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Autore: Seiko    02/02/2012    4 recensioni
"Trafalgar Law non temeva la morte.
Ma all’alba del suo ultimo giorno lo vide chiaramente, il suo tristo mietitore gli aveva sorriso facendogli dono di una morte tinta di vermiglio. "

[Doflamingo&Law]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Trafalgar Law | Coppie: Shichibukai/Flotta dei 7
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Ed eccoci qua, finalmente ho il coraggio di pubblicarla; coraggio trovato solo grazie a Ju (lastscream) che ha avuto la pazienza di controllarmela e darmi lo spintone necessario ad uscire dalla paranoia.

Prima di iniziare le considerazioni pseudo serie, ho un altro piccolo ringraziamento, o scarica barile per essere più precisi; insomma un grazie a Slits, è colpa sua se ho immaginato questa cosa, questo possibile risvolto della vita di Law.

Passando alle questioni serie, non so nemmeno dire come è nata questa storia, è da tanto che è in fase di scrittura, quindi potrei dire che si è sviluppata su tante cose, tante canzoni più che altro, che mi hanno aiutato ad immaginarmi tutta la storia nella testa.

Che dire di questa storia, è nata un po’ per raccontare l’idea che avevo in mente sul possibile passato di Law, sui vari viaggi mentali che mi sono fatta sul suo jolly roger e  su quello di Doflamingo, ed ecco che siamo finiti a questa cosa qua.

È ambientata nel periodo dei due anni di pausa dei Mugiwara, quando Law decide di aspettare per partire per il new world, è una mia idea di cosa poteva succedere, una what if insomma.
Non so che altro dire se non che spero possa piacere almeno un po’. Grazie a chiunque passerà qua per leggere, e grazie anche di più a chi avrà voglia di commentare.

Kis. Seiko.

 

 

 

 

 

 

Loyalty

You will fall on your knees in the face of death.

 

 

“Marionetta di carne e sangue.

Bambola con un cuore pulsante, una mente imprigionata in un corpo fuori controllo.

I suoi fili ti imprigionavano, invisibili tele di ragno ti spingevano secondo i suoi desideri, per il suo solo piacere.

Cosa provavi a quel tempo?

Ricordi ancora il buio intorno a te? L’odore del sangue appena lavato, quel pungente aroma di ferro a soffocare i tuoi respiri? Quella figura ridere sulla soglia della porta che avrebbe potuto condurti alla libertà?

Senti ancora oggi il peso di quelle catene intorno ai polsi, quella presa salda sul tuo collo? Mezzi superflui, lo divertivano, servivano a ricordarti il tuo posto, a distruggere l’ultimo barlume di ostilità nel tuo sguardo.

Uno schiavo, non sei mai stato nulla più di questo.”

 

***

 

Trafalgar Law non temeva la morte.
Durante il suo lungo viaggio ne aveva fatto una compagna, una valida alleata con cui combattere i nemici e una tenera rivale mentre operava. Era una vita in simbiosi, un legame malato prima ancora di gettarne le basi.
Il loro era un accordo silente, camminavano fianco a fianco, e il chirurgo spesso dimenticava che anche lui era soggetto a tutte quelle leggi che regnano nel tempo degli uomini, esaltato fin nel midollo della sua anima cupa da quella libertà, da quel potere decisionale sulla vita degli altri, quel dono che solo la nera signora  poteva concedergli.

Ma all’alba del suo ultimo giorno lo vide chiaramente, il suo tristo mietitore gli aveva sorriso facendogli dono di una morte tinta di vermiglio.

 

La prima volta che aveva posato piede sul viscido terreno dell’arcipelago Sabaody il tanfo di ipocrisia aveva violato i suoi sensi costringendolo a raccogliere le forze prima di riprendere il cammino. Casquette gli aveva allungato la katana camminando al suo fianco.

La prima volta che aveva visto un drago celeste uccidere uno schiavo troppo stanco per proseguire aveva osservato i frammenti del suo bicchiere roteare sul legno del tavolo mentre lo guasto odore di sangue si diffondeva nell’aria. Penguin aveva passato il resto della giornata ad estrarre schegge di vetro dalla carne medicandogli la mano.

La prima volta che aveva visto la casa d’aste era bastato l’imprimersi della vernice nera  sulla retina per mettere in ginocchio i suoi pensieri, mentre la sua mente veniva violata dall’urlo “fedeltà”. Bepo l’aveva stretto in una ferrea presa riportandolo alla realtà.

Era ormai passato più di un anno da quelle prime volte, mentre con la katana stretta in mano lasciava lo sguardo vagare lungo le rovine di un luogo simbolo di schiavitù. Nessuno era al suo fianco per assaporare quell’effimero soffio di libertà.

