Prima di iniziare le
considerazioni pseudo serie, ho un altro piccolo ringraziamento, o scarica
barile per essere più precisi; insomma un grazie a Slits, è colpa sua se ho immaginato
questa cosa, questo possibile risvolto della vita di Law.
Passando alle
questioni serie, non so nemmeno dire come è nata questa storia, è da tanto che è
in fase di scrittura, quindi potrei dire che si è sviluppata su tante cose,
tante canzoni più che altro, che mi hanno aiutato ad immaginarmi tutta la storia
nella testa.
Che dire di questa
storia, è nata un po’ per raccontare l’idea che avevo in mente sul possibile
passato di Law, sui vari viaggi mentali che mi sono fatta sul suo jolly roger
e su quello di Doflamingo, ed ecco
che siamo finiti a questa cosa qua.
È ambientata nel
periodo dei due anni di pausa dei Mugiwara, quando Law decide di aspettare per
partire per il new world, è una mia idea di cosa poteva succedere, una what if
insomma.
Non so che altro dire se non che spero possa piacere almeno un po’.
Grazie a chiunque passerà qua per leggere, e grazie anche di più a chi avrà
voglia di commentare.
Kis. Seiko.
Loyalty
You will fall
on your knees in the face of death.
“Marionetta di
carne e sangue.
Bambola con un
cuore pulsante, una mente imprigionata in un corpo fuori
controllo.
I suoi fili ti
imprigionavano, invisibili tele di ragno ti spingevano secondo i suoi desideri,
per il suo solo piacere.
Cosa provavi a
quel tempo?
Ricordi ancora
il buio intorno a te? L’odore del sangue appena lavato, quel pungente aroma di
ferro a soffocare i tuoi respiri? Quella figura ridere sulla soglia della porta
che avrebbe potuto condurti alla libertà?
Senti ancora
oggi il peso di quelle catene intorno ai polsi, quella presa salda sul tuo
collo? Mezzi superflui, lo divertivano, servivano a ricordarti il tuo posto, a
distruggere l’ultimo barlume di ostilità nel tuo
sguardo.
Uno schiavo, non sei mai stato nulla più di
questo.”
***
Trafalgar Law
non temeva la morte.
Durante il suo lungo viaggio ne aveva fatto una
compagna, una valida alleata con cui combattere i nemici e una tenera rivale
mentre operava. Era una vita in simbiosi, un legame malato prima ancora di
gettarne le basi.
Il loro era un accordo silente, camminavano fianco a
fianco, e il chirurgo spesso dimenticava che anche lui era soggetto a tutte
quelle leggi che regnano nel tempo degli uomini, esaltato fin nel midollo della
sua anima cupa da quella libertà, da quel potere decisionale sulla vita degli
altri, quel dono che solo la nera signora
poteva concedergli.
Ma all’alba
del suo ultimo giorno lo vide chiaramente, il suo tristo mietitore gli aveva
sorriso facendogli dono di una morte tinta di vermiglio.
La prima volta
che aveva posato piede sul viscido terreno dell’arcipelago Sabaody il tanfo di
ipocrisia aveva violato i suoi sensi costringendolo a raccogliere le forze prima
di riprendere il cammino. Casquette gli aveva allungato la katana camminando al
suo fianco.
La prima volta
che aveva visto un drago celeste uccidere uno schiavo troppo stanco per
proseguire aveva osservato i frammenti del suo bicchiere roteare sul legno del
tavolo mentre lo guasto odore di sangue si diffondeva nell’aria. Penguin aveva
passato il resto della giornata ad estrarre schegge di vetro dalla carne
medicandogli la mano.
La prima volta
che aveva visto la casa d’aste era bastato l’imprimersi della vernice nera sulla retina per mettere in ginocchio i
suoi pensieri, mentre la sua mente veniva violata dall’urlo “fedeltà”. Bepo l’aveva stretto in una
ferrea presa riportandolo alla realtà.
Era ormai
passato più di un anno da quelle prime volte, mentre con la katana stretta in
mano lasciava lo sguardo vagare lungo le rovine di un luogo simbolo di
schiavitù. Nessuno era al suo fianco per assaporare quell’effimero soffio di
libertà.
Respirò
quell’aria ancora una volta rigirando la nodachi con la punta delle dita,
saggiandone il peso sulla spalla, pregustando il sangue bastardo che l’avrebbe
macchiata, un sangue che aveva desiderato a lungo. Allungò una mano a
raccogliere un frammento ricordando al tatto la sensazione che aveva provato nel
distruggerlo, quella strana euforia che si prova a liberarsi da un incubo.
