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Autore: Brin    02/02/2012    3 recensioni
Non si può restare a guardare quando una mano sconosciuta porta via ciò che di più caro hai al mondo: questo è quanto Sari Kalabis sperimenta sulla propria pelle nel momento in cui uno dei pilastri della sua vita le viene strappato per sempre.
Non sa, però, che il desiderio di sapere perché la porterà su strade pericolose, lastricate di interessi a cui non dovrebbe avvicinarsi. Verso i sotterranei di un carcere da cui non si può uscire, nella pancia di un incubo folle e delirante che non dovrebbe esistere.
Genere: Fantasy, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Alla fine l'ho fatto. Ho ripescato questa storia dal cilindro delle mie storie.
Mi son detta che se non l'avessi fatto, probabilmente La zona rossa non avrebbe mai visto la luce su EFP perché il tempo è quello che è e la revisione di questa storia sarebbe andata a data da destinarsi.
Così ho preso il coraggio a due mani (che fatica, non vi dico l'ansia!!), ho mandato a farsi benedire le mie fregole da perfezionista e ho deciso di sottoporvi questa storia così com'è stata concepita e scritta qualcosa come cinque anni fa. Perciò prendete una buona dose di coraggio, mettetevi comode e buona lettura!

Ps: un grazie enorme alla mia insostituibile Roberta, l'autrice del meraviglioso banner di questa storia. Non saprei davvero come fare senza di te, amor!





 


1.
PROLOGO



*



I fiocchi di neve scendevano leggeri e silenziosi, una nevicata fitta che possedeva la grazia crudele tipica della natura più selvaggia. Non c’erano luci che potessero vincere la cortina di nubi che sovrastava Halifax; neppure la luna, ridotta a un pallido alone, riusciva a disperdere il candore spettrale che teneva prigioniero il cielo.
Ecco cos’era diventata la città: un panorama irreale senza forme né colori, che sfumava verso i contorni onirici e indefiniti di un incubo. Un paesaggio sempre uguale, muto. Sommerso.
Erano bastate poche ore e una nevicata corposa per ricoprire ogni cosa, nascondendo le strade, le case e gli alberi sotto una cortina di neve che era destinata a crescere.
Halifax era diventata improvvisamente una città immobile, estranea allo scorrere del tempo, e lui… Lui era come un parassita; l’unico a camminare in quell’ambiente inospitale, come un fantasma appartenente a tempi passati.
Non c’era altro rumore che non fosse il crepitio ovattato della neve che si infrangeva sotto i suoi piedi: non un movimento, né calore, né vita. Sembrava essere rimasto l’unico sopravvissuto in quella città monocromatica e spettrale, l’ultima persona a percorrere quelle strade deserte.
Arrancava con difficoltà, ormai giunto al limite delle proprie forze.
Ogni passo gli risultava più faticoso del precedente e, nonostante cercasse disperatamente di non fermarsi, la neve sembrava volerlo imprigionare con le sue mani invisibili. Respirare poi era un’agonia: l’aria gelida gli mozzava il fiato, lo costringeva a boccheggiare per cercare ossigeno nel tentativo di trovare un compromesso con il dolore.
