire dalla stanza, quando Hesperia lo bloccò: «Ah, Bryant.» chiamò, ostentando disinteresse, «La pozione, sai... Volevo solo dirti che potresti sentire un po' di sonnolenza.»

Maledicendola mentalmente per non averlo turlupinato dicendogli che non c'era nulla da preoccuparsi, il rosso uscì nel corridoio, rabbrividendo per lo sbalzo di temperatura tra i due ambienti. Fece qualche passo, sentendo sempre di più la testa girare; giunse alle scale, e si aggrappò al corrimano, sempre più sfinito.

 

«Un po' di sonnolenza?» James sollevò un sopracciglio, perplesso,

«Cosa dovevo dirgli, che quella roba avrebbe potuto stendere un drago di quattro metri?» Hesperia fece spallucce, arrotolandosi su un dito una ciocca magenta, «Avrebbe urlato all'attentato.» lo liquidò, soffiando,

«Ma non hai visto com'era conciato quando si è seduto?» la rimbeccò il biondo, «Biascicava

«Ma dai.» protestò la giovane, «È notte, ha tutto il tempo per smaltire l'effetto in tranquillità. Mi chiedo se riuscirà a raggiungere le scale...» ci fu un botto, proveniente dal corridoio, «Oh.»

 

Se qualcuno doveva un favore alla banda degli otto, non doveva sperare di cavarsela troppo facilmente.

Nel suo caso, il favore era essere stato risparmiato. Dopo essere stato chiuso nella cassa ed essere stato infiltrato nel covo, avrebbe dovuto aspettare e uscire quando ormai era buio.

Non era andata così.

Probabilmente, non era stato sufficientemente silenzioso mentre respirava, perché si erano accorti di lui.

Non avrebbe mai scordato la paura che aveva provato mentre il coperchio sopra di lui veniva aperto. Ricordava perfettamente il rumore assordante del suo cuore che sembrava voler fuggire dal petto. Sentiva ancora viva la mancanza d'aria dovuta ai suoi polmoni che si svuotavano, e la vista annebbiata per il panico.

Fortunatamente, la banda degli otto non aveva ritenuto troppo pericoloso un ragazzino tredicenne, quindi poteva ancora definirsi vivo, in un certo senso. L'unico problema era che a quel punto doveva fare qualsiasi cosa gli venisse ordinato.

Il suo sogno era sempre stato andarsene da Gillon, e non poteva certo dire di non averlo realizzato, per quanto suonasse ironico dirlo: aveva visitato Loman, poi Uahnfind, aveva dormito tra le radici degli alberi secolari nel Bosco Oscuro, si era dissetato ai fiumiciattoli della Grande Terra di Confine, era stato tra i contrabbandieri a Fair River, aveva ammirato l'opulenza del castello ducale a Conferton.

Scompariva da casa per giorni, a volte settimane. Tornare al campo delle baracche e trovare il viso affranto delle sue sorelle e preoccupato di sua madre era un colpo al cuore tutte le volte.

Ma ormai la sua vita era quella già da due anni, e non sarebbe stato facile cambiarla.

Si sedette accanto a Stewart sulla recinzione del campo, in attesa. Li avevano avvisati di tenersi pronti,dovevano partire.

Secondo Bryant, Stewart era stato semplicemente un pazzo, a volerci entrare di sua spontanea volontà. Insomma, lui era stato costretto, ma il suo amico no... Perché mettere la sua stessa vita in pericolo? Non avevano notizie di Darren da due anni ormai, e potevano immaginare che non avesse fatto una bella fine.

Bryant avrebbe dato qualsiasi cosa per poter tornare ai suoi furtarelli da nulla, piuttosto che essere una pedina della banda degli otto. Certo, smettere con le ruberie era impensabile per lui, ladruncolo era e ladruncolo sarebbe rimasto, e in più in quei due anni le cose in casa erano peggiorate: senza furti non avrebbero avuto nulla mangiare.

«Dove pensi ci manderanno questa volta?» il rosso ruppe il silenzio teso che aleggiava nell'aria, guardando l'orizzonte dove finiva la strada, sperando in cuor suo di non scorgere l'uomo che doveva passare per condurli al covo.