Ebbrezza, adrenalina, squilibrio, una miscela letale che aveva sentito scorrere
nelle vene nell’esatto istante in cui le nocche di Mugiwara-ya posavano il loro
stampo indelebile sul viso del nobile. E infine le urla di terrore, il panico
fra la folla, il metallico suono dei passi delle guardie, gli spari, il sipario
si chiude nell’atto finale in attesa che un nuovo dramma apra i suoi occhi
corrotti sul mondo.
Le dita si
piegarono attorno al frammento mostrando la vernice nascosta dal palmo. Il
frammento di un simbolo mai dimenticato,
da lui rovesciato e indossato con arroganza, una fiera sfida al suo più
profondo tormento. Non fu difficile per l’indice ricomporre quel segno nella sua
interezza con volatili tracce nell’aria.
- Non l’hai
dimenticato a quanto pare. Fufufufu. -
Un lungo
brivido lo scosse attraverso le ossa, mentre il flebile sole dell’alba formava
un’evanescente ombra sul terreno umido. La mano scattò rapida, l’elsa della
spada si mosse impercettibilmente facendo cogliere un unico raggio di luce alla
lama, attendeva la battaglia.
Fu più
difficile di quanto avesse mai immaginato voltare lo sguardo e affrontare quel
viso che più di qualunque altra cosa avrebbe voluto dimenticare. Sorrideva.
“Le sue lunghe
dita affusolate sfiorano le tue spalle in una fredda carezza, si fermano vicino
al collo e puoi sentire il ruvido tocco dell’unghia lasciare l’ennesimo segno
sulla tua pelle.
Il suo respiro ti solletica l’orecchio sollevando i capelli
più lunghi, il suo viso è a pochi millimetri dal tuo, la tensione è palpabile,
avvolge l’atmosfera intorno a voi e tremi al solo pensiero di dover
respirare.
- Vuoi vedere
che succede a disobbedire, giocattolino? - ”
Donquijote
Doflamingo, in piedi di fronte a lui, rideva.
Aveva
intravisto la sua figura stagliarsi sul terreno distrutto di Marine Ford, erano
anni che non lo vedeva così vicino, anni che non sentiva la sua voce penetrargli
sotto la pelle.
Si alzò con
arroganza, gettando a terra l’ultimo frammento di muro ancora stretto fra le
dita. In piedi, uno di fronte all’altro, guardò il suo riflesso sulle lenti nere
dell’altro, non c’erano più catene fra loro, nessuna muta condanna a trattenerlo
ancorato al terreno, ora erano due pirati pronti a combattere fino a quando
l’ultima goccia di sangue non si fosse amalgamata al fango sotto i loro piedi.
Eppure fu
sufficiente l’incresparsi lieve dell’espressione sul viso dell’altro per fargli
sentire chiaramente il brivido freddo della paura. Conosceva le capacità di
quell’uomo, le conosceva fin troppo bene per essere abbastanza sciocco da non
temerle.
Lo stava
squadrando, analizzando da capo a piedi, cogliendo i dettagli che al primo
sguardo gli erano sfuggiti.
- Bambini. -
ghignò quasi divertito - Li lasci liberi di giocare per un po’ e si lasciano
subito trascinare dal troppo entusiasmo. -
Avrebbe voluto
parlare, sputare fuori il veleno che sentiva sulla punta della lingua, ma
stringeva i denti trattenendosi dal fare affermazioni che a mente fredda
sarebbero state ridicole. Non sarebbe caduto nella trappola della provocazione,
aveva uno scopo ben preciso quell’incontro e non aveva intenzione di lasciarsi
distrarre. Strinse fra i denti le parole che premevano per uscire, portava con
orgoglio quel simbolo e l’avrebbe dimostrato.
- Non ti ho
chiamato qui per giocare. -
L’altro gli
concesse un lungo sguardo attento, era la curiosità che l’aveva spinto fin lì,
glielo leggeva nel viso, nei muscoli leggermente tesi come pronti ad ascoltare
le sue prossime parole, ma non si sarebbe spiegato con la
voce.
Una risata
trillò nell’aria, acuta e fastidiosa, come una lama fredda che penetra sotto la
pelle sfiorando la carne più sensibile.
- Vuoi uccidermi? -
Le sue labbra
si piegarono a sorriso a quelle parole. Se voleva ucciderlo? No. Desiderava,
bramava ucciderlo. Sognava da tempo di sentire il suo sangue sulle mani, vederlo
bagnare la lama della sua spada, sentire sulla pelle il peso del suo ultimo,
dannato, respiro.