Tremava convulsamente, gli arti intirizziti dal freddo lancinante. Probabilmente aveva più di qualche taglio sulle labbra: il bruciore, ormai divenuto una compagnia costante, lo stava facendo impazzire. Non sarebbe riuscito a reggersi in piedi ancora a lungo, lo sapeva bene, ma il bisogno disperato di continuare a camminare lo costringeva a ignorare la fatica. Si sentiva terribilmente debole, ma non gli importava.
Non poteva fermarsi, non doveva. Non ora che si trovava davanti all’enorme porta che delimitava l’uscita dalla città.
La stanchezza lo pugnalò alla schiena, infida e traditrice; le ginocchia cedettero, ma nella sua mente quel grido non cessava.
Esci.
Respirò a fondo e il gelo gli trafisse i polmoni come se fosse un coltello. Faceva dannatamente male. Si impose di compiere un ultimo sforzo, sentì i muscoli protestare, ma la disperazione rendeva la sua volontà più forte di qualsiasi dolore.
Esci!
Riuscì a oltrepassare la porta e finalmente si concesse di cedere alla stanchezza, stremato. Si accasciò al suolo come se fosse un corpo senza vita, e rimase con lo sguardo basso per minuti interminabili. Sconvolto.
Non ricordava nulla.
La sua mente era costretta nel caos, un brodo informe in cui pensieri sconnessi si susseguivano senza dargli tregua; un groviglio privo di ordine che sfuggiva al suo controllo. Per quanto cercasse di raccapezzarsi su cosa fosse accaduto mentre il corpo sfuggiva al suo controllo, la memoria gli restituiva nient’altro che frammenti in ombra; immagini sfuocate senza forma.
L’unica cosa che sapeva con certezza era che la sua testa era rimasta avvolta nel buio più totale per un tempo che non avrebbe saputo quantificare, prima di essere investita da una luce accecante e tremenda. Quando si era reso conto dello scenario agghiacciante che lo circondava aveva gridato ancora e ancora, piegato da un orrore che non avrebbe mai voluto vedere. Un orrore che era la sua croce e che era ancora lì, alle sue spalle.
Sapeva qual’era la scena che sarebbe apparsa ai suoi occhi se si fosse voltato: per uscire da Halifax era stato costretto a passargli accanto. Aveva fissato quegli occhi sbarrati e vuoti, quelle bocche contorte, spalancate in smorfie del dolore più indicibile. Loro da una parte e lui dall’altra, di fronte alle porte dell’abisso. Separati dal confine della morte.
Tremò e diede di stomaco, ma si costrinse a guardarli. Voleva imprimersi per sempre quella desolazione nella memoria per non dimenticare. Per lottare contro un destino che non riconosceva. Per opporsi al motivo per cui era nato.
Quando guardò ciò che rimaneva della città, lottò contro l’impulso di distogliere lo sguardo. Doveva imprimersi nella mente quella visione e alimentare il suo odio.
Cadaveri.
Centinaia di corpi contorti riversi a terra, coperti da un leggero strato di neve; le mani chiuse a pugno, le membra tese dagli spasmi. Gli occhi pieni dell’orrore che li aveva condotti alla morte, le bocche ormai silenziose spalancate in grida disumane.
Questa era la sua vita. La sua natura.
Avrebbe voluto fuggire dal suo destino, ma non era possibile.
Lo sapeva bene: questo incubo non avrebbe mai avuto fine.


