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Autore: Lil Romantic Girl    04/02/2012    2 recensioni
Da lontano il tripudio di orchidee pare una tovaglia bianca macchiata di vino, poiché l’occhio tende a confondere i singoli colori bianco e rosso in una cosa unica.
A guardarli da vicino, però, si rischia di rimanere ipnotizzati.
“Amore devoto” aveva detto Emilie, mentre porgeva il mazzo alla sua signorina e Paula teneva aperta la porta.
Nella carrozza, il sorriso di Elisabeth Middleford sembra splendere con l’intensità di un astro.
Paula non può fare a meno di lasciarsi folgorare.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Ciel Phantomhive, Elizabeth Middleford
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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La mia voce sono i fiori


“Quando ho paura
La mia voce sono i fiori.”

Vanessa Diffenbaugh
 Il linguaggio segreto dei fiori (incipit)

 
All’inizio dei suoi ricordi, lui c’era sempre stato.
Fin da bambina.
I suoi genitori avevano sempre insistito che giocasse insieme a lui, che condividesse la sua infanzia, che gli si legasse con l’amore profondo di un fratello, fin dai suoi primi anni di vita.
E l’aveva visto sempre.

Conosceva il volto dei suoi genitori quasi quanto quello dei propri, riconosceva la risata di sua zia anche in mezzo ad una tempesta di grida altrui.
Li aveva pianti con più del solito fervore destinato ai parenti stretti, come fossero stati tutti suoi fratelli e sorelle. Dopotutto erano stati loro ad accompagnarlo al principio della sua memoria, rimanendo in disparte mentre lo conosceva, anche se presenti.

Avevano fatto da immancabile overture per la musica della sua infanzia.
Una musica chiamata Ciel.



- Paula! -
 Al suo richiamo, la domestica si volta e le si avvicina, le ciocche castane che pendono dalla cuffia come i rami di un salice piangente.
- Sì, signorina? Desidera qualcosa? -
Il volto è sottile e pallido, come porcellana, ed il suo sorriso sembra quello disegnato e sempre acceso di una bambola.
Una bambola sciatta.
 - Oggi possiamo andare a trovare Ciel? -
- Signorina*, oggi l’istitutrice vi terrà una lezione di disegno, sarebbe un peccato … -
Si vede che ogni volta le dispiace rompere il suo entusiasmo.

“Povera signorina” pensa.
“È sempre così facile alla tristezza e alla noia, e proprio io devo incoraggiarle ad ingrigire il suo animo, portando brutte notizie.”
Paula sa che il suo non è un capriccio.
 - Ma quella donna è un demonio! Ha una voce più acuta del verso di un corvo, la rabbia facile e gli occhi iniettati di sangue. -

Paula sa che in parte è non vero.
Sa che non sarà difficile convincerla a dire al signor Middleford che la piccola Lizzie si sente stanca e debole, che ha bisogno di uscire all’aria aperta e che il Conte Phantomhive l’ha cordialmente invitata a stare da lui.
 Sa che, alla fine, verrà dato un giorno libero all’istitutrice e carta bianca alla signorina.
Sa che le sue insistenze non sono altro che arbusti fragili e antichi, facili da oltrepassare, facili da distruggere.
Sa che la signorina ha bisogno di questa visita.
Infatti, acconsente.


Per un po’ non aveva pienamente compreso il motivo per cui i suoi genitori e quelli di Ciel li volessero sempre così vicini.
Per un po’, lui era stato il suo maldestro compagno di giochi. Non sempre le era stato gradito.

- Mamma, io certe volte non lo capisco. È timido, maldestro e si ammala per un nonnulla. Anche la sua risata è bassa e chiara come il gorgogliare di una fontanella. -

La fragilità di lui si era sempre scontrata con la sua esuberanza, con la sua perenne allegria. La sua salute si era sempre interposta come ostacolo alle sue idee di bambina e per lei, così immatura, era sempre stato difficile adeguarsi alle sue mancanze.
- Perché devo sempre stare con lui? -
A volte era arrivata a porre questa domanda persino a suo fratello ma in cambio, fino ai suoi otto anni, non aveva ricevuto nient’altro che futili sottointesi.

Quando avevano assunto Paula, quella risposta era stata una delle prime prove della sua fedeltà.
- Signorina, Ciel Phantomhive è il vostro futuro sposo. Quando sarete grandi celebrerete una grande cerimonia e sarete marito e moglie. Voi, signorina, avrete un vestito sontuoso, bianco come il latte che adesso bevete, pieno di nastri e di fiocchi. -

Da quel momento in poi, Ciel le era apparso in maniera completamente diversa.
Si era spesso immaginata nelle stesse vesti di sua madre, con Ciel seduto sempre accanto come suo padre, vestito di panciotto e camicia, con un grande cilindro scuro sulla testa.
All’inizio, quell’immagine l’aveva fatta ridere e aveva preferito concentrarsi sul bel vestito che avrebbe indossato. Si era proposta di convincere sua madre a sceglierlo rosa, anziché bianco, e di riempirlo di pizzi e merletti come una botte è colma di vino.
Poi, però, con gli incontri con Ciel, la preoccupazione era tornata a farle visita, silenziosa come uno spettro, tormentando la sua anima.
Ciel era sempre lento, fragile e malinconico.

