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Autore: oh_alien    31/01/2012    2 recensioni
Angeli sporchi, pensò. Come me. Angeli caduti in preda all’isteria, desiderosi di vivere, ma ai quali la vita non ha concesso abbastanza spazio per farlo. Si crogiolano nel loro stesso vomito, proprio come me, e burattini delle loro stesse mani si ritrovano fuori strada, ad aspettare un autostop che non arriverà mai, un treno già perso, e una lacrima: non caduta e già sprecata, ma nemmeno generata.
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Chester Bennington
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Si trovava nella sua stanza disteso a terra come un animale ferito, la maglietta e i pantaloni affondati in un pozzo di vomito. Si sentiva morire, e stavolta se l’aspettava. Aspettava la morte inerme, piangendo per il fatto di dover lasciare questa terra così presto, a soli diciannove anni.
Pensava a sua madre in quel momento, a come sarebbe potuta essere al suo funerale, a quello che avrebbe detto, a come avrebbe pianto, se avrebbe pianto, se avrebbe portato con sé il fratello che non vedeva più da anni, se lui si sarebbe commosso, se avrebbe gridato, se si sarebbe gettato a terra agonizzante.
Il pensiero del padre lo represse piano nella mente, senza farsi male, senza quasi accorgersene. Lo sapeva cosa avrebbe fatto se lui fosse morto, e il solo pensarci avrebbe potuto fargli cambiare idea, quando in realtà l’unica cosa che desiderava era morire sul serio.
Nessuno l’apprezzava, nemmeno la sua ragazza, quella troia che due giorni prima aveva scovato mentre si faceva Beck, e lui che godeva come un maiale.
«Al diavolo te e la tua nuova puttana, Beck! E al diavolo quelle false promesse d’amicizia! Sei un lurido bastardo!»
Se n’era andato lasciandoli ridere, col cuore a pezzi, e con un unico scopo in mente.
Nessuno l’apprezzava, nemmeno il fratello che due anni prima se n’era andato di casa, e che alle sue preghiere di restare lì e vivere con loro gli aveva risposto: «Chester, lasciami in pace, moccioso. Sei solo un drogato di merda, mi repelli». E gli aveva chiuso la porta in faccia, come si fa ad un cane indesiderato. La madre non aveva fiatato quella sera, anche se sapeva che suo figlio spesso si drogava. Quando riordinava la sua camera, trovava nascosti sotto il letto due o tre sacchetti di metamfetamine, ma li lasciava lì, non si azzardava a toccarli, per paura della reazione che Chester avrebbe avuto. Per paura di perdere un altro figlio. Il padre, invece, non lo sapeva. Quella sera per Chester sarebbe stata di sangue. Senza pensarci due volte, il padre si tolse la cinghia dei pantaloni e gli disse: «Cos’è che fai, eh? Ti droghi, eh? Chi ti ha insegnato, piccolo stronzetto..»
Chester non si sottrasse alle cinghiate, né alle botte. Non si sottrasse quella sera, come mai si sarebbe sottratto, perché nel momento stesso in cui lo faceva, nel momento stesso in cui sentiva i pensieri scivolare, il cervello spegnersi, i muscoli rilassarsi, sapeva di meritarsi il peggio. Eppure continuava a farlo.
Nessuno mai l’apprezzava, nemmeno il professore di canto in cui aveva riposto tutte le sue speranze. Due anni prima, solo due anni prima, gli aveva detto fiero che sarebbe diventato un tenore d’eccellenza se avesse continuato ad esercitarsi con lui. Chester all’epoca aveva solo sedici anni e si era sentito il re del mondo, di fronte a un tale complimento. Aveva cominciato a piangere di fronte al professore biascicando parole incomprensibili persino a se stesso, e quando smise, riuscì solo a pronunciare un lieve: «Io.. Io.. Grazie.. Io non me lo merito».
Due anni dopo, il professore gli disse che davvero non se lo meritava. Non tollerava la sua condotta, aveva cominciato a perdere di tonalità, non eseguiva i suoi esercizi, e continuava a drogarsi fino a non sapere più chi fosse. Gli disse un giorno: «Finirai per strada, Chester. E allora non ci saranno più maestri come me a darti consigli. Sistemati, o finirai per strada».