*


Erano passate diverse settimane dall’inizio della primavera, e Rosya sembrava rinascere assieme alla bella stagione. Era la città più grande e popolata, la capitale del regno di Silindril. La più bella, secondo la maggior parte delle persone.
Rappresentava il vanto degli elfi, la razza che l’aveva costruita dalle fondamenta. Quando arrivarono i maghi assieme agli uomini, poi, Rosya subì una commistione di stili che la rese del tutto particolare. Durante l’inverno la sua bellezza sembrava dormire, ma con l’avvento della primavera il sole la faceva brillare come un gioiello. Si diceva che nelle giornate più limpide il suo splendore arrivasse lontano, oltre l’immensa distesa d’acqua che separava il regno dalla terra dove abitavano i demoni, e facesse rodere d’invidia quelle creature oscure che potevano vantare solamente buio e rovina.
Quel giorno, in particolare, le conferiva un lustro e una maestosità d’eccezione: raramente Rosya era stata testimone di mattine così calde e soleggiate. Camminare per le strade che si perdevano negli angoli più pittoreschi, con il tepore del mezzogiorno a baciare il viso, era un’attività che poteva risultare piuttosto piacevole e i commercianti ne approfittavano per invogliare i passanti con promesse di deliziose focacce appena sfornate.
Purtroppo per loro, però, gli affari avrebbero dovuto attendere: nell’aria c’era un fermento impaziente, la gente scalpitava davanti al dipartimento di polizia e mormorava preoccupata per quel caso che aveva destato molto scalpore.
Del resto, nessuno avrebbe potuto biasimarla.
L’intenso vociare proveniente dal cortile era un sottofondo che non spezzava la tensione nella stanza. Un uomo in uniforme era appoggiato contro il muro, con le braccia incrociate al petto e un cipiglio serio che stonava sul suo volto maturo e di bell’aspetto. Portava i capelli corti, com’era in uso tra le forze dell’ordine, e i suoi occhi nocciola studiavano con attenzione la persona che gli stava davanti. Quando parlò, la sua voce rivelò un’inflessione profonda e severa.
«È stato lei a uccidere gli abitanti di Halifax?»
La domanda parve cadere nel vuoto. Nessuna risposta, soltanto silenzio. Il suo interlocutore, un giovane uomo di circa vent’anni, guardò annoiato il poliziotto e si accomodò con i piedi sopra al tavolo. Aveva gli occhi grigi, di una tonalità così scura da renderli decisamente particolari. Quando l’agente sospirò stizzito, l’interrogato si aggiustò una ciocca di capelli neri che gli cadeva indisponente davanti un occhio, e abbozzò un leggero sorrisetto.
Sembrava non avere intenzione di collaborare.
Il poliziotto gli si parò di fronte con fare intimidatorio, deciso a farlo parlare, ma il giovane non rimase affatto impressionato. Gli rivolse uno sguardo strafottente, come se negasse la sua autorità, come se sfidasse il suo ruolo di agente.
«Se anche fossi stato io non lo verrei certo a dire a lei, quindi in entrambi i casi la risposta è no» gli rispose con indifferenza. Per il poliziotto fu troppo: con una manata gettò i piedi dell’imputato a terra, e si protese verso di lui con aria minacciosa. Lo avrebbe costretto a collaborare, che lo volesse o meno.
«Si rende conto della gravità della situazione? È l’unico superstite della strage di Halifax, città alla quale per altro non apparteneva. È accusato di omicidio di massa, signor Warknife!»
«La ringrazio dell’informazione, ma lo avevo intuito» rispose con un ghigno ironico.
Il poliziotto fu costretto a distogliere lo sguardo nel tentativo di mantenere il sangue freddo.
Se voleva conservare la propria autorità e avere una possibilità di strappargli una confessione, l’ultima cosa che doveva fare era mostrarsi agitato. Doveva assumere un atteggiamento severo, duro, per nulla permissivo. E soprattutto controllato.
Gettò un’occhiata spazientita verso il lungo specchio unidirezionale incastrato nella parete. Sapeva che i suoi colleghi potevano vedere e sentire ogni cosa, ma in quel momento non potevano aiutarlo a mantenere la calma. Tutto dipendeva dalle sue capacità, e l’impressione che l’uomo seduto di fronte a lui si divertisse a giocare con la sua pazienza non aiutava di certo.
Sospirò, pronto ad affrontare di nuovo un confronto con il presunto assassino.
«Glielo chiederò un’altra volta: è stato lei a uccidere gli abitanti di Halifax?»
«Perché mi fa questa domanda se sa già che qualunque cosa io dica finirò comunque ad Artika? »
«Non risponda alla mia domanda con un’altra domanda! »
Si rese conto di aver alzato la voce soltanto dopo essersi lasciato scappare quelle parole. Warknife lo osservò per un attimo prima di rispondere.
«Lei vuole una risposta, giusto? Un sí o un no? »