I suoi abiti scuri, il suo volto scuro, sarebbero stati una macchia nella sua cerimonia splendidamente sfarzosa, un’ombra sul suo prato fiorito.
Anche se la conosceva da poco, aveva deciso di comunicare a Paula i suoi timori e ne aveva ottenuto una grande risata.
- Signorina, certamente avete bisogno di Ciel per sposarvi. Senza matrimonio, non potreste organizzare la cerimonia che sognate. -
 Lei si era lamentata, allora. Aveva anche dichiarato, nella sua rabbia capricciosa, di non sopportarlo.
- Signorina, tutti abbiamo dei difetti, anche voi. Io sono sicurissima che, invece, Ciel vi piace tantissimo. È chiaro come il sole a mezzogiorno. Certo, dovrete sopportare alcuni lati di lui che non vi piacciono, sarà uno dei vostri doveri. -
Aveva sempre sentito nominare quest’ultima parola, dovere, in direzione della servitù, dell’istitutrice, di suo fratello, a volte, ma mai nella sua.
 Aveva chiesto il senso di quella frase a Paula.
Lei aveva risposto che era compito di una moglie essere sempre cordiale con suo marito, dimostrargli sempre di amarlo come anche più di un padre. Le aveva detto che era quello il suo compito; era quello il motivo per cui i suoi genitori chiamavano anche più istitutrici dagli sguardi di fuoco ad educarla.
E lei aveva capito.
Aveva capito quale sarebbe stato il suo scopo.
Così era arrivato il senso di colpa.



Mentre la signorina si accomoda sulla carrozza, sistemandosi la cuffietta rosa come fosse una corona, Paula sente una nuova richiesta.
- Non è che prima di andare possiamo passare da Emilie? Il suo negozio dovrebbe essere ancora aperto. -
- Certo, signorina, è aperto, ma dovremmo andare a Londra. -
- Non importa, Ciel è là in questo momento, la deviazione non sarà così lunga. -

È da quasi tre anni che non entrano in quel negozio, ma Paula sa che Emilie si ricorda della sua signorina. Le aveva chiesto spesso che cosa le fosse accaduto, perché non venisse più da lei, ma lei aveva sempre sviato ogni interrogativo, ribattendo che la signorina era spesso in balia dell’istitutrice e che il tempo quell’oggi fosse splendido.
Non le ha mai detto che, dopo l’incendio, per la sua signorina è sempre stato quasi un dolore entrare nel suo negozio.
 Per questo Paula si sorprende, tanto da assentire meccanicamente, come in trance.
Comunica al cocchiere il nome del negozio, rimane in piedi finchè la sua signorina, meglio accomodata sul sedile della carrozza, non le dice di imitarla.
Obbedendo, si riprende.
Riprende il suo peculiare sorriso con la stessa facilità con cui una rosa lentamente lascia andare il proprio petalo.
Osserva il volto della sua signorina.
Gli occhi quasi luccicano, pare che una strana maledizione abbia fatto brillare le stelle nel cielo diurno.


Non aveva mai dimostrato a Ciel di amarlo.
 Era sempre stata infantile e sgarbata con lui, troppo esuberante perché le potesse star dietro, poco comprensiva con quell’anima malaticcia.
Sentiva che tante volte, per colpa sua, il suo sorriso era stato compromesso o, addirittura, completamente spento e, intimamente, disperato.
Se Ciel era davvero il suo promesso sposo, doveva sentirsi davvero amareggiato dal suo comportamento, se non addirittura deluso. Era stata una bambina viziata e stupida, poco attenta ai suoi doveri.
Elisabeth ricordava ancora il periodo in cui quei pensieri la tormentavano, tradotti nel linguaggio semplice di una bimba di otto anni, certo, ma comunque dolorosi come coltellate.
Anche il semplice vedere Ciel la faceva arrossire di vergogna, perciò si preoccupava di tenere sempre gli occhi bassi quando lui era in sua presenza e non poteva evitarlo.
Sì, perché aveva anche provato quest’ultima opzione, solo che sua madre era intervenuta a rimproverarle maleducazione e ingratitudine.
Facendole ancora più male.