Il silenzio si
protrasse ancora, nessuno dei due apriva bocca; uno attendeva risposta e l’altro
si rifiutava di concederla.
Le dita scivolarono lascivamente lungo
l’impugnatura della katana, mentre gli occhi fissavano le reazioni del biondo;
sentiva chiaramente lo sguardo dell’altro farsi più arcigno al di sotto degli
occhiali. La lama scivolò con calcolata lentezza all’esterno del fodero, le
prime luci del giorno le donarono un bagliore malsano, innaturale, come la posa
rigida del su padrone.
Fu improvviso
ma prevedibile, la mano di Doflamingo si mosse rapida, le dita affusolate si
mostravano in tutta la loro pericolosa maestria; Law sentì chiaramente ogni
singolo muscolo bloccarsi. Era lui a dirigere il gioco ora, con un ghigno
beffardo lo squadrava dall’alto mentre le sue dita lo guidavano in movimenti
involontari, un semplice burattino.
La ricordava
chiaramente quella sensazione, quel formicolio dal sapore malato che seguiva
ogni minimo movimento, quella resistenza inflessibile ad ogni vano tentativo di
liberarsi. Gli dava il voltastomaco riprovare quella tortura, sentire le sue
gambe muoversi superando ogni sua possibile resistenza, piegarsi come lui
desiderava, ai suoi ordini. Un inchino, un fottuto inchino, ecco cosa voleva;
che piegasse umilmente la testa e si rimangiasse ogni attimo vissuto lontano da
lui.
Ghignò, sforzò i muscoli oltre il suo controllo fino a ghignare; non
sarebbe finita come tutte le altre volte, non avrebbe buttato al vento tutti
quegli anni, tutto quel tempo trascorso a preparare quella sola battaglia, la
sua unica possibilità.
Uno sguardo,
un attimo prima che si realizzasse quell’inchino deplorevole, l’haki si
sprigionò come non mai sull’onda della rabbia che gli ribolliva insieme al
sangue. I fili invisibili del burattinaio si spezzarono come una ragnatela arsa
tra le fiamme. Non sarebbe andata secondo i desideri di quel folle, non quel
giorno.
Quello era il
giorno della sua grande battaglia, la sua ultima scommessa, l’ultima puntata
scoccata alle prime luci dell’alba.
“La lama
penetra nel collo con un gesto secco fino a toccare l’osso e farlo stridere,
urla al posto di una persona che non ha più il fiato per farlo, una persona che
ormai sente soltanto il sapore del suo stesso sangue prima di morire. È stato
veloce, al punto che il dolore non è arrivato in tempo per ucciderlo, è stato il
freddo filo di un coltello a farlo, a spegnere la sua vita per
sempre.
Sono le tue
mani a stringerlo quel pugnale, le tue mani a muoverlo, le tue mani a tingersi
di denso rosso. Sono le tue mani, le vedi, le riconosci, le senti pungere e
scaldarsi in quel liquido vermiglio, eppure lo sai, come lo sanno tutti gli
occhi che ti fissano imploranti, guardando oltre te, dietro di te, che non sono veramente tue in
quel momento.
La risata
sferza l’aria, tagliente, crudele, la voce di chi si è goduto quello spettacolo
sin dal primo momento, di chi ha osservato ogni singola goccia di sangue
distinguendola dalle altre nei suoi particolari, dal modo stesso in cui ha
frantumato la sua forma una volta toccato il terreno.
Senti le dita
bruciare nel tentativo di muoversi come tu vuoi, nel desiderio di lasciare
quella presa sull’arma tinta di rosso, distaccarti da quell’esecuzione senza
appello, non sentire quella fredda sensazione tagliarsi un posto all’altezza del
tuo petto mentre raschia via tutto ciò che ti rimane ancora di
umano.
La mano si
alza, la senti sfiorarti la guancia, sporcarti del sangue del tuo compagno,
l’unico su quella dannata nave che ti aveva concesso un’ultima possibilità di
sognare; la speranza che qualcosa poteva cambiare.
Le catene uccidono
l’anima, logorano il corpo e la mente soffoca nel buio di una cella. Loro
potevano capire cosa si provava a vivere così, loro che vivevano a bordo di
quella nave da prima del tuo arrivo, eppure ti hanno reso partecipe delle loro
speranze.
Una
possibilità, l’unica mai concessa, organizzata nell’ombra per anni, perfezionata
nel buio dei loro silenzi, nei loro sguardi che cercavano una cosa sola, un
unico spiraglio verso il cielo, verso il mare che sempre cullava le loro ferite
durante la notte. Un’allucinazione di libertà.