«La pregherei di rispondere alla mia domanda fornendomi una risposta, signor Warknife.»
«La mia risposta l’ho già data, agente Silver» concluse pacato, osservando la targhetta che brillava sul petto del poliziotto.
«Vorrei che fosse più chiaro.»
Il giovane uomo guardò Silver di sottecchi prima di alzarsi, ma i due nerboruti agenti di guardia gli furono subito addosso. Lo costrinsero a sedersi, sfruttando la tacita minaccia di una punizione corporale che pochi stolti avrebbero scelto.
«L’accoglienza è piuttosto calorosa» commentò con sarcasmo, ma la battuta scivolò addosso a Silver senza alcun effetto.
«Per piacere, mi risponda con un sí o con un no: è stato lei a... »
«Prima di gettare il mio no nella spazzatura assieme a tutte le scartoffie che ci sono nel suo ufficio, mi faccia un favore: la smetta di chiedermi se sono stato io ad aver sterminato quella città, visto che sa già che non cambierà nulla.»
Quella risposta lasciò Silver decisamente confuso: non se l’aspettava. Non riusciva a capire che cosa volesse ottenere. Gli sembrava alquanto strano che rinunciasse con così tanta facilità a difendere la propria innocenza, ammesso che ce l’avesse. Di questo passo Artika sarebbe stata una tappa sicura per quel giovane, e non c’era una sola persona al mondo che non sapesse che una volta entrati era impossibile uscirvi.
Rimase interdetto, incapace di formulare una risposta, e Warknife ne approfittò per alzarsi. I due agenti della sicurezza gli furono addosso nell’istante successivo, afferrandogli saldamente le braccia per impedirgli una possibile fuga. Lo sbatterono addosso al tavolo, incollandogli la faccia alla superficie fredda. Ma dall’espressione del ragazzo, Silver intuì che tentare di fuggire non era il suo piano. Sembrava stanco.
«È finito l’interrogatorio, agente Silver? La scorta mi sta aspettando fuori e credo che siano piuttosto impazienti di buttarmi a marcire in una cella ad Artika.»
«Se non vuole collaborare e raccontarci che cosa è successo esattamente, dubito che potrà evitare di alloggiare in una suite del carcere di massima sicurezza, signor Warknife.»
«E se le dicessi che non ricordo nulla di ciò che è accaduto, lei mi crederebbe? »
«No.»
«Ecco, appunto. Quindi perché sta sprecando del tempo se la mia sorte non può cambiare?»
«È la procedura.»
«Ottima motivazione, agente Silver. Davvero ottima» sentenziò con sarcasmo prima di riuscire a vincere la resistenza dei due agenti della sicurezza e alzarsi. Silver portò rapidamente una mano alla fondina, estraendo la pistola e puntandogliela contro. Aveva fatto male i suoi calcoli. Aveva abbassato la guardia, e se il prigioniero fosse riuscito a fuggire sarebbe stata soltanto colpa sua.
«Fermo lì.»
Warknife osservò la pistola con indifferenza, per nulla intimorito. Non alzò neppure le mani.
«Si rilassi, agente Silver. Non ho intenzione di fare nulla» mormorò, gettando un’occhiata fugace allo specchio unidirezionale. I due agenti della sicurezza gli furono di nuovo addosso, costringendolo a sedersi. Silver abbassò la pistola, ma notò qualcosa nello sguardo di Warknife. Un guizzo che non riuscì a decifrare.
«Comunque…» cominciò l’interrogato continuando a guardare lo specchio unidirezionale «... riferite pure ai vostri strizzacervelli che se mi devono analizzare possono farlo benissimo anche senza nascondersi dietro a uno specchio. Essere spiato mi infastidisce.»
Silver rimase spiazzato, e la prima cosa che si chiese fu come facesse a sapere di essere l’oggetto di una perizia psicologica. Guardò lo specchio, ben sapendo che non sarebbe riuscito a vedere dall’altra parte. Come aveva fatto? Quando riportò l’attenzione su Warknife, quest’ultimo non ci mise molto a cogliere la domanda negli occhi del poliziotto. Sulle sue labbra si disegnò un sorriso sottile. Sornione.
«So che cos’è uno specchio unidirezionale agente Silver, e so anche che può rivelarsi estremamente utile per osservare un soggetto senza influenzarne il comportamento. In un caso come il mio, il parere di qualche strizzacervelli è necessario, non è d’accordo?»
«Ma come... Lei mi ha forse...» Silver divenne ancora più stupito. Warknife sogghignò con una luce maligna nei suoi occhi, per la prima volta da quando era entrato nella stanza.
«Non sia banale agente Silver, ce l’ha scritto in faccia. Come potrei leggerle nel pensiero? Sono soltanto un insignificante essere umano, non un demone» terminò facendogli notare l’assenza di canini pronunciati, tipici della morfologia demoniaca.
Il poliziotto lo guardò negli occhi con cipiglio serio, sostenendo il suo sguardo che sembrava deriderlo. Sospirò, scuotendo leggermente il capo, avvilito.
«Come vuole, Warknife.»


