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Autore: My Pride    31/01/2012    4 recensioni
Ho veduto più di quanto io stesso abbia mai voluto vedere.
Desideri, sogni, promesse ed incubi: per quanto apparisse orribile, tutto ciò era meraviglioso.

Sorrise e si accucciò contro il bancone di legno del bar, apparendo ai miei occhi come un grosso felino compiaciuto. E quegli occhi che possedeva accentuarono quel paragone. «Piuttosto, ti piacerebbe riuscire a dar vita a ciò che immagini, scrittore?» mi domandò, lasciando cadere le formalità iniziali.
Non fu quello ad accigliarmi, bensì le sue parole. Sbattei dunque le palpebre, incredulo. «Ti sembra forse che io abbia scritto fesso in faccia, amico?»
[ Prima classificata al contest «Origami di carta» indetto da Fe85 ]
[ Vincitrice del Premio grammatica al contest «Voglie estive di gustose letture» indetto da aturiel ]
Genere: Drammatico, Sovrannaturale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Tschuess_4
ATTO IV: ST. LOUIS › LUGLIO 2008
MESSAGGERI DELL’OLTRETOMBA
 
    Aveva cominciato a piovere a dirotto, quel tardo pomeriggio.
    Contro ogni previsione, contro ogni logica, aveva cominciato a piovere. Grandi gocce d’acqua si infrangevano sul parabrezza della mia autovettura, diminuendo drasticamente la visibilità. Appena ripreso il controllo di me stesso, mi ero immediatamente fiondato fuori e messo al volante, guidando ininterrottamente fino a che un improvviso temporale estivo non aveva arrestato la mia folle corsa, cogliendomi alla sprovvista.
    Nervoso com’ero, in realtà, non avrei dovuto nemmeno pensare di entrare in macchina e sfrecciare sulle strade. Le mani mi tremavano e, nonostante fossi più calmo rispetto ad una ventina di minuti prima, avevo ancora il cuore che batteva all’impazzata per la notizia ricevuta. Stentavo tuttora a credere che fosse tutto vero, ma ciò che Butch mi aveva detto al telefono non lasciava spazio a fraintendimenti. Ero stato io a descrivere quella scena. Ero stato io colui che, dando ascolto alle parole di quello sconosciuto incontrato per caso, aveva deciso di considerare il suo discorso veritiero. E quello, forse, era stato il mio più madornale errore.
    Dovetti fermarmi più volte per evitare incidenti imprevisti, non riuscendo ancora a controllare bene i miei riflessi a causa della strana ansia che aveva cominciato ad attanagliarmi lo stomaco. Mi sentivo come se stesse per succedere qualcos’altro di terribile, ma cosa c’era di più spaventoso che vedere due cari amici lottare strenuamente per la propria vita? In quel momento non riuscivo per niente a pensare a qualcosa di peggio.
    Fu con il cuore in gola e il fremente pulsare del sangue nelle orecchie che raggiunsi il Kenneth Hall Regional Hospital, quarantacinque minuti dopo. Non dovetti nemmeno domandare a qualche inserviente dove avessero portato Mike e Tom, trovando Butch nella sala d’attesa. Se ne stava con lo sguardo rivolto al lucido pavimento di finto marmo e le mani congiunte all’altezza dello stomaco, estraneo a tutto ciò che lo circondava. In tutti quegli anni che lo conoscevo, non l’avevo mai visto così sconvolto. Ma in fin dei conti che cosa mi aspettavo, dannazione? Due suoi colleghi, due cari amici con cui aveva condiviso gli ultimi quattro anni, si ritrovavano in bilico tra la vita e la morte, e lui non avrebbe potuto fare praticamente nulla per aiutarli. Poteva solo starsene lì, inerme e fragile come un bambino, a pregare che andasse tutto per il meglio.
    «Butch», lo chiamai piano non appena fui ad una distanza accettabile da lui, cercando di non alzare troppo la voce per non urtarlo. Come in una scena a rallentatore nel peggior film di serie B, lo vidi alzare impercettibilmente il capo per fissarmi con occhi vacui e spenti, tornando ben presto ad incassare la testa nelle spalle dopo essersi lasciato sfuggire un suono simile ad un sospiro strozzato.