Stewart gli lanciò un'occhiata sottecchi, sollevando un angolo della bocca in un sorriso piuttosto storto: «Greenwood.» rispose, intrecciando le mani dietro la nuca, «Spero ci portino a Greenwood, voglio vedere come vivono lì.» gli strizzò l'occhio, «Son tutti ricchi, a Greenwood. E sono stupidamente fiduciosi, lasciano tutto aperto, ci potrebbe scappare pure una visitina in qualche casa.»

Bryant chinò il capo e scosse la testa, massaggiandosi le braccia. Era quasi un divertimento, per il suo amico. Lui invece aveva sempre una paura tremenda, tutte le volte. Sentiva sempre una sensazione spiacevole alla bocca dello stomaco, e un brivido fisso verso il fondo della schiena, come un pungiglione conficcato nella spina dorsale, che gli impedivano di rilassarsi.

«Forza.»

L'uomo della banda degli otto era arrivato, infine. Non perse tempo, come al solito, e fece loro cenno di seguirlo; i due obbedirono immediatamente, in silenzio. Vennero condotti dentro il seminterrato che ormai conoscevano bene, dove gli altri membri della banda li aspettavano. Al sicuro tra quelle quattro mura, vennero accuratamente perquisiti, e un uomo si premurò di nascondere sotto i loro vestiti, legati ai loro corpi, sacchetti di polveri magiche di contrabbando. Era quello, che dovevano fare. Trasportare polvere magica illegale fino a Quinlan. Se durante il passaggio su Grania li avessero scoperti, sarebbero stati uccisi di sicuro. I Graniani non andavano tanto per il sottile, su cose del genere.

 

Bryant sospirò, sopportando il peso della testa di Stewart, profondamente addormentato, sulla sua spalla. Viaggiavano da ore, ormai, anche se aveva perso il senso del tempo e non sapeva esattamente da quanto fossero partiti. La carrozza, trainata da due unicorni neri, sfrecciava velocemente per stradine secondarie e poco frequentate; nonostante la velocità, però, ci sarebbero voluti giorni. Giorni di tensione, per la precisione. Sbuffò, appoggiandosi allo schienale del sedile.

Quando finalmente, giorni dopo, riuscì a chiudere gli occhi, dovette riaprirli quasi immediatamente, svegliato dalla brusca frenata della carrozza. Si sfregò le palpebre con il pugno chiuso, stupito. Lanciò uno sguardo fuori dal vetro oscurato, e si rese conto che non si trovavano in un luogo preposto per una sosta. Se la vista e la memoria non lo ingannavano, la città dove si trovavano doveva essere Branduff. A un passo dalla meta. Allora perché fermarsi?

Guardò Stewart, e notò che la sua mandibola era stranamente serrata, tesa. Il suo cuore cominciò a battere più velocemente: stava accadendo qualcosa.

L'amico gli fece cenno di fare silenzio, e rimase immobile, con gli occhi sgranati. Dall'esterno, si udivano delle voci. Poi un verso strozzato, e un tonfo sordo.

Aveva quindici anni, troppo presto per morire in un modo così stupido, per quanto la sua vita fosse stata simile a quella di un topo di fogna sino ad allora. Troppo presto, troppo presto, decisamente troppo presto. Era l'unica cosa che riusciva a pensare, mentre lo sportello della carrozza si apriva e venivano trascinati fuori.

Inciampò sull'uomo della banda degli otto che conduceva il cocchio, riverso a terra. Sotto di lui, si espandeva una pozza di sangue che gli inzuppò le scarpe. Trattenne il respiro, sconvolto: non aveva mai visto un morto prima... Almeno, non un morto finito in quel modo.

«A terra, a terra!» erano circondati da uomini incappucciati: non si trattava delle guardie di Branduff... Probabilmente erano finiti nelle mani di qualche gruppo rivale di criminali. Il che non era un bene. Lo spinsero fino a farlo sdraiare sul terreno, e sentì che lo stavano pungolando sulla schiena con qualcosa che pareva incandescente. Il dolore era talmente forte che dopo poco smise di sentirlo, e svenne.