Era disteso su una pozza di vomito in camera sua, senza nessuno in casa che potesse venire a prenderlo e tirarlo via da lì. Era convinto che sarebbe morto e che lo avrebbe fatto da solo, come da solo aveva fatto tutto nella sua vita. L’unica consolazione che poteva avere era la musica di sottofondo che gli alleviava un po’ i dolori allo stomaco, e il martellare del cervello, che sembrava volesse uscirgli dal cranio per cercarsi una nuova testa, probabilmente più degna.
Quel pomeriggio d’autunno del 1995, aveva deciso di godersi per l’ultima volta Madonna, che l’avrebbe accompagnato nella morte, come l’aveva accompagnato nella nascita. La madre gli aveva sempre raccontato, mentre il padre rideva isterico, che quando Chester era nato, suo padre per festeggiare aveva cantato a squarciagola ‘Lucky Star’*, suscitando meraviglia nei dottori che si erano girati tutti dalla sua parte per chiedergli se signore, sta bene, o per caso ha bisogno di un tranquillante?
In quel momento Chester stava ascoltando ‘Bye Bye Baby’. Rideva per quanto fosse stato geniale, e per quanto la sua stupida testa si concentrasse più su queste piccolezze, piuttosto che sui fatti che per lui sarebbero dovuti essere importanti. Sulle note finali di ‘Bye Bye Baby’, comunque, mentre la canzone moriva, lui si sentiva morire con essa. Pensò: Cazzo, che modo orrendo di morire. Penseranno tutti che sono un drogato di merda. Sospirò. Non so nemmeno morire in modo decente.
Aveva deciso di morire drogandosi. Aveva pensato ad un’overdose. Dopo che quel maniaco di Lawrence gli aveva messo le mani addosso come se fosse una puttana di strada, e dopo che gli aveva strappato i vestiti, e l’aveva gettato a terra, e dopo che si era spogliato di fronte a lui.. Dopo che.. Dopo che.. Dopo che l’ebbe usato come una marionetta riducendolo ad uno straccio, dopo, solo dopo, desiderò di morire. Lawrence aveva venticinque anni, e Chester diciassette, e a giorni ne avrebbe compiuti diciotto. Il giorno del suo compleanno, quella sera di fine Marzo, nell’appartamento di Lawrence, ubriaco sì, ma non così tanto da non capire più chi o cosa fosse, decise che avrebbe posto fine alla sua vita. In un modo o nell’altro.
Pochi giorni prima di ritrovarsi disteso a terra sulle sue stesse degeneri membra, era andato a trovare lo spacciatore della zona, e gli aveva chiesto una quantità di coca che sarebbe stata letale per chiunque avesse provato a farsela.
«Amico, questa roba costa» gli disse Conrad guardandolo di sbieco. «I soldi li voglio tutti, non un centesimo in meno. Ho messo a repentaglio la vita dei miei per far arrivare questa roba qui, e non voglio essere preso per il culo da te, stronzetto».
Chester non aveva i soldi che gli bastavano, non aveva nemmeno un quarto di quello che Conrad gli chiedeva. Odiava ammetterlo, ma era povero. I suoi genitori avevano deciso di non dargli più niente, dalla sera in cui il fratello se n’era andato, credendo di rimediare al danno compiuto. Lui però si trovò un lavoro, squallido è dir poco, ma che gli faceva guadagnare almeno il minimo indispensabile per potersi comprare un po’ di roba qualche volta al mese. Nemmeno la sua paga però riusciva ad arrivare a cifre così alte come quelle che gli chiedeva Conrad. A rubare non ci pensava nemmeno, anche se – lo pensò con un sorriso d’amarezza – anche se farsi era molto peggio che rubare.
«Ti do quello che ho» disse a Conrad. «Ti pagherò completamente, solo fammi trovare i soldi. Da qualche parte riuscirò a tirarli fuori».
«Stronzetto, voglio i tutti i soldi che mi devi tra tre giorni. Se non ci sarai, vengo a trovarti a casa».
