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Autore: Laleith    03/02/2012    3 recensioni
Un palazzo riapre le sue porte ad un mondo in cui i vivi si fingono morti e i morti vivi.
Dal testo:
Quelli, quegli occhi, erano la vita che per tanto tempo era rimasta celata al grande Palazzo.
Quella donna sembrava incarnare perfettamente l’ossimoro che era la Russia. Era ghiaccio bollente.
« Tu non dovresti essere qui. »

Storia partecipante al contest Il Morso del Vampiro.
Genere: Angst, Mistero, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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-Autore : Laleith
-Titolo : Oksyumoron.
-Pacchetto/ o Prompt : IV- Russia
-Rating : Arancione
-Avvertimenti : Lime
-Introduzione: Un palazzo riapre le sue porte ad un mondo in cui i vivi si fingono morti e i morti vivi.

Dal testo:

Quelli, quegli occhi, erano la vita che per tanto tempo era rimasta celata al grande Palazzo.

Quella donna sembrava incarnare perfettamente l’ossimoro che era la Russia. Era ghiaccio bollente.

« Tu non dovresti essere qui. »


-Note dell’Autore: N.d.A.

 

 

 

Oksyumoron.

Erano anni che quei corridoi non vedevano la vita.

Marmo e oro ovunque. La lucentezza di quei materiali era quasi fastidiosa, mentre il vociare civettuolo di donne facoltose riempiva l’aria di parole vuote.

Come gli occhi di quei servi, improvvisati camerieri.

Il Palazzo d’Inverno era sempre stato una sfida per gli zar.

San Pietroburgo non era mai stata una delle città adatte alla famiglia imperiale. Malviventi e lupi non erano vicini adatti allo sfarzo reale. Affatto. I vetri rotti e le serve ferite ne erano stati la prova.

Era stato semplice decidere di abbandonare la città al suo destino, rendendo vani i pochi tentativi della Famiglia di stabilirsi in quel freddo luogo ghiacciato.

Gli anni erano passati: i servi, abbandonati a loro stessi, erano impazziti. Non una casa, non un pasto caldo. Le finestre sbarrate, le porte bloccate. Solo quelle mura verdi e bianche, impenetrabili. Non era restato che morire.

Ma poi, a prendersi beffe delle vite di chi aveva perso tutto, erano ricomparsi.

Come se quella città non sperasse in altro che nel loro ritorno. Avevano aperto le porte, le finestre, reclutato anime senza speranza e aspirazioni. E ora eccoli lì, a ostentare sfarzo e lusso, in quel mondo schifosamente bianco, dall’aspetto puro, ma che poggiava le fondamenta sul sangue. Sangue gelato nell’attesa che una di quelle finestre crollasse, che una porta si aprisse.

Nelle vesti pulite della servitù, Alexander osservava con distacco i volti di chi lo sorpassava senza notarlo, come se si fosse trattato di una statua di terza classe, non abbastanza bella da meritare attenzione, né per suscitare sdegno negli animi dal senso estetico più fine.

Eppure non era difficile distinguerlo. Gli occhi neri del ragazzo facevano a gara con il luccichio delle decorazioni dorate. Quelli, quegli occhi, erano la vita che per tanto tempo era rimasta celata al grande Palazzo.

Lo sguardo di Alexander si abbassò, di fronte all’ennesimo volto indifferente, rincorrendo gli intricati disegni del pavimento. Stava per perdersi in quei motivi, quando una grande gonna bianca entrò nella sua visuale, coprendo la sua distrazione. Risalì la stoffa pregiata, perdendosi per un attimo nel corpetto troppo stretto della giovane donna che lo indossava. La pelle di questa sembrava un tutt’uno con quel candore che nascondeva e lasciava immaginare. Le labbra, di un rosso sorprendente, erano appena arricciate in un sorriso scettico, come le sopracciglia arcuate lasciavano intuire, sebbene una chioma rossa sembrasse nasconderle. Quella donna sembrava incarnare perfettamente l’ossimoro che era la Russia. Era ghiaccio bollente.

« Tu non dovresti essere qui. »

Il velluto della sua voce lo riscosse, mentre si rendeva conto che il brusio delle donne era scomparso per un breve, intenso, attimo.

« Temo di non aver compreso. », rispose dopo qualche attimo di smarrimento.

« Tu non dovresti essere qui. », ripeté come se fosse stata la cosa più ovvia del mondo.

« E dove dovrei essere, mia Signora? »

« In mezzo ai vivi. »

Il ragazzo allargò leggermente gli occhi, mentre la ragazza sistemava il tessuto sulle sue gambe.

« Non rispondere che lo sei già, perché si vede che non lo pensi. », aggiunse prima che Alexander potesse anche solo pensare di continuare quella conversazione.

« Mia Signora, vorrei poterle riferire quello che davvero penso, ma non sono autorizzato a farlo. Pensare non mi è concesso. »

« Peccato. Neanche a me. Donna.», aggiunse con una scrollata di spalle. Alexander la osservò affascinato.  Era come se ogni gesto della ragazza fosse un incantesimo che escludeva il mondo: la testa diventava leggera, la stanza indefinita, le voci inconsistenti.