Quando si risvegliò si ritrovò legato ad una parete, accanto al suo amico. Si trovava in un luogo buio, freddo e umido, probabilmente un sotterraneo. Si sentiva soffocare, e sentiva in bocca il sapore metallico del sangue. Osservò preoccupato Stewart, attraverso i capelli che gli ricadevano scomposti sugli occhi, e che non poteva scostare per via delle corde che lo tenevano immobile: cominciava a preoccuparsi, visto che l'amico non era ancora rinvenuto. Fortunatamente, poco dopo lo vide aprire gli occhi.

Qualcuno lo afferrò per i capelli, e tagliò le corde che lo tenevano imprigionato alla parete, trascinandolo poi al centro della stanza. Fecero lo stesso con Stewart, e li costrinsero nuovamente a sdraiarsi, stavolta sul pavimento. Bryant sentì l'umidità penetrargli i pori, e il muschio viscido sporcargli la guancia mentre la sua testa veniva premuta contro la pietra fredda.

Sentì delle mani che lo tastavano, e non poteva ribellarsi a causa delle mani legate. Gli venne sollevata la maglietta, e sentì i nastri che tenevano le buste di polvere magica sfregare contro la sua pelle pallida mentre venivano strappati con forza.

Lo afferrarono per le spalle, rimettendolo in piedi con un unico movimento. Diede nuovamente uno sguardo all'amico, che era sempre sembrato molto più tranquillo di lui, durante lo svolgimento dei loro compiti: in quel momento, invece, sembrava paradossalmente il più agitato; gli occhi castani erano spalancati, e Bryant era sicuro che quello che gli lucidava la fronte non fosse il viscidume che avevano toccato poco prima, ma sudore freddo. Sembrava un coniglio spaventato.

Cominciò a temere che avesse perso la testa. Se avesse fatto qualche mossa stupida, ci sarebbero andati di mezzo entrambi. Si lasciò maneggiare come una marionetta, arrendevole, sperando che l'altro lo imitasse.

Ma Stewart non pareva aver capito il messaggio.

Fece la cosa più stupida che avrebbe mai potuto fare, ma Bryant non sapeva come biasimarlo, in fondo era in preda al panico e non riusciva a ragionare: non appena le mani dei loro carcerieri si furono staccate per un secondo dal suo corpo, tentò la fuga.

Fece solo due passi, correndo. Era appena di fronte al rosso quando lo bloccarono. Fu un attimo: uno degli uomini che tenevano fermo Bryant si staccò da lui, ed estrasse un coltello. In un secondo, lo calò sulla gola dell'altro ragazzo.

Il colpo fu tale che il sangue di Stewart schizzò perfino sul viso del giovane, che non riuscì a fare a meno di lasciarsi sfuggire un urlo soffocato. Il biondo cadde immediatamente a terra, contorcendosi per un secondo prima di smettere definitivamente di muoversi.

Trattenne il respiro, inorridito.

Il suo amico era morto.

Il suo amico era morto per colpa di un crimine che aveva deciso lui stesso di compiere e che gli si era ritorto contro.

Il suo amico aveva quindici anni come lui ed era morto in una maniera orribile.

E ora probabilmente sarebbe morto anche lui.

Non riuscì a fare a meno di pensare a sua madre, a Lucy, a Sheila e a Kay. Kay aveva solo sei anni, sarebbe rimasta senza suo fratello maggiore?

Attese che il pugnale che aveva colpito Stewart raggiungesse anche lui, chiudendo gli occhi. E immediatamente, sentì la porta del sotterraneo che veniva buttata giù.

Si ritrovò circondato nuovamente, questa volta dalle guardie di Branduff. Una fortuna insperata, per uno che fino a un secondo prima aveva davanti la morte certa. E una fortuna ancora più grande e insperata era che era stato ormai ripulito da tutto ciò che portava con sé di illegale, e le guardie avevano pensato che fosse semplicemente un ostaggio.

Era pazzesco che le guardie sapessero dove fosse il covo dei criminali, e che li tenessero d'occhio da un po'. Quando li avevano visti portare con loro dei ragazzini, avevano aspettato, e non appena avevano sentito la concitazione della morte di Stewart erano intervenuti.

Se avesse aspettato solo un minuto, il suo amico sarebbe sopravvissuto.