Respirò quell’aria ancora una volta rigirando la nodachi con la punta delle dita, saggiandone il peso sulla spalla, pregustando il sangue bastardo che l’avrebbe macchiata, un sangue che aveva desiderato a lungo. Allungò una mano a raccogliere un frammento ricordando al tatto la sensazione che aveva provato nel distruggerlo, quella strana euforia che si prova a liberarsi da un incubo. Ebbrezza, adrenalina, squilibrio, una miscela letale che aveva sentito scorrere nelle vene nell’esatto istante in cui le nocche di Mugiwara-ya posavano il loro stampo indelebile sul viso del nobile. E infine le urla di terrore, il panico fra la folla, il metallico suono dei passi delle guardie, gli spari, il sipario si chiude nell’atto finale in attesa che un nuovo dramma apra i suoi occhi corrotti sul mondo.

Le dita si piegarono attorno al frammento mostrando la vernice nascosta dal palmo. Il frammento di un simbolo mai dimenticato,  da lui rovesciato e indossato con arroganza, una fiera sfida al suo più profondo tormento. Non fu difficile per l’indice ricomporre quel segno nella sua interezza con volatili tracce nell’aria.

- Non l’hai dimenticato a quanto pare. Fufufufu.  -

Un lungo brivido lo scosse attraverso le ossa, mentre il flebile sole dell’alba formava un’evanescente ombra sul terreno umido. La mano scattò rapida, l’elsa della spada si mosse impercettibilmente facendo cogliere un unico raggio di luce alla lama, attendeva la battaglia.

Fu più difficile di quanto avesse mai immaginato voltare lo sguardo e affrontare quel viso che più di qualunque altra cosa avrebbe voluto dimenticare. Sorrideva.

 

“Le sue lunghe dita affusolate sfiorano le tue spalle in una fredda carezza, si fermano vicino al collo e puoi sentire il ruvido tocco dell’unghia lasciare l’ennesimo segno sulla tua pelle.
Il suo respiro ti solletica l’orecchio sollevando i capelli più lunghi, il suo viso è a pochi millimetri dal tuo, la tensione è palpabile, avvolge l’atmosfera intorno a voi e tremi al solo pensiero di dover respirare.

- Vuoi vedere che succede a disobbedire, giocattolino? - ”

 

Donquijote Doflamingo, in piedi di fronte a lui, rideva.

Aveva intravisto la sua figura stagliarsi sul terreno distrutto di Marine Ford, erano anni che non lo vedeva così vicino, anni che non sentiva la sua voce penetrargli sotto la pelle.

Si alzò con arroganza, gettando a terra l’ultimo frammento di muro ancora stretto fra le dita. In piedi, uno di fronte all’altro, guardò il suo riflesso sulle lenti nere dell’altro, non c’erano più catene fra loro, nessuna muta condanna a trattenerlo ancorato al terreno, ora erano due pirati pronti a combattere fino a quando l’ultima goccia di sangue non si fosse amalgamata al fango sotto i loro piedi.

Eppure fu sufficiente l’incresparsi lieve dell’espressione sul viso dell’altro per fargli sentire chiaramente il brivido freddo della paura. Conosceva le capacità di quell’uomo, le conosceva fin troppo bene per essere abbastanza sciocco da non temerle.

Lo stava squadrando, analizzando da capo a piedi, cogliendo i dettagli che al primo sguardo gli erano sfuggiti.

- Bambini. - ghignò quasi divertito - Li lasci liberi di giocare per un po’ e si lasciano subito trascinare dal troppo entusiasmo. -

Avrebbe voluto parlare, sputare fuori il veleno che sentiva sulla punta della lingua, ma stringeva i denti trattenendosi dal fare affermazioni che a mente fredda sarebbero state ridicole. Non sarebbe caduto nella trappola della provocazione, aveva uno scopo ben preciso quell’incontro e non aveva intenzione di lasciarsi distrarre. Strinse fra i denti le parole che premevano per uscire, portava con orgoglio quel simbolo e l’avrebbe dimostrato.

- Non ti ho chiamato qui per giocare. -

L’altro gli concesse un lungo sguardo attento, era la curiosità che l’aveva spinto fin lì, glielo leggeva nel viso, nei muscoli leggermente tesi come pronti ad ascoltare le sue prossime parole, ma non si sarebbe spiegato con la voce.

Una risata trillò nell’aria, acuta e fastidiosa, come una lama fredda che penetra sotto la pelle sfiorando la carne più sensibile.