*


Quando i due agenti lo trascinarono fuori dalla stanza, il prigioniero non oppose alcuna resistenza.
Prima di attraversare l’uscio guardò Silver negli occhi, sorridendo ambiguamente.
«Ci vediamo, agente.»
Parole che suonarono come l’atto finale di una lunga commedia, o almeno questa era l’impressione che avevano suscitato nel poliziotto. Lo vide prendere un profondo respiro prima di uscire per andare incontro al suo destino, e in quel momento Silver seppe che l’immagine di quel ragazzo, con i polsi e le caviglie incatenati, lo avrebbe accompagnato per molto tempo. Gli era capitato tante volte di trovarsi davanti a persone strafottenti, che sfidavano la sua autorità apertamente. Ma nessuno era Warknife.
Nessuno aveva mai dimostrato la calma che lui aveva mantenuto durante l’interrogatorio. In molti si disperavano, o aggredivano con le parole. Aveva visto persone passare in pochi istanti da uno stato di euforica esaltazione alla più cupa disperazione, ma l’atteggiamento calmo e rassegnato di Warknife era una vera rarità.
Aveva accettato senza turbamento un destino che l’avrebbe condotto a vivere i suoi ultimi giorni di vita in una cella, prima dell’esecuzione capitale: anche questo faceva parte dell’alone di mistero che sembrava circondarlo da quando era stato ritrovato a gironzolare attorno alle mura di Halifax come un’anima intrappolata nel mondo dei vivi, l’unica presenza in una città fantasma i cui abitanti erano tutti misteriosamente morti.
Silver ricordava chiaramente ciò che gli era stato riferito dopo un lungo passaparola. Si mormorava di quest’uomo che vagava, confuso. Ogni altra creatura nell’intera città era stata ritrovata priva di vita, e la cosa più insolita era lo stato in cui erano stati rinvenuti i cadaveri: non c’era neppure una singola chiazza di sangue. Tutti i corpi erano perfettamente intatti.
Sembrava che il tempo si fosse fermato, e con esso anche la veglia dei suoi abitanti. Benché si cercasse una spiegazione razionale, però, nessuno riuscì mai a dire che cosa fosse realmente accaduto quel giorno.
Sbuffando e maledicendo i propri pensieri, Silver afferrò la cartella che si trovava sopra il tavolo e uscì dalla stanza. Percorse il corridoio finché raggiunse la porta accanto. La camera dello specchio: così chiamavano la stanza adibita alle osservazioni degli interrogatori. Non era molto grande, e delle lampadine incassate sul soffitto illuminavano l’interno.
Tre persone stavano discutendo dell’interrogatorio a cui avevano assistito: due ragazze e un uomo anziano. Reggevano delle cartelle contenenti fogli e una penna per scrivere annotazioni. Quando si accorsero della presenza del poliziotto, si zittirono.
Silver sorrise, imbarazzato per aver interrotto quello scambio di opinioni. L’uomo gli si avvicinò: era il professor Santos, uno dei più famosi ed esperti psicologi criminali di tutta la regione. Grazie alla sua età aveva molta pratica alle spalle, ma nonostante tutto sembrava non voler lasciare il lavoro che amava. La calvizie avanzava inarrestabile e tutto ciò che aveva in testa erano pochi capelli grigi, ma i suoi occhi rivelavano una vitalità e una lucidità mentale che scarseggiavano in gran parte dei suoi coetanei. La sua vasta esperienza lo rendeva indispensabile alla polizia, per non parlare della sua bravura: spesso veniva chiamato per fornire un prospetto psicologico degli indiziati nei casi più complessi. Come se non bastasse era titolare di una cattedra d’insegnamento alla scuola per Psicologi di Rosya, ed era decisamente probabile che le due ragazze fossero sue allieve: erano piuttosto giovani, e a giudicare dall’aspetto dovevano avere all’incirca diciassette anni. Una -la più alta e slanciata- aveva i capelli neri, portati raccolti in una coda lunga che lasciava scoperte le orecchie. La loro foggia era tipica della razza elfica. La targhetta assicurata sul suo camice portava il suo nome.
Amaya Lyrem.
L’altra aveva i capelli castani, tenuti raccolti in una crocchia fermata con una matita mangiucchiata. Era umana, al contrario dell’amica.
Sari Kalabis, questo il nome sulla sua targhetta.
Capitava spesso che degli studenti frequentassero il dipartimento di polizia per svolgere attività di tirocinio, perciò Silver non si stupì più di tanto nel trovare lì le due ragazze. A giudicare dal soggetto con cui svolgevano il loro praticantato, dovevano essere anche piuttosto in gamba.
«Victor, amico mio» Santos salutò il poliziotto con una poderosa stretta di mano. Silver gli porse i fascicoli, guardando con curiosità lo psicologo.
«Allora, cosa ne pensi?» gli chiese mentre l’uomo apriva e dava una rapida occhiata al materiale nelle sue mani. Santos rimase in silenzio per alcuni istanti, leggendo in velocità il contenuto dei fascicoli.
«Il ragazzo è sicuramente molto lucido. Ha coscienza di tutto ciò che dice e dell’effetto che ogni sua parola ha sui soggetti che lo ascoltano, e il giocare con quell’effetto lo diverte molto. È furbo, e dubito che possa aver avuto veramente un raptus come lui stesso indirettamente sostiene. Non posso dirti di più se prima non lo sottopongo a test più specifici» concluse lo psicologo porgendo i fascicoli a Silver, che scosse impercettibilmente il capo.
Sospirò, passandosi una mano tra i capelli castani.
«Temo non sia possibile: ad Artika non concederanno più di tre giorni, a uno come lui.»