    «Ciao, Jake», sussurrò stancamente, non battendo minimamente ciglio nemmeno quando mi avvicinai per poggiargli una mano su una spalla. Sembrava che la mia presenza non gli fosse per niente d’aiuto, anzi; avevo come la netta sensazione che fossi soltanto di peso, in quel momento.
    Avrei voluto dirgli «Mi dispiace», ma a che cosa sarebbe servito? Conoscendolo, si sarebbe soltanto arrabbiato, poiché avrei solo messo nero su bianco il fatto che non potesse far nulla per salvare in qualche modo i propri amici. Sapevo che avrebbe voluto combattere, lottare con tutte le proprie forze nel tentativo di cambiare le sorti di Mike e Tom, ma, in quanto essere umano, anche lui conosceva i propri limiti. Doveva solo aspettare pazientemente, per quanto quella situazione lo snervasse e pesasse nel profondo del suo animo.
    «I medici non mi hanno ancora fatto sapere niente», disse di punto in bianco, interrompendo il flusso dei miei più disparati pensieri. Non aveva alzato lo sguardo, ma potei capire dall’inclinazione della sua voce che aveva gli occhi serrati, quasi fosse sull’orlo delle lacrime. «Sono passate quasi due ore e non mi hanno ancora fatto sapere niente, dannazione».
    Mi sedetti al suo fianco con un sospiro, passandogli un braccio dietro la schiena per attirarlo un po’ verso di me. Stavolta dovevo essere io a dimostrarmi forte per entrambi, non il contrario. «Sono sicuro che andrà tutto per il meglio, Butch», lo rassicurai a bassa voce, come se temessi che dire quelle parole potesse far scoppiare le nostre speranze come una bolla di sapone. «Quei due hanno la pellaccia dura, lo sai fin troppo bene, no?» Mi sforzai di abbozzare un sorriso sincero e raggiante, vedendo lui ricambiare goffamente prima di riportare lo sguardo verso il basso per tornare a fissare il pavimento con finta attenzione.
    Dovevamo pensare positivo, ecco cosa dovevamo fare. Ma... dannazione, farlo era così difficile. La consapevolezza di quanto accaduto non riusciva a stabilizzare i nostri animi, e al solo pensiero che potesse essere stata realmente colpa mia, beh, mi sentivo doppiamente male. Avrei voluto parlarne con Butch, spiegargli la mia frustrazione e la mia angoscia, però aveva già quel dolore insostenibile da sopportare senza che mi ci mettessi anch’io con quelle che, con molta probabilità, erano soltanto stupide paranoie e coincidenze. O almeno era ciò che tentavo inutilmente di credere con tutto me stesso.
    Persi il conto dei minuti che passai nello starmene appollaiato su quella sedia, le palpebre pesanti per le poche ore di sonno che mi ero concesso. Avevo consigliato a Butch di riposarsi almeno per un po’, assicurandogli che lo avrei svegliato non appena ci fosse stata comunicata qualche novità riguardo le condizioni dei nostri due amici. Era trascorso parecchio tempo, e di medici non se n’era vista nemmeno l’ombra.
    Mi lasciai sfuggire un lungo sbadiglio, strofinandomi gli occhi come avrebbe fatto un bambino; mi issai poi in piedi e, passando il peso del mio intero corpo da una gamba all’altra nel vano tentativo di sgranchirle e di far affluire al più presto il sangue nelle vene, lanciai una rapida occhiata verso Butch, il cui respiro era simile ad uno spiffero di vento. Dalle occhiaie che aveva in viso, tra l’altro, doveva aver dormito male e poco, in quel lasso di tempo. Lo coprii con uno dei plaid che gli infermieri erano stati così gentili da procurarci, decidendo di lasciarlo riposare ancora per un po’. Per quanto mi riguardava, invece, nonostante il sonno, avevo assolutamente bisogno di una boccata d’aria fresca, e fu proprio con quel pensiero nella testa che mi diressi fuori dall’ospedale, attraversando il lungo cortile lastricato per giungere nei pressi del grande giardino poco distante.
    Nel giungere al di sotto di uno dei lampioni, però, sentii un brivido correre lungo la mia spina dorsale. La temperatura esterna si aggirava intorno ai trentotto gradi, dunque era quanto meno impossibile lo strano freddo che aveva cominciato ad impossessarsi del mio corpo; scossi il capo e cercai di restare calmo, giacché non c’era assolutamente nulla di cui preoccuparsi. Ma fu proprio in quel mentre che risuonò nelle mie orecchie lo scalpiccio di quelle che sembrarono grosse zampe che affondavano nel terreno bagnato.
