Mi chiamo Jonathan Bauer, sono nato nel 1950 e sono un vampiro. Sì, mi hanno abbracciato nel 1975, per quello il mio aspetto è quello di un sano venticinquenne, beh, almeno fisico. So che nessun ragazzo oggigiorno si metterebbe un trench e un cappello Fedora, e forse mi rende un minimo facile da riconoscere. Mi avete trovato, mi avete convinto, ed ora vi narrerò la mia storia.
Sono nato nei dintorni di Chicago, città nella quale ho sempre vissuto, un'infanzia poco degna di nota, costellata di botte da un padre alcolizzato e corse per le strade con gli amici. Le cose interessanti iniziarono ad accadere prima dei miei diciott'anni, quando nell'aria c'era odore di rivoluzione e il movimento hippy mi iniziava ad intrigare. Fu nel febbraio del 1967 che la conobbi. Catherine, la più bella cosa su cui ho mai posato i miei occhi, la mia donna ideale. Fummo amici quasi subito, poco più giovane di me, mi insegnò quel che c'era da sapere su come espandere la mente e sull'amore e la pace universali. Nonostante in quegli anni l'amore libero fosse ampiamente praticato, io non la sfiorai mai nemmeno con un dito, colpa dei miei stupidi principi, che facevano sì che io la rispettassi sopra ogni cosa. La vera svolta fu nel 1968, quando fuggii di casa, scappai da mio padre e lei fece lo stesso. Ci rifugiammo nei sobborghi, dove puttane e spacciatori ci facevano da vicini. Vivemmo insieme, come marito e moglie per un anno, senza mai far nulla di fisico, solamente abbracciarci e gustare il morbido calore che sentivamo entrambi.
Nell'agosto
del 1969 accadde il fatto più grande, l'evento maggiore
della nostra
vita insieme: Woodstock. Ho avuto l'immensa fortuna di assistere a
quel meraviglioso festival di musica, amore e armonia, insieme a
colei che più amavo sulla faccia della terra. Mentre io mi
godevo la
musica e l'atmosfera però, lei trovò altro da
fare, intrattenendo
svariati rapporti con gente appena conosciuta, mentre una rabbia
cieca mi montava in corpo, un sentimento sbagliato, che nascosi non
appena tornò da me. Feci finta di nulla, ma la gelosia si
era
impadronita di me, dei miei sentimenti, del mio essere...
Dopo
Woodstock vivemmo insieme per altri tre mesi, poi mi lasciò
per
andare da uno spiantato musicista senza prospettive. Frustrato,
amareggiato e totalmente distrutto da mesi di alcool e droghe, mi
ritrovai ben presto per strada, a vivere in un cartone. Fu
lì che
feci il secondo incontro più importante della mia esistenza:
Uriel
Jawsnor. Costui, distinto signore della borghesia, visitava spesso di
notte i quartieri più miserevoli, stranamente senza venire
mai
attaccato. La notte di capodanno del 1969, mi tirò su dal
lercio
cartone in cui dormivo e mi disse con voce chiara e senza esitazioni:
« Ragazzo, tu puoi fare molto di più che stare in questo schifo, tu puoi diventare qualcuno, senza di lei. Tu entrerai in Polizia.»
Stranamente
obbedii a quel che mi disse, sentivo qualcosa di grandioso in lui, e
la voglia di seguire ciò che mi aveva detto era fin troppo
forte per
resistere. Intorno a metà gennaio, mi ritrovai allievo
all'accademia, mentre solo sei mesi più tardi mi meritai il
distintivo per aver terminato ogni corso, ogni prova e ogni
addestramento con il massimo dei voti. Naturalmente fui assunto quasi
all'istante in una centrale a poche miglia da dove avevo dimorato in
un cartone.
In quei
lunghi mesi, avevo un unico pensiero in testa, un'unica immagine:
lei. Cath. Rivedevo la splendida cascata di liquerizia che erano i
suoi capelli, i meravigliosi occhi castani protetti dietro occhiali
da vista leggeri leggeri, il suo corpo minuto ma perfetto... Sentivo
la sua risata, che mi faceva sorridere anche quand'ero nella
depressione più nera, e sentivo la sua voce musicale che mi
parlava
di pace, e di come il Vietnam fosse l'errore più grande
dell'America. Sentivo tutto questo nella mia mente, nel mio cuore,
finché un giorno non sentii una voce simile alla sua urlare
in una
casa del mio distretto, durante il mio giro di pattuglia. Fui quasi
fulmineo, senza nemmeno domandare permesso, sfondai la porta con un
calcio, con la pistola in pugno, e corsi dove sentivo la voce ancora
urlare.
Fu per
me uno shock devastante: i suoi lineamenti perfetti martoriati da
chissà quanta violenza, un occhio chiuso e gonfio, denti
sparsi per
la stanza, lei rannicchiata a terra tremante e sofferente, mentre un
uomo enorme le sbraitava contro qualcosa che ancora oggi non
comprendo. Non mi resi nemmeno conto di alzare l'arma, puntarla a
quell'immenso coglione che la stava picchiando, armare la pistola e
premere il grilletto. Vidi la pallottola al rallentatore, uscire
dalla canna dell'arma, fare un breve tragitto in aria e piantarsi nel
molliccio dell'occhio dell'energumeno. Cadde a terra con un tonfo
sordo, facendo rimanere solo l'eco dello sparo e il pianto sommesso
di Cath nella stanza.
Dopo un
minuto mi ripresi, e mi avvicinai a lei con delicatezza, nella paura
di farle del male.
« Mio Dio... Come ha fatto a ridurti così?»
In risposta ebbi solo dei singhiozzi sommessi e le sue mani che si aggrappavano a me, alla mia divisa, all'unica persona che la amava più di sé stesso. Misi la pistola nella sua fondina al mio fianco e la presi su, come nei vecchi film cavallereschi, dove l'eroe prende in braccio la dama rapita dal cattivo, e la porta in salvo. Così feci io, mentre sentivo in lontananza le sirene farsi vicine alla casa dove tutto era avvenuto.
Arrivai a casa senza posarla, e senza dire una parola, solamente stringendola a me, per quanto le sue ferite mi consentissero. La posai sul mio letto, con calma e attenzione, per poi andare in bagno a prendere qualcosa per medicarla. Bastarono pochi minuti per darle un primo soccorso e pulire il suo sangue dallo splendido viso di cui mi ero innamorato. Stavo per dirle qualcosa, quando lei si addormentò come un sasso, forse conscia di essere al sicuro. Con calma presi tutto quello che non doveva stare sul letto, la coprii con una coperta e mi accesi una sigaretta, rimanendo appoggiato allo stipite della porta, sporco del suo sangue, probabilmente vicino a un provvedimento disciplinare e felice di averla ritrovata. Rimasi così per tutte le dodici ininterrotte ore di sonno di Cath, guardandola dormire e rilassarsi sempre di più man mano che il tempo passava.
Il peggio però, lo sapevo, doveva ancora arrivare.