*


La folla era rimasta in attesa all’esterno dell’edificio, e la ferocia delle sue grida aumentava con il passare delle ore. Gli agenti della sicurezza riuscivano a stento a mantenere l’ordine, e i cittadini minacciavano da un momento all’altro di oltrepassare le transenne. Erano impazienti, arrabbiati, e chiedevano giustizia.
Per Silver scene come questa non erano nuove: la popolazione era sempre stata particolarmente sensibile verso i crimini efferati. Soltanto le due studentesse sembravano a disagio, in mezzo a quel frastuono. Quando erano usciti dal dipartimento le aveva avvisate, cercando di prepararle a quello che avrebbero visto nel cortile, ma evidentemente non era stato sufficiente.
All’improvviso la folla cominciò ad agitarsi ancora di più, cercando di sfondare le transenne per riversarsi verso l’entrata dello stabile: Warknife stava uscendo.
Era letteralmente circondato da argenti armati, mentre altri due poliziotti lo aspettavano di fronte al blindato che avrebbe dovuto condurlo ad Artika. Aveva i piedi incatenati, in modo che non potesse compiere grandi passi, mentre una camicia di forza gli immobilizzava le braccia e le mani. Tutt’attorno, la folla fischiava e gridava pesanti insulti, che scivolarono addosso al prigioniero come fossero acqua. Warknife si limitò ad accennare un sorriso vagamente strafottente, abbassando il capo e osservando di sottecchi tutta quella gente chiassosa e sputasentenze. Quando i poliziotti lo spinsero avanti costringendolo ad avanzare, con la coda dell’occhio riuscì a scorgere una figura familiare.
Si voltò, salutando Silver con un cenno della testa. Un saluto che il poliziotto non ricambiò.
Lo sguardo di Warknife si posò sulle giovani ragazze accanto a Silver, indugiando sui caldi occhi nocciola di una delle due. La sua statura e soprattutto la forma delle sue orecchie gli suggerivano che fosse un’umana. Il suo sguardo spaesato lo fece sorridere: sembrava che per lei fosse impensabile tutta quella ostilità, nonostante la folla gridasse con insistenza la sua colpevolezza per quel crimine orrendo definendolo un assassino.
La ragazza distolse lo sguardo, a disagio. Quel modo di guardare; quella luce negli occhi di quell’assassino, così penetranti, così impudenti, così comunicativi...
Aveva colto ciò che quello sguardo voleva comunicarle.
Ingenua. Un giorno ti accorgerai che il mondo non è come sembra.
E la forza con cui quel messaggio era penetrato in lei la turbò.
Era una frase disillusa, di chi è stato segnato da troppe cose.
Ma in lui non sembrava esserci lo sguardo dell’assassino.
Non in quel momento.




*



ANGOLO DELL'AUTRICE

Come forse avrete immaginato, questa storia è totalmente diversa da ciò che ho scritto fin'ora (non che abbia scritto molto, per carità!), e non solo per quanto riguarda lo stile, sicuramente molto più acerbo rispetto a quello attuale. Questo capitolo e il prossimo sono introduttivi, vi avviso, la vera storia inizierà dal terzo capitolo. Ma spero che il gioco saprà valere la candela ;)

Vi ricordo che potete trovarmi su facebook con il mio contatto e nel mio gruppo: mi fa sempre piacere poter scambiare due chiacchiere con voi!

Ci rivedremo giovedì prossimo con il secondo capitolo de La zona rossa, dal titolo Vivere a Rosya. Un saluto,

Brin
   
 
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