Era una semplice frase questa, magra e floscia, detta quasi con la naturalezza con cui si dice un ‘hey amico, domani vengo a trovarti!’, ma carica di minaccia, e di rabbia, e di morte. Chester lo notò, ma non diede molto peso né a ciò né a nient’altro. L’unico motivo per cui era lì era il sacchetto, e lo voleva, perché si sentiva formicolare ovunque, si sentiva solleticare, e poi il solletico diventava dolore, diventava puntura, paura liquida e lui doveva scioglierla, mandarla via per sempre. Voleva quel sacchetto più della sua stessa vita. Doveva averlo. E avrebbe posto fine alla sua intera esistenza di merda, e niente più paura, niente più tentativi inutili di mandarla via. Niente più, pensava vuoto. Niente di più.
Conrad gli diede con cautela il sacchetto, come se non fosse importante l’atto del consegnare del veleno, come se non fosse consapevole che stava uccidendo una persona. L’unico dato importante in quel frangente era non farsi vedere, non mostrarsi, e tutto sarebbe stato a posto. E nulla sarebbe successo, nulla avrebbe potuto essergli incolpato, perché lui l’aveva fatto con cautela.
Nei giorni successivi, Chester tentò in qualsiasi modo di ricavare dei soldi. Si abbassò talmente tanto che per trovare qualche sporco dollaro fece da grannysitter – così gli piaceva chiamarsi molti anni dopo che il fatto era accaduto – ad una vecchina del suo quartiere, e in un momento in cui lei si era lasciata andare a flatulenze improvvise, Chester ebbe il compito di cambiarla e pulirla. Fu umiliante.
Steso a terra, agonizzante, non poteva fare a meno di ridere di se stesso. Sono un coglione. Rise perché aveva finito le lacrime per piangere, giacché la morte lo stava portando via goccia dopo goccia. Cominciò a ridere  più forte contorcendosi nel vomito, aprendo le braccia cercando di creare angeli con quella sostanza che, inverosimilmente, aveva visto uscire dal suo corpo.
Angeli sporchi, pensò. Come me. Angeli caduti in preda all’isteria, desiderosi di vivere, ma ai quali la vita non ha concesso abbastanza spazio per farlo. Si crogiolano nel loro stesso vomito, proprio come me, e burattini delle loro stesse mani si ritrovano fuori strada, ad aspettare un autostop che non arriverà mai, un treno già perso, e una lacrima: non caduta e già sprecata, ma nemmeno generata.
Aveva deciso, prendendo quel maledetto sacchetto da Conrad, di farla finita un volta per tutte. E si era dimenticato di tutto. Si era dimenticato dei soldi che gli doveva, si era dimenticato di vendicarsi di Beck, di gridare in faccia al suo professore di andare a sfracellarsi da qualche ponte e di non rompergli più. Di uccidere Lawrence. Si era persino dimenticato di salutare i suoi genitori, quella mattina. Sua madre sarebbe impazzita, al suo ritorno. Suo padre, invece, sarebbe morto accanto a lui.
Cercò di trattenere quell’immagine nella sua testa il più possibile, provando a reprimere dolore e lacrime.
Suo padre, in ginocchio accanto al corpo del figlio morto, avrebbe versato finalmente quelle lacrime che il figlio non aveva mai visto uscire dai suoi occhi in una vita intera, ma che, a quanto pare, sarebbero state privilegio solo della sua morte.
Si sarebbero bagnati i suoi baffi color cacao scuro, e il cioccolato dei suoi occhi si sarebbe sciolto. La voce, dal canto suo, non avrebbe retto, e sarebbe scoppiato in un grido liberatore che persino Dio, se uno ne esisteva, l’avrebbe udito da lassù. E poi si sarebbe steso a terra, accanto al corpo del suo bambino, e piccolo mio quanto ti amo, perché te ne sei andato, torna, ti prego, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo.
Era inevitabile, pensò Chester. Sapeva che l’amore era strettamente legato alla morte, che l’amore era morte, e che suo padre sarebbe morto, accanto a lui, un braccio attorno al collo e le labbra vicino alla sua fronte. Il suo cuore avrebbe ceduto piano, e Chester dall’aldilà l’avrebbe sentito, come l’ultima ninna nanna che il padre gli avrebbe dedicato, l’ultima canzone di Madonna che avrebbe sentito. L’ultima, o chissà forse no, preghiera di tornare indietro. L’ultimo ‘ti amo’.