Era un pensiero che continuava a rimbombargli nella mente, mentre stava seduto sul pavimento del quartier generale di Branduff con addosso una coperta, bevendo un the caldo che gli era stato gentilmente offerto nel tentativo di aiutarlo a calmarsi.

Un minuto e anche Stewart sarebbe stato lì accanto a lui. E il sentimento di malessere non accennava a diminuire ma aumentava sempre di più, mentre sentiva una vocina in fondo al suo cuore che diceva “Chi è causa del suo mal pianga sé stesso.”

Decise che la banda degli otto non l'avrebbe più avuto. Decise che si sarebbe finto morto, quando avrebbero trovato il loro uomo e Stewart probabilmente avrebbero pensato che anche lui fosse finito male... Da quel momento, doveva dare il meno nell'occhio possibile.

 

«Bryant? Bryant?»

Aprì gli occhi e la prima cosa che vide fu il viso delicato di Crystal, china sopra di lui. Gemette, sentendo la testa pulsare.

«Stai bene?» la mano liscia della ragazza gli accarezzò una guancia, mentre lui tentava di rendersi conto di dove fosse. Dietro di lei, sentì le voci sommessamente concitate di coloro che aveva appena abbandonato nella cucina; anche se la sua vista era ancora sfocata, riuscì a notare James rifilare una lieve gomitata nelle costole di Hesperia.

«Ehm...» la strega si schiarì la voce, facendo un passo verso di lui, «Scusa, Bryant.» affermò, «Forse avremmo dovuto accompagnarti.»

«Tranquilla.» biascicò il ragazzo, senza aver nemmeno capito cosa fosse accaduto, cercando di discolpare l'elfa, anche se quello che uscì dalla sua bocca era stato più un rantolo che una vera parola,

«Va bene, grazie.» Hesperia annuì brevemente e fece dietrofront, «Addio.» salutò, uscendo immediatamente dalla stanza, tra le proteste di James che la accusava di scuse poco sincere.

«Che è successo?» il rosso guardò Crystal, ancora sopra di lui,

«Sei svenuto sulle scale.» spiegò la bionda, accarezzandogli i capelli, «Deve essere stata la fiala dei nostri piccoli chimici, qui.» si voltò, lanciando un'occhiataccia a Wolf che era ancora sulla soglia;

«Tecnicamente,» intervenne l'elfo, «si è addormentato, non è svenuto.» precisò, «Comunque... Mi dispiace, Bryant, pensavamo che l'effetto fosse sfumato.» ci pensò un attimo, roteando gli occhi, «O meglio, io pensavo fosse sfumato, ho dei forti sospetti su Hesperia.» spiegò, «Non ti preoccupare, fatti una dormita e domani sarai come nuovo.»

Assicuratosi che stesse bene, i suoi amici uscirono dalla stanza. Rimase solo Crystal, seduta accanto a lui: «Non puoi farti stendere da una pozione.» sorrise, «Altrimenti noi come faremo?» gli fece l'occhiolino, mentre stendeva una coperta sopra di lui, protettiva, «Dicono che domani sarà tutto passato, devi solo riposare.» gli soffiò un bacio sulle labbra, «Io resterò sveglia, in caso ti servisse qualcosa.»

Non era giusto che la ragazza dovesse vegliarlo tutta la notte, togliendo tempo al suo riposo. Bryant avrebbe voluto protestare, dirle che non c'era bisogno di preoccuparsi, ma non lo fece; le sue palpebre si fecero pesanti, e calarono inesorabilmente sopra i suoi occhi grigi.

 

Si svegliò che era l'anno prima. Era sera, il sole era già calato. Lui era al piano superiore della sua baracca, e raccontava una favola a Kay. Era cresciuta, la sua sorellina, e diventava ogni giorno più bella, come un fiore che sbocciava; sarebbe di sicuro diventata una giovane donna avvenente, come sua madre e le sue due sorelle maggiori.

Aveva sentito la porta spalancarsi, e aveva capito subito che c'era qualcosa che non andava. Sua madre, Sheila e Lucy avevano strillato, e c'era stato rumore di piatti e bicchieri che andavano in frantumi. Aveva fermato Kay, che stava per correre al piano di sotto, spaventata, e fece per scendere. Non appena ebbe aperto la porta, si ritrovò davanti delle guardie. Aveva già visto il simbolo che portavano sulla loro divisa: Conferton.