    «Avresti fatto meglio a continuare a fare ciò che ti era stato consigliato, signor scrittore».
    Nel sentire quella voce alle mie spalle, raggelai e il mio cuore parve perdere un battito. Deglutii, o almeno mi sembrò di farlo, non ne fui poi così sicuro; seppi solo che fu con lentezza estenuante che volsi la mia attenzione nella direzione in cui avevo udito la voce di Connor Barnes, l’uomo che avevo conosciuto al Sub Zero e con cui avevo poi intrattenuto una bizzarra conversazione quella stessa mattina. Che diavolo stava a significare la sua presenza lì?
    Prima ancora che potessi anche solo aprire bocca per dire qualcosa, al suo fianco apparve un grosso animale che mi squadrò dall’alto in basso con fare rabbioso - quasi fosse stata una persona consenziente -, ringhiandomi contro e mostrandomi la dentatura aguzza. Non c’erano dubbi: quello era il cane che avevo visto fuori alla Rock Hill Public Library, non poteva essere confuso con nessun altro. Quei suoi grandi occhi fiammeggianti, occhi che in un primo momento avevo creduto fossero di quel colore solo a causa dell’effetto della luce del sole, mi fissavano con ira spropositata e aria famelica, impedendomi quasi di respirare regolarmente come avrei voluto. Buon Dio... cosa stava succedendo?
    Deglutii ancora senza poterne fare a meno, stornando bruscamente lo sguardo per puntarlo nuovamente sul viso di Barnes. Appariva composto e tranquillo come la prima volta che l’avevo visto, come se per lui non ci fosse assolutamente nulla che stonasse in tutta quella situazione che, per me, appariva quanto meno assurda. Forse pensarlo era alquanto stupido, ma avevo come la netta sensazione che quel tipo non fosse lì per una visita amichevole a qualche conoscente infortunato. Se fosse stata l’aria che aveva dipinta in viso, oppure semplicemente a causa del brivido freddo che avevo avvertito nel rendermi conto della sua vicinanza, beh, non potevo saperlo. La sola cosa che sapevo con certezza era che avrei fatto meglio ad andarmene da lì alla svelta.
    Senza perdere d’occhio né lui né tanto meno il suo cane, indietreggiai quel tanto che bastava per mettere una distanza considerevole tra noi, cercando al contempo di trovare una rapida via di fuga  che mi avrebbe permesso di tornare all’ospedale. Lì davanti, però, c’era proprio lui a sbarrarmi la strada. Non avrei potuto sperare di riuscire a svicolare senza che lui mi riacciuffasse in un lampo, se avessi provato a gettarmi contro di lui per raggiungere in fretta l’edificio e chiedere rinforzi. Mi pentivo amaramente di essere uscito, adesso.
    Non persi altro tempo a riflettere, dandogli immediatamente le spalle; corsi con tutta la forza che avevo nelle gambe, ignorando le proteste dei miei polpacci per quello sforzo avvenuto senza la benché minima preparazione. Ma non avevo tempo per pensare a sciocchezze del genere, e il ritmico e prepotente pulsare del sangue nelle orecchie mi dava ulteriore conferma che avrei dovuto svignarmela da lì il più in fretta possibile. Non mi accertai nemmeno se mi stesse seguendo sul serio e se ciò che avevo pensato fino a quel momento fosse soltanto una stupida paranoia, inoltrandomi nell’immenso giardino che costeggiava l’edificio; scansai i rami di qualche piccolo cespuglio prima di gettarmi a capofitto verso i cancelli di ferro, oltrepassandoli alla svelta per dirigermi così oltre il piazzale.
    Con il fiato ormai corto, mi fermai per qualche istante e mi accasciai su me stesso, respirando profondamente dalla bocca per poter riportare l’aria nei polmoni in fiamme e riprendere quella mia folle corsa. Ma non potevo scappare in eterno, dovevo fare qualcosa. Qualunque cosa. L’unico pensiero coerente che stava cominciando a farsi largo nella mia testa, però, era solo quello di chiamare aiuto.