- Vuoi uccidermi? -

Le sue labbra si piegarono a sorriso a quelle parole. Se voleva ucciderlo? No. Desiderava, bramava ucciderlo. Sognava da tempo di sentire il suo sangue sulle mani, vederlo bagnare la lama della sua spada, sentire sulla pelle il peso del suo ultimo, dannato, respiro.

Il silenzio si protrasse ancora, nessuno dei due apriva bocca; uno attendeva risposta e l’altro si rifiutava di concederla.
Le dita scivolarono lascivamente lungo l’impugnatura della katana, mentre gli occhi fissavano le reazioni del biondo; sentiva chiaramente lo sguardo dell’altro farsi più arcigno al di sotto degli occhiali. La lama scivolò con calcolata lentezza all’esterno del fodero, le prime luci del giorno le donarono un bagliore malsano, innaturale, come la posa rigida del su padrone.

Fu improvviso ma prevedibile, la mano di Doflamingo si mosse rapida, le dita affusolate si mostravano in tutta la loro pericolosa maestria; Law sentì chiaramente ogni singolo muscolo bloccarsi. Era lui a dirigere il gioco ora, con un ghigno beffardo lo squadrava dall’alto mentre le sue dita lo guidavano in movimenti involontari, un semplice burattino.

La ricordava chiaramente quella sensazione, quel formicolio dal sapore malato che seguiva ogni minimo movimento, quella resistenza inflessibile ad ogni vano tentativo di liberarsi. Gli dava il voltastomaco riprovare quella tortura, sentire le sue gambe muoversi superando ogni sua possibile resistenza, piegarsi come lui desiderava, ai suoi ordini. Un inchino, un fottuto inchino, ecco cosa voleva; che piegasse umilmente la testa e si rimangiasse ogni attimo vissuto lontano da lui.
Ghignò, sforzò i muscoli oltre il suo controllo fino a ghignare; non sarebbe finita come tutte le altre volte, non avrebbe buttato al vento tutti quegli anni, tutto quel tempo trascorso a preparare quella sola battaglia, la sua unica possibilità.

Uno sguardo, un attimo prima che si realizzasse quell’inchino deplorevole, l’haki si sprigionò come non mai sull’onda della rabbia che gli ribolliva insieme al sangue. I fili invisibili del burattinaio si spezzarono come una ragnatela arsa tra le fiamme. Non sarebbe andata secondo i desideri di quel folle, non quel giorno.

Quello era il giorno della sua grande battaglia, la sua ultima scommessa, l’ultima puntata scoccata alle prime luci dell’alba.

 

“La lama penetra nel collo con un gesto secco fino a toccare l’osso e farlo stridere, urla al posto di una persona che non ha più il fiato per farlo, una persona che ormai sente soltanto il sapore del suo stesso sangue prima di morire. È stato veloce, al punto che il dolore non è arrivato in tempo per ucciderlo, è stato il freddo filo di un coltello a farlo, a spegnere la sua vita per sempre.

Sono le tue mani a stringerlo quel pugnale, le tue mani a muoverlo, le tue mani a tingersi di denso rosso. Sono le tue mani, le vedi, le riconosci, le senti pungere e scaldarsi in quel liquido vermiglio, eppure lo sai, come lo sanno tutti gli occhi che ti fissano imploranti, guardando oltre te, dietro di te, che non sono veramente tue in quel momento.

La risata sferza l’aria, tagliente, crudele, la voce di chi si è goduto quello spettacolo sin dal primo momento, di chi ha osservato ogni singola goccia di sangue distinguendola dalle altre nei suoi particolari, dal modo stesso in cui ha frantumato la sua forma una volta toccato il terreno.

Senti le dita bruciare nel tentativo di muoversi come tu vuoi, nel desiderio di lasciare quella presa sull’arma tinta di rosso, distaccarti da quell’esecuzione senza appello, non sentire quella fredda sensazione tagliarsi un posto all’altezza del tuo petto mentre raschia via tutto ciò che ti rimane ancora di umano.

La mano si alza, la senti sfiorarti la guancia, sporcarti del sangue del tuo compagno, l’unico su quella dannata nave che ti aveva concesso un’ultima possibilità di sognare; la speranza che qualcosa poteva cambiare.
Le catene uccidono l’anima, logorano il corpo e la mente soffoca nel buio di una cella. Loro potevano capire cosa si provava a vivere così, loro che vivevano a bordo di quella nave da prima del tuo arrivo, eppure ti hanno reso partecipe delle loro speranze.