* * *

Fu così che, nel pensare alla sua morte, i pensieri sbiadirono e s’impallidirono, come ormai la sua pelle stava facendo da tempo. I pensieri scolorirono e diventarono opachi, un vetro su cui a malapena avrebbe potuto osservare il paesaggio che si estendeva al di là.
Un sonno ristoratore cominciò ad impossessarsi di lui, quando sentì dei passi in casa. Passi pesanti. Pensò a suo padre, ma non riuscì a trovare similitudini tra questo passo e quello di lui. Pose più attenzione. Una voce, all’improvviso, come un ricordo lontano, riecheggiò nella sua mente, e lui riuscì a vedere oltre il vetro appannato.
La voce diceva ‘Se non ci sarai, vengo a trovarti a casa’.
E ancora.
Se non ci sarai, vengo a trovarti a casa.
Stronzetto, voglio i tutti i soldi che mi devi tra tre giorni. Se non ci sarai, vengo a trovarti a casa.
Merda.
I soldi. Merda.
Tre giorni. Merda.
Vengo a trovarti a casa. Merda.
Casa. No, no, no.

* * *

Entrarono in camera. Chester era steso a terra, gli occhi chiusi, il respiro inesistente, la maglia sporca di vomito, le assi del parquet sporche di vomito, la sua vita sporca di vomito, e gli uomini di fronte a lui, dal passo e dal respiro pesante. Seppur avesse gli occhi chiusi, Chester riusciva a percepire la loro smisurata grandezza. Erano in tre: due energumeni giganteschi e Conrad.
«Brutto figlio di puttana!» gridò Conrad improvvisamente, squarciando il silenzio della sua finta morte. Chester in un certo senso provò sollievo, nel più profondo della sua anima. Quel silenzio lo stava logorando. Non voleva morire, non lo voleva affatto, solo che non lo sapeva ancora. Lui stava cercando di morire. Si stava sforzando.
«Non sarai mica morto!» continuò a gridare.
Chester continuava a non muoversi e a cercare di respirare il meno possibile. «Tiragli un calcio, idiota, e vediamo se si sveglia».
Quel ‘tiragli un calcio, idiota’ era rivolto ad uno dei due uomini accanto a Conrad. Chester si era dimenticato di loro nello sforzo di trattenere il respiro e di fermare il battito del suo cuore: era convinto che persino un palpito, un battito d’ali di mosca, il movimento del più piccolo granulo di polvere avrebbero fatto il rumore più assordante e distruttivo che avesse mai potuto sentire.
Si scordò totalmente di quei due uomini la cui figura faceva pensare a due guardiani, a due punitori, per questo fu abbastanza sorpreso quando Conrad chiamò uno dei due ‘idiota’. Certo che quello morto, molto presto, e se la fortuna avesse voluto, sarebbe stato quel bastardo, e non il povero Chester.
L’energumeno alla destra, allora, tirò un calcio alla sagoma stesa a terra, e senza sapere come, quella sagoma, quel manichino sfinito e sfibrato, si ritrovò a vomitare sangue. Il silenzio sembrava non esistere più, sembrava che non fosse mai esistito, nella mente di Chester, che era ormai satura delle sue grida di dolore.
Credeva che sarebbe soffocato tra le sue stesse grida. Dio, avrebbe potuto, ma non voleva. Sarebbe potuto morire lì, avrebbe dovuto, ma non voleva. E non lo sapeva.
«Allora sei vivo, stronzetto». Vaffanculo figlio di troia.
Chester, di fronte a lui, in ginocchio, si toccava lo stomaco come se fosse l’unica parte del corpo che riuscisse a sentire, o come se avesse paura di perderla. Stava piangendo dal dolore, e aveva il volto sporco di sangue, che aveva sputato poco prima, dopo il calcio del gigante. Piangeva piano, perché non voleva farsi sentire dai bastardi di fronte a lui. Mezzo morto, continuava ad essere l’orgoglioso di sempre.
«Dove sono i soldi?» disse Conrad. «O li tiri fuori adesso, o ti ammazzo, deficiente».
Chester non alzava lo sguardo e cercava di pulirsi il volto con la maglietta sporca di vomito. Dio, pensò, sono nella merda.
Passarono alcuni secondi. Il silenzio era tale che Chester si stupiva di non essere morto: solo i morti possono godere di un silenzio simile.
«Allora, tiri fuori questi soldi?» gridò Conrad. «Porca puttana, dammeli o ti ammazzo, dannato idiota, ti ammazzo!» Era furioso. Gli sarebbero usciti gli occhi dalle orbite. Per quanto era incazzato poteva tener testa ai due mostri umani accanto a lui.
Chester, facendosi coraggio, gli disse balbettando: «Io non..» Ma Conrad lo interruppe subito.
«Tu cosa? Cosa?! Sentiamo idiota, sentiamo».
«Io non li ho». Si fermò e prese fiato. Le scorte di coraggio stavano finendo, e il suo corpo stava cominciando a tremare convulsamente.
«I soldi, non ce li ho».
Era fatta. Non era riuscito a morire facendosi fino ad impazzire, ma sarebbe morto così. Già se lo immaginava: rinchiuso nel seminterrato di una casa anonima, frustato, picchiato, sanguinante, legato ad una sedia. L’avrebbero ritrovato quando i vermi l’avessero già mangiato, pensò frustrato.
«Tu non ce l’hai? Non ce l’hai?»
Conrad sembrava calmo. «Io mi sono fatto il culo per riuscire a procurarmi roba così, e tu mi dici che non li hai?» Cominciò a ridere come un isterico. «Non li hai? Va bene, non importa».
Chester alzò lo sguardo meravigliato. Era salvo?
«Non importa se non li hai, bamboccio». Si avvicinò sempre più a Chester, e gli alitò in faccia – Chester non riuscì a fare a meno di interpretare il suo alito: sapeva di gomma da masticare alla menta e birra – e gli alitò: «Non m’importa, perché adesso ti ammazzo».
Già, pensare che forse avrebbe potuto salvarsi era facile. Troppo facile.

