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Autore: Nidham    03/02/2012    2 recensioni
Non sempre la comparsa repentina e inspiegabile di un Circo viene avvertita come fonte di gioia. A volte, quel mondo surreale ed estraneo, suscita domande e paure...soprattutto se è legato a vecchie storie di disincanto e malinconia.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Soltanto la sera prima quei campi erano stati infestati dai topi e torturati dal fango, uno squallido angolo di terra in mezzo ad ancor più squallide mura di pietra grezza e malta logorata.

Il caos informe e tempestoso delle strade, le urla di bambini, il vociare delle donne, tutto sembrava inghiottito da quella palude posticcia, nata a memoria della morte di una campagna ormai soffocata nell'abbraccio opprimente di quel sobborgo cresciuto troppo in fretta.

C'era una pace strana e cupa nell'avvicinarsi a quel simulacro di tempi passati, un presagio di ineluttabilità che spaventava e attraeva i pochi sfortunati, o sciocchi, che si ostinavano a circumnavigare quel pantano, per guadagnare pochi minuti di vantaggio nella corsa verso la quotidianità.

Ogni mattina sapeva di trovarlo ad accoglierla ed ogni tramonto a sussurrarle la buonanotte.

Ma in quell'alba fumosa niente era più come avrebbe dovuto essere.

Il fango era sparito, insieme ad ogni povera forma di vita l'avesse abitato.

L'odore di rancido e melma si era dissolto al primo avanzare del Sole.

Il ricordo aveva lasciato spazio ad una sospensione, un barlume di speranza o inganno che si era innalzato sulla scialba realtà di quel mondo abbandonato.

Lo conosceva. Riconosceva quei colori e quel silenzio, anche se non li aveva mai visti prima.

Un circo, la parabola della vita, era nato su quella ferita nel fianco della città, rapido come la malattia e silenzioso come la morte.

Una sola notte e tutto era mutato, senza mutare davvero.

Una cancellata elegante e un po' bizzarra chiudeva l'area in un abbraccio di ferro pesante, solido come la presa di una madre e altrettanto delicato.

Al di là, cupole di stoffa pregiata e sentieri ordinati avevano preso il posto del disordine e del pattume.

Un circo, la massima espressione di gioia e follia, sorgeva superbo e immobile, come una fiera pronta a colpire.

Non c'erano colori vivaci, non c'era rumore, non c'era allegria. Solo attesa e desiderio, promesse fugaci e inganni di felicità futura.

Mentre rimaneva inebetita a fissare, da oltre le sbarre, quel regno surreale, un brivido le percorse la schiena.

Conosceva quel bianco e quei neri. Conosceva il cartello sulla sommità dell'entrata. Avvertiva il ticchettare costante dell'orologio che, istintivamente, si era uniformato al battito del suo cuore.

Sua madre le aveva parlato di un mondo simile fin da quando riuscisse a ricordare e, nel racconto, i suoi occhi avevano sempre assunto una luce febbrile di rimpianto e follia, che l'aveva spaventata e rapita, costretta a desiderare e temere di perdersi nella stessa illusione.

Quel circo aveva già visitato la città, pochi mesi prima della sua nascita e aveva regalato ai fortunati spettatori divertimenti inimmaginabili, spettacoli mirabolanti e una fuga pericolosa da se stessi.

Ogni volta che sua madre si perdeva nel narrarle le meraviglie di quel luogo incantato, sua nonna scuoteva la testa, senza alzare gli occhi dal lavoro di cucito, e poi la prendeva da parte, mettendola in guardia dal credere nelle favole, almeno in quelle che promettono gioia, senza, però, insegnarti come vivere la vita. E lei annuiva, seria e coscienziosa, ben sapendo quali sacrifici avesse dovuto sopportare quella vecchia, dolce signora per badare ad una figlia fatua e debole, sempre pronta a perdersi nell'ennesima bugia, nonché al frutto che l'ultimo inganno le aveva regalato.

Ma adesso la favola era lì, reale davanti ai suoi occhi. Forse più triste di quanto non avesse immaginato, ma brillante nella prepotenza dei suoi colori assoluti. Nessuna seta dorata o cremisi avrebbe saputo catturare con tanta forza l'attenzione dei passanti, nessun verde cupo o turchese vivace avrebbe saputo creare altrettanto bene un'illusione di realtà.