Alexander chiuse gli occhi, un solo attimo e, quando li riaprì, lei era già pronta a varcare la porta che lui affiancava.

« Lucinda. », si presentò porgendo la mano guantata fino al gomito.

Non seppe secondo quale strana reazione lo fece, ma avvolse il palmo di lei in una stretta delicata, portandolo poi alle labbra e presentandosi.

Un lampo di soddisfazione attraversò gli occhi castani della dama, mentre con un gesto di estrema pudicizia ritraeva la mano e varcava la porta della sala da ballo.

Gli invitati si trovavano già al suo interno, pronti al discorso di benvenuto della Zarina Anna. Un augurio per la nuova capitale della Russia, improvvisamente pronta per risollevarsi.

Alexander lasciò la sua postazione all’ingresso per mischiarsi alla folla di camerieri che dovevano servire e riverire i ricchi ospiti.

Dovette mordersi le labbra più volte, a sangue, per evitare di pensare.

Fu proprio mentre tentava di mantenere una maschera imperturbabile di fronte all’ennesima fonte di fastidio, che intravide una chioma rossa lasciare furtivamente la sala. Quella strana sensazione di leggerezza lo avvolse nuovamente e, senza accorgersene, si ritrovò a seguire quella gonna bianca che giocava dietro le porte.

Dopo l’ennesima corsa per scorgerla di nuovo, si bloccò al centro di una sala illuminata solo da un camino di marmo acceso. Le fiamme creavano ombre dall’aspetto inquietante sulle pareti ricoperte di libri. Non se ne curò, raggiungendo Lucinda alle spalle.

« Mi annoiavo. »

La semplicità con cui pronunciò quelle parole risvegliò Alexander da quel sogno a occhi aperti.

Provò l’impulso di allontanarsi di un passo, notando la troppa vicinanza, ma non lo fece.

La ragazza continuò a dargli le spalle, osservando con interesse le fiamme. Affascinata da esse, non sembrava accorgersi di aver affascinato lui.

Il profumo di miele gli entrò nel naso e compiere un passo verso quella pelle fu quasi d’obbligo. Immerse il viso in quei capelli ramati, avvolgendole un braccio attorno alla vita. La sentì ridere, mentre con la mano andava a cingergli il collo.

« Ti è permesso pensare, adesso? »

« Se avessi pensato, non avrei mai osato metterle le mani addosso, mia Signora. »

« Lucinda, Alexander. Chiamami Lucinda. »

Alexander iniziava a credere che quel nome fosse magico. Mentre sfiorava, provocatrice delicata, i suoi capelli, aveva sentito la sua anima tremare a quel nome. Eccitata. Spaventata. Forse entrambe.

« Perché non dovrei essere qui, Lucinda? », chiese stringendosela contro. Poteva essere una donna tanto fredda e calda al tempo stesso? Come ghiaccio bollente.

« Perché sei vivo. »

« Anche gli altri lo sono. »

« No… Tu sei vivo. »

« … Ed è un bene? »

Artigliò il corpetto con mani da predatore, lottando con se stesso per non mancarle di rispetto. Inspirò profondamente il miele dei suoi capelli, mentre il corpo glacialmente bollente di lei sembrava l’unica cosa viva oltre a lui.

« Non lo è, Lucinda. Sono sempre stato vivo tra i morti, finché non ho dovuto fingere di essere come loro. Ma sai quanto sia difficile sembrare esanime quando avverti ogni muscolo lottare per vivere? »

La fece improvvisamente voltare verso di sé, affondando entrambe le mani nei suoi capelli e avvicinandola sempre di più. Lucinda fissava lussuriosa le sue labbra. Le stesse che mostravano i segni sanguinanti dei suoi denti.

« Troppa vita. »

Con i suoi di denti, la ragazza sfilò il guanto, lasciandolo ricadere sul tappeto.

« Tu sai quanto è dura fingersi vivi…»

Carezzò col pollice i solchi ancora sanguinanti sulle sue labbra, sporcando il proprio dito.

«… quando si è morti?»

Con un gesto fulmineo portò le gocce di sangue alla lingua e le gustò.

Sotto lo sguardo assottigliato di Alexander, Lucinda chiuse gli occhi. Quando li riaprì, occhi affamati lo fissavano.

Con una forza inaspettata, lo fece volare fin sopra il divano dietro di lui. Con una velocità sorprendente, lo sovrastò sedendosi su di lui.

Non urlava Alexander. Non chiedeva pietà.

Le artigliò, invece, le gambe fredde, rafforzando la presa quando lei leccò i canini scintillanti.

La guardò fisso. Un invito a rendersi viva mentre inclinava la testa, lasciando che il colletto della camicia non celasse la sua vena più pulsante.

« Peccato che tu abbia questo fantastico odore di vita…»

Il naso freddo della ragazza carezzò tutta la pelle che partiva dall’orecchio e arrivava alla clavicola, facendolo rabbrividire calorosamente. Come se fosse stata ghiaccio bollente.

«… sarebbe stato bello trasformarti in un morto che si finge vivo.»

Alexander non le rispose. Tutta la sua vita stava già raggiungendo la lingua bramosa di lei, come a provare che la vita, prima o poi, viene strappata via da un essere senza anima.

   
 
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