* * *

I due ragazzoni sollevarono Chester da terra, che cominciò a scalciare come un pazzo. «No, no! No, per favore, no! Lasciami andare Conrad, ti prego!»
Piangeva come un bimbo. A dirla tutta, nemmeno da bambino aveva mai pianto così. Stava vivendo la sua giovinezza in punto di morte.
Sembrava che i due energumeni fossero di pietra: non si muovevano di un millimetro. Chester scalciava, gridava, piangeva, cercava di graffiarli con i residui di unghie, cercò di morderli, ma incontrò roccia laddove avrebbe dovuto esserci carne.
Lo portarono in macchina, facendogli scendere le scale forzatamente, mentre lui continuava a gridare nella speranza che qualche vicino avesse potuto accorgersi di lui e andare a controllare.
Di nuovo, troppo facile.
Quando arrivarono alla macchina e lo gettarono dentro, Chester si sentì finito davvero. Continuava a piangere come un bambino, con quel tono soffocato che sono soliti usare i bambini quando pregano i loro genitori di comprare loro un giocattolo tanto desiderato pur sapendo che non riuscirebbero mai a muovere di  un micrometro la loro volontà.
Lo bendarono, gli legarono i polsi e gli misero un bavaglio alla bocca. Si sentiva un maiale, in quel momento. Un maiale che presto sarebbe stato portato al macello. Si immaginava le peggiori morti: pensava che l’avrebbero ucciso decapitandolo, lasciando che gli avvoltoi gli mangiassero il cervello; che gli avrebbero tagliato mani e gambe lasciandolo agonizzante fino ai suoi ultimi respiri; pensava che gli avrebbero iniettato un’altra dose letale, che stavolta l’avrebbe davvero messo ko. Ma poi si correggeva e diceva che Conrad non avrebbe lasciato che lui, bamboccio, sprecasse la sua roba.
La sua lurida roba. Quella merda di roba. Quella puttana.
Schifosa, lurida merda che l’aveva portato fin lì.
Un giorno, o vivo o morto, si sarebbe vendicato. Di tutti.
La macchina, d’un tratto, partì per l’ultima destinazione di Chester.