La folla che mai aveva invaso quello spazio, quando non era altro che un banale pantano maleodorante, si stava adesso accalcando contro la cancellata, spingendo e spintonando, ansiosa di sbirciare oltre la recinzione, assetata di qualsiasi emozione potesse regalarle quell'inaspettato miracolo, pronta a donare parte del proprio essere in cambio dell'ignoto.

Era ancora troppo presto perché l'incanto avesse inizio, la luce era troppo forte e la realtà troppo pressante, ma, prima del tramonto, tutti, in città, avrebbero saputo dell'arrivo del circo e si sarebbero tenuti pronti ad accorrere, lieti e festanti, come bambini la vigilia di Natale.

Non avrebbe fatto differenza che non ci fossero striscioni ad invadere le strade, non sarebbero serviti annunci o banali volantini.

Il circo avrebbe attirato a sé le sue prede con elegante maestria, riempiendosi le fauci con nuovi sogni prelibati.

E avrebbe attirato anche lei, che adesso rimaneva lì, eretta e immobile, sentendo vacillare, per la prima volta nella sua breve vita, la propria determinazione e il proprio coraggio.

Mentre volti indistinti la circondavano e la strattonavano, pregò ardentemente che tutto tornasse al proprio posto, come ogni mattina, quando avanzava da sola nello squallore della realtà e poteva affermare con assoluta certezza di essere viva.

Eppure qualcosa, in quell'inganno, la chiamava con voce imperiosa e suadente, la portava a desiderare di non allontanarsi, di aspettare che quei cancelli fantasiosi si aprissero e le donassero ciò di cui mai aveva sospettato di aver bisogno.

Non avrebbe saputo dire quanto a lungo fosse rimasta sospesa a fissare i fantasmi di una futura, breve realtà. Sapeva solo che costringersi a distogliere lo sguardo le avrebbe spezzato il cuore e dilaniato la mente.

Al di là della recinzione c'era tutto ciò che contava davvero, se ne convinceva di più per ogni secondo che passava. Se avesse lasciato quel luogo, altri avrebbero preso il suo posto e forse non sarebbe più riuscita a trovar spazio nel sogno, condannandosi a mendicare le briciole di felicità da quanti fossero stati tanto furbi da abbuffarsene.

Di certo non era saggio o sensato. L'istinto le diceva di fuggire, di voltarsi e correre a casa, da sua nonna, dal calore confortante di un fuoco misero e concreto, per piangere fino a non aver più lacrime la perdita di ciò che non aveva mai avuto.

Un bambino gridò alle sue spalle, un trillo argentino di entusiasmo, cui subito fece seguito la dolce promessa della madre.

Tutti avevano diritto di sognare. Tutti avrebbero dovuto, almeno una volta nella vita, godere della confortante carezza del niente.

Perché, per lei, avrebbe dovuto essere diverso? Cosa contavano le amorevoli raccomandazioni di chi, per anni, l'aveva accudita e sostenuta? Cosa importava aver visto negli occhi e sul volto di sua madre i segni che l'illusione vi aveva scavato?

Era soltanto un attimo, un battito di ciglia. Non si sarebbe fatta catturare, non per più di un respiro, nel buio della notte.

Strinse forte le sbarre di ferro, sentendole fredde e lisce sotto la sua mano.

Aguzzando la vista riusciva quasi ad intravedere delle ombre, al di là del velo creato dai tendoni; un movimento indistinto di danze e capriole.

C'era vita, dunque, in quel silenzio. Furtiva e misteriosa, ma non irraggiungibile.

L'oscurità sarebbe scesa presto a consegnare i doni promessi e, questa volta, non si sarebbe tirata indietro, né per paura, né per coraggio. Avrebbe allungato la mano e si sarebbe presa quanto meritava, almeno per un po', per il tempo di un sogno.

E se poi quel luogo fosse tornato ad essere la palude che era, non avrebbe rimpianto l'elegante bellezza di ciò in cui, per pochi istanti, si era trasformato.

  
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