Lo afferrarono, ma riuscì a ribellarsi. Sua sorella no. Venne portata al piano di sotto, e la sentì gridare.

Dentro di lui montò una rabbia che non aveva mai provato. Lottò contro la guardia, ma l'uomo era molto più preparato di lui, e soprattutto era armato. Lo colpì più volte, finché non perse i sensi. Non poté rendersene conto, ma mentre era steso sul pavimento, il viso trasformato in una maschera scarlatta, la guardia lo colpì violentemente alla tempia con un calcio. L'uomo non si premurò di controllare se fosse vivo o morto, tanto era sicuro della forza dei suoi colpi e della debolezza dell'altro.

Ci mise molto più tempo di tutte le altre volte che era svenuto per delle botte, a svegliarsi. Si trascinò sui gomiti, intontito e dolorante. Sputò del sangue, e rimase carponi fino a che non riuscì a rimettersi in piedi, con le gambe tremanti.

Scese nella cucina, e rimase agghiacciato dalla scena che gli si prospettò davanti: riverse sul tavolo c'erano le sue sorelle, in un ultimo, disperato tentativo di proteggersi a vicenda. Sua madre era scivolata dal piano, e stava a terra, immobile. Kay giaceva sopra di lei, in un abbraccio, seguita dalla scia di sangue che riportava al punto in cui l'avevano colpita.

Non riuscì nemmeno a piangere.

Si accasciò accanto a sua madre e la sua sorellina, passandole una mano tra i capelli incrostati di liquido rosso. Respirò, appoggiando la testa al muro.

Non capiva il motivo di tutta quella violenza. Tre donne e una bambina, perché mai le guardie di Conferton erano piombate a casa sua facendo una tale strage?

Vide una forte luce tremolante filtrare attraverso la finestra aperta, e del fumo denso e nero che entrava dalla fessura aperta. Avrebbe voluto avere un cervello meno sveglio, perché così non si sarebbe reso conto che non era solo la sua famiglia ad essere stata sterminata, ma tutto il campo baracche ad essere stato messo a ferro e fuoco.

Gemette, lamentoso, colpendo ripetutamente la parete dietro di lui con la testa, fino a macchiarla del suo stesso sangue. Non poteva rimanere lì, o sarebbe morto anche lui quando le fiamme avrebbero raggiunto anche casa sua.

Baciò un'ultima volta sua madre e le sue sorelle, e si trascinò fuori. Non riuscì ad andare oltre il piccolo boschetto dietro il campo, ma almeno lì era al sicuro.

Si rannicchiò contro una radice, come aveva fatto tante volte anni prima, quando viaggiava in lungo e in largo per delinquere. Posò il capo sulle foglie, mentre una lacrima scendeva dai suoi occhi chiari fino a bagnare il terreno sotto di lui.

Era solo uno stupido.

Aveva fatto preoccupare la sua famiglia per gran parte della sua vita, aveva rischiato la vita più volte e se l'era sempre cavata, contrariamente ad altri che meritavano la vita molto più di lui.

Sentì un dolore lancinante alla costola e si strinse su sé stesso, piangendo.

Non aveva nemmeno la forza di portare via dalla baracca le persone che l'avevano tanto amato, le aveva abbandonate.

E in tutto questo, non capiva perché proprio le guardie di Conferton le avessero massacrate, un paese così lontano da loro. Forse era una punizione della Dea, per tutte le malefatte che aveva commesso.

Ormai, comunque, era troppo tardi. Non poteva più proteggerle in alcun modo, non poteva vendicarle, lui non era nessuno per farlo, era da solo, non ne aveva la forza.

Aveva fallito, per l'ennesima volta. E non poteva farci nulla.

 

Aprì gli occhi nel buio della stanza, improvvisamente. Le iridi metalliche brillarono colpite dalla luce lunare che penetrava dalla finestra. Crystal era ancora accanto a lui, ma si era assopita. La guardò, e prese una decisione, la stessa che aveva preso l'anno prima.

Conferton non avrebbe continuato a fare del male.

Lui era il leader dei ribelli.

E non si sarebbe fermato.

  
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