* * *

Aveva fatto il bravo. Aveva cercato di fiatare il meno possibile per non dare fastidio a Conrad e ai suoi due uomini, di cui uno gli stava accanto. Sentiva che sotto di sé la pelle del sedile era lacerata, ma che una volta era stata un’ottima pelle. Non ne vedeva il colore, ma pensò che fosse una pelle nera e lucida, striata, da quel che riusciva a percepire al tatto, e sottile. Continuava a toccare la parte lacerata di quel tessuto, come se fosse un ultimo sostegno a cui aggrapparsi. Il lembo di pelle strappata fortunatamente sporgeva all’indietro, ed era intrappolato tra la sua schiena ed il sedile, proprio laddove le mani, seppur legate, avrebbero comunque potuto toccarlo. Si chiese come mai fosse strappata. Una pelliccia del genere, così costosa, così ben lavorata.. O magari era stata bruciata. Sì, forse bruciata, e accidentalmente il pezzo di pelle bruciato, a causa del calore, si era strappato. Forse era stato qualcuno che, poco attento, aveva acceso una sigaretta e aveva lasciato che la cenere cadesse. Maledizione, come si fa a lasciar cadere della cenere su un rivestimento del genere? Lui non l’avrebbe fatto.  
Desiderava con tutto il suo cuore una sigaretta. Niente più roba, si era detto. Al massimo sigarette, ma niente più roba. Ne voleva una con tutto il cuore. Immaginava se stesso nell’atto di fumarne una.
Si immaginava di aspirarne una, di provare la carezza del fumo sui suoi polmoni, di sentire il fumo in bocca giocare con la sua lingua, e poi fuori, libero, a creare le forme più disparate e inimmaginabili.
Voleva vedere il fumo, la cenere. Voleva pensare che la cenere fosse il suo corpo distrutto e dilaniato, il suo corpo nella forma in cui era prima d’essere. E il fumo sarebbe stata la sua anima. Era inverosimile che salisse verso l’alto, per quanto ne sapeva, ma l’idea lo allettava. Lo confortava. Lo faceva sorridere.
Si chiese se era normale il suo comportamento. Se è così che fa una persona quando sta per morire. Se era pazzo, o se voleva esserlo. Se sarebbe stato meglio morire da solo fermando il suo cuore con la sola forza del pensiero, o se avesse dovuto provare dolore nella morte. Forse non avrebbe nemmeno provato. Forse sarebbe stato solo un colpo e basta, fine, chiuso, stop.  
La macchina si fermò, e Conrad disse: «A quanto pare, per te è finita qui».
Quindi volevano abbandonarlo in mezzo alla strada. Magari non era nemmeno una strada. Non sapeva quante ore avessero viaggiato, e per lui il luogo in cui lo stavano abbandonando poteva ben essere un deserto.
Chester sospirò, sperando che tutto finisse presto.
«Alzatelo e tiratelo fuori di qui». I due uomini lo afferrarono da sotto le ascelle e lo tirarono fuori dalla macchina. Non c’era un alito di vento seppur fosse autunno e, anche se era bendato, Chester poteva sentire che il sole splendeva in alto. Pochi raggi di luce riuscirono ad infiltrarsi nello spesso tessuto con cui gli erano stati coperti gli occhi, e per un secondo la sua vista fu colma di bianchezza, di purezza, e di speranza.
Dietro di lui sentiva che Conrad e i due uomini confabulavano. Lo avevano lasciato da solo un attimo, sapendo che comunque non sarebbe riuscito a scappare nemmeno se avesse avuto le mani e i piedi liberi e gli occhi non bendati. Ma lui non ci pensò nemmeno.
Riuscì solo a tenere la testa alzata verso il sole, che vedeva scuro e in lontananza, con quella maledetta benda. Respirò a pieni polmoni l’ultima aria del suo ultimo autunno, e si disse che sarebbe stato pronto in qualsiasi momento.
Di solito non pregava, e anzi non gli era mai capitato di pregare sino ad allora.
Ti prego, pensò, ti scongiuro. Non lasciare che facciano del male a mamma e papà.
Mamma e papà. Erano anni che non li chiamava così. Era un’altra vita quella, un altro Chester.
Si rivide nella cucina di casa sua, con mamma e papà a terra con lui, che lo incitavano a camminare. «Forza Chazy, forza! Cammina, puoi farcela!» La mamma emetteva dei piccoli gridolini di piacere ogni volta che dopo una caduta lo vedeva di nuovo alzarsi in piedi e provare. «Forza amore della mamma! Cammina, puoi farcela!» E lui metteva un piedino avanti, poi lo ritirava, poi lo metteva avanti di nuovo e cercava l’equilibrio. Suo padre lo guardava ammaliato. Mai visto un bambino con una tale forza d’animo. Lo amava più di quello che si sarebbe mai aspettato. Non parlava, ma il suo sguardo trasmetteva al piccolo Chester tante parole. Forza piccolo, gli diceva, e Il tuo papà ti vuole bene. Allora Chester, fermo nella stanza, metteva avanti l’altro piedino, e poi l’altro, e l’altro ancora. E abbassava la piccola testa verso i piedi, chiedendosi se fosse lui che li faceva muovere. E rideva e rideva, di quel riso squillante che solo i bambini sanno ridere. E batteva le mani, e si piegava sulle ginocchia fino a toccare i piedi per poi dir loro, in una lingua sconosciuta, Bravi! Come siete bravi!
Ma Chester non era più quel bimbo. Sull’orlo del precipizio non avrebbe più fatto passi avanti, e nemmeno indietro.
Notò che stava piangendo. Papà, mamma, suo fratello, la sua ragazza, il suo insegnante.. Non sarebbe bastato un saluto. Lui avrebbe dato la vita per loro. Aveva incasinato tutto, cazzo, e adesso sarebbe morto da coglione.
Da dietro sentì dei bisbigli, e poi il silenzio.
Ecco. Ecco.
«Spingetelo», disse chiaramente la voce di Conrad.
E Chester fu libero. L’aria gli premeva sul volto, la benda gli scivolò e poté finalmente vedere in faccia la sua fine.
Avevano deciso di gettarlo da una ripida collina. Un breve volo e poi a terra. Sbam. Fine.
Il suolo era così vicino, e Chester notò che effettivamente era il meglio di quel che si poteva aspettare: un campo di grano d’oro sarebbe stato il suo letto di morte, il suo ultimo letto, e poi avrebbe lasciato che le piogge lo pulissero e lo spazzassero via. Il sangue non si sarebbe nemmeno notato, tra tutto quell’oro. Chi avrebbe notato un piccolo, insignificante puntino rosso quando la sua vista era piena di tutto quell’oro, e quell’ambra chiara.

