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Autore: Felnor    30/01/2012    1 recensioni
È una storia che prende forma dal background del mio PG in una campagna di Vampiri, un investigatore Lasombra che qui racconta il suo passato.
Genere: Mistero, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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poliziotto hippy

Mi chiamo Jonathan Bauer, sono nato nel 1950 e sono un vampiro. Sì, mi hanno abbracciato nel 1975, per quello il mio aspetto è quello di un sano venticinquenne, beh, almeno fisico. So che nessun ragazzo oggigiorno si metterebbe un trench e un cappello Fedora, e forse mi rende un minimo facile da riconoscere. Mi avete trovato, mi avete convinto, ed ora vi narrerò la mia storia.

Sono nato nei dintorni di Chicago, città nella quale ho sempre vissuto, un'infanzia poco degna di nota, costellata di botte da un padre alcolizzato e corse per le strade con gli amici. Le cose interessanti iniziarono ad accadere prima dei miei diciott'anni, quando nell'aria c'era odore di rivoluzione e il movimento hippy mi iniziava ad intrigare. Fu nel febbraio del 1967 che la conobbi. Catherine, la più bella cosa su cui ho mai posato i miei occhi, la mia donna ideale. Fummo amici quasi subito, poco più giovane di me, mi insegnò quel che c'era da sapere su come espandere la mente e sull'amore e la pace universali. Nonostante in quegli anni l'amore libero fosse ampiamente praticato, io non la sfiorai mai nemmeno con un dito, colpa dei miei stupidi principi, che facevano sì che io la rispettassi sopra ogni cosa. La vera svolta fu nel 1968, quando fuggii di casa, scappai da mio padre e lei fece lo stesso. Ci rifugiammo nei sobborghi, dove puttane e spacciatori ci facevano da vicini. Vivemmo insieme, come marito e moglie per un anno, senza mai far nulla di fisico, solamente abbracciarci e gustare il morbido calore che sentivamo entrambi.

Nell'agosto del 1969 accadde il fatto più grande, l'evento maggiore della nostra vita insieme: Woodstock. Ho avuto l'immensa fortuna di assistere a quel meraviglioso festival di musica, amore e armonia, insieme a colei che più amavo sulla faccia della terra. Mentre io mi godevo la musica e l'atmosfera però, lei trovò altro da fare, intrattenendo svariati rapporti con gente appena conosciuta, mentre una rabbia cieca mi montava in corpo, un sentimento sbagliato, che nascosi non appena tornò da me. Feci finta di nulla, ma la gelosia si era impadronita di me, dei miei sentimenti, del mio essere...
Dopo Woodstock vivemmo insieme per altri tre mesi, poi mi lasciò per andare da uno spiantato musicista senza prospettive. Frustrato, amareggiato e totalmente distrutto da mesi di alcool e droghe, mi ritrovai ben presto per strada, a vivere in un cartone. Fu lì che feci il secondo incontro più importante della mia esistenza: Uriel Jawsnor. Costui, distinto signore della borghesia, visitava spesso di notte i quartieri più miserevoli, stranamente senza venire mai attaccato. La notte di capodanno del 1969, mi tirò su dal lercio cartone in cui dormivo e mi disse con voce chiara e senza esitazioni:

« Ragazzo, tu puoi fare molto di più che stare in questo schifo, tu puoi diventare qualcuno, senza di lei. Tu entrerai in Polizia.»

Stranamente obbedii a quel che mi disse, sentivo qualcosa di grandioso in lui, e la voglia di seguire ciò che mi aveva detto era fin troppo forte per resistere. Intorno a metà gennaio, mi ritrovai allievo all'accademia, mentre solo sei mesi più tardi mi meritai il distintivo per aver terminato ogni corso, ogni prova e ogni addestramento con il massimo dei voti. Naturalmente fui assunto quasi all'istante in una centrale a poche miglia da dove avevo dimorato in un cartone.
In quei lunghi mesi, avevo un unico pensiero in testa, un'unica immagine: lei. Cath. Rivedevo la splendida cascata di liquerizia che erano i suoi capelli, i meravigliosi occhi castani protetti dietro occhiali da vista leggeri leggeri, il suo corpo minuto ma perfetto... Sentivo la sua risata, che mi faceva sorridere anche quand'ero nella depressione più nera, e sentivo la sua voce musicale che mi parlava di pace, e di come il Vietnam fosse l'errore più grande dell'America. Sentivo tutto questo nella mia mente, nel mio cuore, finché un giorno non sentii una voce simile alla sua urlare in una casa del mio distretto, durante il mio giro di pattuglia. Fui quasi fulmineo, senza nemmeno domandare permesso, sfondai la porta con un calcio, con la pistola in pugno, e corsi dove sentivo la voce ancora urlare.
Fu per me uno shock devastante: i suoi lineamenti perfetti martoriati da chissà quanta violenza, un occhio chiuso e gonfio, denti sparsi per la stanza, lei rannicchiata a terra tremante e sofferente, mentre un uomo enorme le sbraitava contro qualcosa che ancora oggi non comprendo. Non mi resi nemmeno conto di alzare l'arma, puntarla a quell'immenso coglione che la stava picchiando, armare la pistola e premere il grilletto. Vidi la pallottola al rallentatore, uscire dalla canna dell'arma, fare un breve tragitto in aria e piantarsi nel molliccio dell'occhio dell'energumeno. Cadde a terra con un tonfo sordo, facendo rimanere solo l'eco dello sparo e il pianto sommesso di Cath nella stanza.
Dopo un minuto mi ripresi, e mi avvicinai a lei con delicatezza, nella paura di farle del male.

« Mio Dio... Come ha fatto a ridurti così?»

In risposta ebbi solo dei singhiozzi sommessi e le sue mani che si aggrappavano a me, alla mia divisa, all'unica persona che la amava più di sé stesso. Misi la pistola nella sua fondina al mio fianco e la presi su, come nei vecchi film cavallereschi, dove l'eroe prende in braccio la dama rapita dal cattivo, e la porta in salvo. Così feci io, mentre sentivo in lontananza le sirene farsi vicine alla casa dove tutto era avvenuto.

Arrivai a casa senza posarla, e senza dire una parola, solamente stringendola a me, per quanto le sue ferite mi consentissero. La posai sul mio letto, con calma e attenzione, per poi andare in bagno a prendere qualcosa per medicarla. Bastarono pochi minuti per darle un primo soccorso e pulire il suo sangue dallo splendido viso di cui mi ero innamorato. Stavo per dirle qualcosa, quando lei si addormentò come un sasso, forse conscia di essere al sicuro. Con calma presi tutto quello che non doveva stare sul letto, la coprii con una coperta e mi accesi una sigaretta, rimanendo appoggiato allo stipite della porta, sporco del suo sangue, probabilmente vicino a un provvedimento disciplinare e felice di averla ritrovata. Rimasi così per tutte le dodici ininterrotte ore di sonno di Cath, guardandola dormire e rilassarsi sempre di più man mano che il tempo passava.

Il peggio però, lo sapevo, doveva ancora arrivare.

  
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