Una possibilità, l’unica mai concessa, organizzata nell’ombra per anni, perfezionata nel buio dei loro silenzi, nei loro sguardi che cercavano una cosa sola, un unico spiraglio verso il cielo, verso il mare che sempre cullava le loro ferite durante la notte. Un’allucinazione di libertà.

Un’ambizione troppo grande per degli schiavi, per una bambola come te. Marionette ai suoi comandi, non eravate nient’altro e avevate osato troppo. Era la sua occasione per farvi ballare nel suo spettacolo.

Lui non si è mosso dal suo posto, seduto a godersi la rappresentazione, seduto quasi fosse un vecchio pomposo alla prima di teatro; non ti stupirebbe vederlo battere le mani alla fine di quella grottesca “commedia”.

Le tue mani si muovono nuovamente, solo un attimo il tuo sguardo incontra quello della vittima, un tempo sufficiente per sentire chiaramente la nausea rivoltarti lo stomaco mentre le urla ti stordiscono e la lama penetra con maniacale cura a livello del cuore per sentirne l’ultimo debole battito.

Solo alla fine, quando l’ultimo sangue è stato versato, solo allora senti i suoi passi avvicinarsi mentre il tuo sguardo è costretto ad incrociare la sua figura, rabbrividire di fronte al suo sorriso.

Non ti parla, si china solo il necessario per sfiorare il viso avvicinando le labbra al tuo orecchio.

- Questa è la fedeltà che mi devi. - Un sussurro, freddo e serpentino, lo senti esplodere come un urlo dentro la tua testa.

Una condanna che puzza di eternità, un destino a cui non puoi più sottrarti. Una lotta contro l’istinto di sopravvivenza del corpo, nessuno vorrebbe vivere un istante di più in quella realtà.

Senti gli occhi bruciare, ma non hai nemmeno la forza di piangere, non puoi piangere se sono le tue mani quelle sporche di sangue. Gli assassini non piangono le loro vittime.

La lama ti sfugge dalle mani, libere possono finalmente tremare. Lui la raccoglie al volo, la stringe fra le dita e ti guarda; osserva la tua espressione vuota e se ne compiace.
Allunga un dito rosso verso il tuo viso, scivola con maestria sulle tue labbra. Ti guarda di nuovo e ride. Tu muori dentro e una linea rossa si piega verso il cielo sulla tua bocca.

- Sorridi burattino. - ”

 

Il sole era alto in cielo quel giorno a Sabaody. Soffocava i suoi abitanti col calore dei suoi raggi troppo accesi per quel periodo dell’anno. A Law il sole non era mai sembrato così vicino.
Un urlo squarciò l’aria, mentre le bolle dell’arcipelago tremavano inerti. La spada, la sua spada poteva sentirla mentre lo tagliava lungo il petto, lacerava il tessuto e penetrava nella carne in un taglio obliquo.

Tremava la mano di Doflamingo mentre spingeva quella lama nella carne, mentre denigrava il simbolo di una libertà fragile, che cercava nel mondo intorno a sé un modo per affermarsi. Il lungo combattimento aveva avuto i suoi effetti anche su di lui, le ferite che lo segnavano lungo il corpo ne erano la prova evidente.

Quella era stata la sua battaglia, la sua ultima scommessa, la speranza di liberarsi per sempre di ogni incubo. Una di quelle che si è consapevoli di non poter vincere ma a cui non si può rinunciare, la battaglia più importante della propria vita. E lui aveva perso tutto.

Trafalgar Law non sentiva più niente, ma il sole non gli era mai sembrato così bianco.

Le mani stringevano ancora la terra con l’erba che ricopriva le dita. Il petto sembrava in fiamme, così caldo da bruciare anche soltanto a respirare. Il sapore di ferro sulle labbra, gli occhi fissi verso il cielo. Il sole era sempre più vicino.

Stava morendo, lo sentiva dal battito del suo cuore rallentare; rallentava mentre il sangue gli bagnava la pelle, mentre il dolore delle ferite si fondeva al centro del suo petto.

La sua spada, poteva vederla mentre si conficcava nel terreno, ad un respiro dal suo viso. La risata allucinante di Doflamingo gli esplose in testa un’ultima volta. Tra le dita sentiva le vibrazioni dei suoi passi, sempre più lontani.

Era solo. La luce del sole era accecante.

Rise. Le labbra bruciavano, la sua intera bocca chiedeva pietà, ma a cosa serviva la pietà in quel momento? Niente avrebbe ormai potuto salvarlo, si era giocato il tutto per tutto, e ora stava morendo.

Doflamingo gli aveva sorriso facendogli dono della sua morte tinta di vermiglio.

Il sole era appena esploso.

   
 
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