Un’ambizione
troppo grande per degli schiavi, per una bambola come te. Marionette ai suoi
comandi, non eravate nient’altro e avevate osato troppo. Era la sua occasione
per farvi ballare nel suo spettacolo.
Lui non si è
mosso dal suo posto, seduto a godersi la rappresentazione, seduto quasi fosse un
vecchio pomposo alla prima di teatro; non ti stupirebbe vederlo battere le mani
alla fine di quella grottesca “commedia”.
Le tue mani si
muovono nuovamente, solo un attimo il tuo sguardo incontra quello della vittima,
un tempo sufficiente per sentire chiaramente la nausea rivoltarti lo stomaco
mentre le urla ti stordiscono e la lama penetra con maniacale cura a livello del
cuore per sentirne l’ultimo debole battito.
Solo alla
fine, quando l’ultimo sangue è stato versato, solo allora senti i suoi passi
avvicinarsi mentre il tuo sguardo è costretto ad incrociare la sua figura,
rabbrividire di fronte al suo sorriso.
Non ti parla,
si china solo il necessario per sfiorare il viso avvicinando le labbra al tuo
orecchio.
- Questa è la
fedeltà che mi devi. - Un sussurro,
freddo e serpentino, lo senti esplodere come un urlo dentro la tua
testa.
Una condanna
che puzza di eternità, un destino a cui non puoi più sottrarti. Una lotta contro
l’istinto di sopravvivenza del corpo, nessuno vorrebbe vivere un istante di più
in quella realtà.
Senti gli
occhi bruciare, ma non hai nemmeno la forza di piangere, non puoi piangere se
sono le tue mani quelle sporche di sangue. Gli assassini non piangono le loro
vittime.
La lama ti
sfugge dalle mani, libere possono finalmente tremare. Lui la raccoglie al volo,
la stringe fra le dita e ti guarda; osserva la tua espressione vuota e se ne
compiace.
Allunga un dito rosso verso il tuo viso, scivola con maestria
sulle tue labbra. Ti guarda di nuovo e ride. Tu muori dentro e una linea rossa
si piega verso il cielo sulla tua bocca.
- Sorridi burattino. -
”
Il sole era
alto in cielo quel giorno a Sabaody. Soffocava i suoi abitanti col calore dei
suoi raggi troppo accesi per quel periodo dell’anno. A Law il sole non era mai
sembrato così vicino.
Un urlo squarciò l’aria, mentre le bolle
dell’arcipelago tremavano inerti. La spada, la sua spada poteva sentirla mentre
lo tagliava lungo il petto, lacerava il tessuto e penetrava nella carne in un
taglio obliquo.
Tremava la
mano di Doflamingo mentre spingeva quella lama nella carne, mentre denigrava il
simbolo di una libertà fragile, che cercava nel mondo intorno a sé un modo per
affermarsi. Il lungo combattimento aveva avuto i suoi effetti anche su di lui,
le ferite che lo segnavano lungo il corpo ne erano la prova
evidente.
Quella era
stata la sua battaglia, la sua ultima scommessa, la speranza di liberarsi per
sempre di ogni incubo. Una di quelle che si è consapevoli di non poter vincere
ma a cui non si può rinunciare, la battaglia più importante della propria vita.
E lui aveva perso tutto.
Trafalgar Law
non sentiva più niente, ma il sole non gli era mai sembrato così bianco.
Le mani
stringevano ancora la terra con l’erba che ricopriva le dita. Il petto sembrava
in fiamme, così caldo da bruciare anche soltanto a respirare. Il sapore di ferro
sulle labbra, gli occhi fissi verso il cielo. Il sole era sempre più
vicino.
Stava morendo,
lo sentiva dal battito del suo cuore rallentare; rallentava mentre il sangue gli
bagnava la pelle, mentre il dolore delle ferite si fondeva al centro del suo
petto.
La sua spada,
poteva vederla mentre si conficcava nel terreno, ad un respiro dal suo viso. La
risata allucinante di Doflamingo gli esplose in testa un’ultima volta. Tra le
dita sentiva le vibrazioni dei suoi passi, sempre più
lontani.
Era solo. La
luce del sole era accecante.
Rise. Le
labbra bruciavano, la sua intera bocca chiedeva pietà, ma a cosa serviva la
pietà in quel momento? Niente avrebbe ormai potuto salvarlo, si era giocato il
tutto per tutto, e ora stava morendo.
Doflamingo gli
aveva sorriso facendogli dono della sua morte tinta di
vermiglio.
Il sole era
appena esploso.