    «Farlo non ti servirà a niente, signor scrittore», replicò tranquillamente Barnes, quasi avesse udito ciò a cui avevo dato voce soltanto nel mio cervello. Mi aveva raggiunto in un lampo e, al contrario di me, non appariva minimamente affaticato; sembrava quasi che non avesse risentito per niente di quello sforzo, come se fino a quel momento non avesse fatto altro che passeggiare tranquillamente in quel giardino. Ad un suo rapido e deciso cenno della mano, il grosso cane che si portava dietro spiccò un balzo e mi atterrò, poggiando le sue enormi zampe sul mio petto e mozzandomi quel poco fiato che ero riuscito a recuperare con così tanta fatica.
    Cercare di togliermelo di dosso fu letteralmente inutile, giacché premette maggiormente contro lo sterno, arricciando il muso per mostrarmi le zanne esangui; ringhiò, facendo sì che dalla sua bocca colasse un rivolo di bava che ricadde sul mio viso, scivolando lentamente lungo il collo fino a perdersi all’interno della maglietta che indossavo. «Che cosa diavolo vuole da me!» esclamai in tono isterico e atterrito, sentendo contro la mia faccia il respiro rovente di quell’animale.
    Barnes sorrise, o almeno così mi parve dalla posizione in cui mi trovavo. «Più di quanto tu creda, Jacob Randall», sussurrò in risposta con tono soave e quasi allegro, indietreggiando senza che io ne capissi la ragione.
    La lingua di quel cane, quasi gli fosse stato appena ordinato, sguizzò fino a leccarmi il collo, e non potei trattenere un brivido di disgusto quando scese fino alla clavicola sinistra, strappandomi con le zanne anteriori la maglia; sgranai gli occhi, allibito, alzando le braccia per affondare le mani nella sua voluminosa pelliccia e tentare ancora una volta di scansarlo via da me, divincolandomi per quanto concessomi dal suo enorme peso.
    Prima ancora che potessi anche solo provare a muovere le gambe, però, il respiro mi si spezzò nel momento stesso in cui le fauci strapparono i lembi di pelle all’altezza del deltoide sinistro. Gridai con tutto il fiato che avevo in gola, allentando la presa e lasciando che le braccia inerti ricadessero sul terreno bagnato dagli innaffiatoi.
    «Complimenti, signor scrittore». La voce gorgogliante di Connor Barnes risuonò alle mie orecchie come una sinistra melodia, le cui note stridenti sembravano rimbalzare senza remore contro le pareti del mio cervello e dilaniare ferocemente quella poca lucidità che mi era ancora rimasta, quasi si fosse trattato di una grossa bestia famelica. «Ha completato il suo ultimo capolavoro... può ritenersi soddisfatto, non le pare?»
    Non risposi. Non potei farlo. Tutto il mio mondo venne risucchiato dal dolore e avvolto dalle mie urla atterrite, mentre le zanne di quel cane affondavano senza remore nel mio corpo e straziavano la mia pelle, spezzando le vertebre con morsi feroci. Potei sentire nelle orecchie il sinistro scricchiolio delle ossa contro il tessuto, lo spasmo violento che mi contrasse i muscoli e il suono viscido delle membra che venivano dilaniate, quasi stessi assistendo a tale scempio anziché subirlo di persona; fu orribile rendersi conto che il calore che avevo cominciato ad avvertire lungo il braccio destro altro non era che il mio stesso sangue, e ancor più terrificante fu riuscire a vedere il momento stesso in cui quel cane, levando lo sguardo fiammeggiante al cielo buio per ululare alla luna nascosta dalle nubi, squarciò ferocemente i miei fianchi con i suoi grossi artigli affilati, strappandomi un urlo più altisonante dei precedenti quando affondò il muso nel mio stomaco, divorando le mie carni e strappando con i denti il mio intestino.
    Spalancai la bocca e reclinai il capo all’indietro, non riuscendo più ad emettere suono. Ebbi solo il tempo di fissare un’ultima volta quell’edificio lontano, quell’edificio che mai come in quel mentre appariva irraggiungibile, prima che le palpebre pesanti sulle quali il sangue si era ormai raggrumato si abbassassero del tutto, oscurando il mio mondo nonostante la sofferenza che ancora provavo.
    Con quel capitolo avevo scritto la parola fine alla storia della mia vita. Il racconto si era concluso.
 



   





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