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Autore: Umiko_chan    04/02/2012    4 recensioni
Non avrebbe lasciato solo quel piccolo che tanto le ricordava il suo amato detective. Per nessuna ragione al mondo.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Ran Mori, Shinichi Kudo/Conan Edogawa | Coppie: Ran Mori/Shinichi Kudo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il vento sferzava i capelli del piccolo detective, piccole gocce di pioggia gli rigavano il viso mentre arrancava verso casa Agasa. Si sentiva debole come non era mai stato, troppo stanco per andare o avanti o per tornare indietro. Non sapeva nemmeno lui come riusciva a proseguire: forse era qualcosa di divino, forse il semplice pensiero che lei era lì che lo aspettava.
Sì, probabilmente era l'unico valido motivo per continuare a camminare, per sopportare quel dolore atroce. Avanzava con fatica verso una meta lontana e irraggiungibile. Procedeva, ma il dolore si faceva sempre più acuto e insopportabile. Si appoggiò al muro ruvido che correva al lato della strada in cerca di un appoggio solido e reale. Cercò di riprendere fiato e di rallentare - il suo cuore che non avrebbe sopportato a lungo quello sforzo -, senza grandi risultati. Si allontanò dalla parete fredda e proseguì il suo viaggio senza tanti complimenti.
Non l’avrebbe lasciata sola ancora una volta. Era scomparso per due anni e il solo modo per colmare quell’assenza erano le poche telefonate che le faceva ed in cui parlava solo di se stesso, per evitare che gli facesse domande strane. Era per il suo bene che continuava a fingere, lui, il paladino della verità e della giustizia, ma si sentiva comunque un verme. Soprattutto quando la vedeva piangere: il capitano della squadra di karate della Teitan High School che piangeva per un “fantasma”, un ragazzo che aveva abbandonato la sua migliore amica per inseguire la sua passione per i misteri.
Ma Ran non era solo “la sua migliore amica”. Era molto di più. Probabilmente l’aveva sempre saputo, ma era dovuto diventare un bimbo di sette anni per comprenderlo appieno. A quel pensiero il piccolo Conan si lasciò sfuggire un sorriso malinconico. Un passo dopo l’altro si faceva strada la consapevolezza che la meta era più vicina. Ma i passi da fare erano tanti, troppi per il piccolo detective agonizzante. Inciampò nei vestiti troppo grandi per quel corpicino infantile, vestiti da diciassettenne, e cadde. Un gemito gli sfuggì dalla piccola bocca, da cui spuntava un rivolo di sangue color rubino. Non trovava nemmeno la forza per tirarsi su.
Rimase sdraiato così com’era caduto, la faccia contro l’asfalto freddo e nient’altro. La pioggia continuava a cadere beffarda, come volesse prendersi gioco quel bambino che lottava contro il mondo intero.
Ran…
Si alzò a fatica, pieno di graffi e lividi derivati da quell’ultimo capitombolo. Niente e nessuno l’avrebbe fermato. Se fosse stato per la sua testardaggine altro che arrancare, avrebbe persino potuto volare. Ma c’era quel dolore insopportabile che gli stringeva il cuore come una morsa. Quel proiettile vagante aveva colpito Shinichi in pieno petto ed era Conan che doveva tentare di trovare un appiglio per salvarsi. Non sapeva nemmeno lui come potesse essere ancora vivo. Sarebbe dovuto morire sul colpo e invece eccolo lì a sperare. Perché non poteva fare altro, in fondo. Poteva solo sperare di poter vivere giusto il tempo per raccontare a Ran la verità. Ma sembrava un’impresa impossibile, quasi un’utopia. Non poteva pensare altro mentre la mano che gli stringeva il petto si tingeva di rosso, prontamente ripulita dalla pioggia.
Le forze iniziarono a mancare: sentiva le gambe pesanti ed era bagnato fradicio. Eppure continuava a camminare sotto la pioggia battente, senza un lamento. Si mordeva il labbro per non urlare, ma sopportare stava diventando impossibile. La testa iniziò a girare e Conan dovette cercare ancora un appoggio. Era davvero agli sgoccioli, il cuore gli batteva all’impazzata. Aveva il fiato corto e le gambe molli.
Fu costretto a sedersi, ma il dolore non accennava a diminuire. Le sue lacrime si mischiavano alla pioggia che continuava a cadere, incurante di tutto e di tutti. Erano lacrime di dolore, ma soprattutto di rabbia: la consapevolezza che non ce l’avrebbe fatta lo faceva andare su tutte le furie.
No, non poteva rinunciare così. L’avrebbe rivista almeno un’ultima volta. Una forza misteriosa lo fece alzare di nuovo e fece in modo che riprendesse a camminare. Percorse qualche metro, alle sue spalle Tokyo era sovrastata da un cupo cielo scuro illuminato di tanto in tanto da qualche fulmine - un lampo improvviso che lo faceva sobbalzare ogni volta.
Continuava a camminare, mille volte più sicuro di prima, contro il destino e contro il tempo. E fu in quel momento che sentì la testa dolere forte e le palpebre pesanti.
Si accasciò a terra, in ginocchio sulla strada bagnata, la casa del dottore era solo due isolati più in là. E lei lo aspettava lì, insieme ai suoi cari per una cena tutti insieme, sorridente e all’insaputa di quello che era accaduto. Ce l’aveva quasi fatta, solo qualche passo…
Tentò di sollevarsi, ‘sta volta senza successo. Barcollò per poi cadere di nuovo. Gli pareva di non toccare mai terra, una caduta infinita che stava diventando snervante. Perché non poteva morire e basta? L’impatto continuava a non arrivare, nonostante le sue preghiere. La sua tenacia era scomparsa di colpo, sopraffatta dal dolore. Solo in quel momento si accorse del perché quella caduta non finisse. Fluttuava a circa un metro da terra, sorretto da due braccia esili ma muscolose. Appoggiò la testa sul petto del suo soccorritore. Era una bella sensazione: emanava un calore particolare, un calore che durante quella lotta contro il Fato credeva di non sentire mai più. Il piccolo detective chiuse gli occhi, cullato dal ritmo di quel cuore che batteva. Si addormentò beato, sorridendo.
Ran rise sentendo il bimbo russare fra le sue braccia. Guardò quel visino tanto simile a quello di Shinichi, libero dagli ingombranti occhiali, l’espressione rilassata dopo la faticaccia della lunga camminata. Sanguinava ed era piuttosto malconcio e sul suo giubbotto era rimasta una traccia circolare di bruciatura, un segno che conosceva bene. Iniziò a preoccuparsi sul serio. L’ospedale della polizia era a pochi passi, non ci sarebbe voluto molto correndo. Arrivò lì stanca e stravolta, bagnata fradicia da capo a piedi, ma non le importava. Non avrebbe lasciato solo quel piccolo che tanto le ricordava il suo amato detective. Per nessuna ragione al mondo.
   
 
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