* * *

Il petto di Chester, le sue gambe, le sue braccia toccarono terra. Il soffice tappeto di grano attutì di poco la caduta, ma il colpo che il ragazzo ricevette fu talmente forte che, battendo la testa, sentì il suo cervello muoversi, e i pensieri prendere direzioni che non avevano mai osato prendere. La vista gli mancò per un attimo, non sentì più braccia né gambe. E nemmeno il cuore. Perse i suoi stessi pensieri, non riuscì più a sentirli, né a vedere immagini nella sua testa, solo oro, oro, oro, oro. Sangue, e poi oro, e sangue e oro.
Si rese conto che stava rotolando inerme nel giardino dorato dei suoi sogni, e che lasciava tracce del suo passaggio scure e dense. Sarebbe stato come con Hansel e Gretel: soltanto che lui, al posto delle briciole, avrebbe lasciato il suo sangue, e non si sarebbe diretto verso la casa della strega, ma verso Sorella Morte.
Un ultimo saluto al cielo.
Ciao Chester.
 
 
 
 
 
Note dell’autrice.
*Questo riferimento è alquanto inverosimile. ‘Lucky Star’ è stata composta e pubblicata nel 1983, quindi alcuni anni dopo che Chester era nato. Ho aggiunto l’elemento nella storia semplicemente per farla quadrare meglio.
 
Ovviamente, essendo una storia a capitoli, non pensate al peggio. Ci saranno vari colpi di scena. Buona immaginazione!
© Ariela Hyso.
Prego per favore di non copiare. In questa storia è stato messo impegno e dedizione, e sarebbe scorretto e maleducato farlo. Grazie, l’autrice.
  
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