I pomeriggi erano trascorsi grigi, le ore scandite dai singhiozzi della pioggia, per un tempo che lei ricordava come interminabile, fino a che Paula, ormai assidua confidente, non aveva compreso il problema e tirato fuori una soluzione.
- Domani andremo a trovare Ciel e tu gli porterai un mazzo di fiori, così capirà quanto ti dispiace per avergli dato fastidio e ti sorriderà di nuovo. -
Paula aveva un’amica di nome Emilie, una francese esile come un giunco, dallo sguardo dolce e la parlata sciolta, che gestiva un negozietto di fiori in periferia.
 L’aveva salutata con un sorriso aperto, una curva rosea sul suo volto scarno, e aveva stretto la sua mano tra quei delicati petali che erano le sue dita.
La prima combinazione che le aveva offerto era stata dello stesso colore delle sue labbra, per essere abbinata all’abito di Elisabeth. Per lei era stato come vedere personificata la propria euforia.
Tutte quelle piante così diverse tra loro, alcune delle quali sconosciute alla sua mente di bambina, combinate ed abbinate in modo da valorizzarsi a vicenda, avevano riempito il suo sguardo fino al momento in cui la porta della magione si era aperta.
 
I Phantomhive si erano mostrati felicissimi di quella sorpresa, la signora le aveva fatto molti complimenti sul vestito e non aveva mancato di notare quanto fosse diventata grande e bella, mentre il signore era rimasto in disparte, ordinando al maggiordomo di chiamare il padroncino.
Per tutto quel tempo aveva nascosto i fiori dietro la schiena, attenta a non tremare per evitare che si rovinassero, o che cadessero sul pavimento.
 Quando Ciel aveva fatto il suo ingresso, si era affrettata ad avvicinarsi ed aveva preso fiato.
Non ricordava di averlo mai visto tanto contento, dopo avergli mostrato il mazzo che celava. L’aveva stretto tra le piccole dita, l’aveva guardato con gli occhi lucidi, quasi più grandi, l’aveva accarezzato con le sue mani delicate, per poi mostrarlo impaziente ai genitori.
Elisabeth aveva visto la gratitudine filtrare dai suoi occhi come luce attraverso l’acqua del mare. Non avrebbe saputo mai descrivere, con quella mente infantile, il momento in cui la felicità era sopraggiunta in Ciel, o che aspetto avesse, in realtà.
Soltanto, ne aveva capito l’immenso valore.
Anzi, se n’era innamorata.
E aveva deciso di fare in modo che non s’incrinasse mai più



Da lontano il tripudio di orchidee pare una tovaglia bianca macchiata di vino, poiché l’occhio tende a confondere i singoli colori bianco e rosso in una cosa unica. A guardarli da vicino, però, si rischia di rimanere ipnotizzati.
“Amore devoto” aveva detto Emilie, mentre porgeva il mazzo alla sua signorina e Paula teneva aperta la porta.
Nella carrozza, il sorriso di Elisabeth Middleford sembra splendere con l’intensità di un astro.
Paula non può fare a meno di lasciarsi folgorare.


I Phantomhive avevano sistemato i fiori nel grande vaso che si trovava nella stanza dove i bambini solevano giocare, cosicché Elisabeth potesse sempre sentirsi orgogliosa del dono che aveva fatto ai suoi futuri suoceri.
E a Ciel.
L’unico a cui aveva pensato da quel giorno in poi.

L’unico per cui, ogni volta che i fiori morivano, ne chiedeva di nuovi ad Emilie.
Ogni composizione era stata per lui.
Per la sua felicità.

Pian piano l’euforia dei Phantomhive era stata smorzata dall’abitudine, fino al giorno in cui la signora si sentiva autorizzata a salutare con un sorriso aperto e una parola cordiale l’ingresso di un nuovo mazzo.

Ad Elisabeth non importava.
La sua gioia era come il vento, travolgente ed inestinguibile.
Ed era tutta per Ciel.

La bellezza lo rendeva sempre più sorridente del solito, anche quando era malato, o malinconico.
E lei, allora faceva sempre in modo che tutto fosse bello per lui, sostituendo ogni volta i fiori appassiti con un nuovo mazzo, più bello, più colorato del precedente, tanto che ormai ogni domestico sapeva che quel vaso apparteneva alla figlia di Middleford.
Faceva tutto affinché quel sorriso non si spegnesse mai.

Lo preservava come una Vestale conserva il suo fuoco.
Con ciò che era bello, lo alimentava.

E finalmente si sentiva degna di essere sua moglie, felice di adempiere ai suoi doveri, orgogliosa dei risultati a cui portavano. C’erano stati due anni di felicità estrema, scanditi semplicemente dalla breve vita dei suoi fiori, in cui non aveva pensato ad altro che a loro, in cui il suo unico sole era stato il suo sorriso.

Poi, però, una luce più potente l’aveva catturato.
La maledetta luce del fuoco.


Quando il valletto apre la porta, Paula rimane in disparte, mentre la sua signorina comincia a correre.
Il rumore dei piccoli tacchi degli stivaletti scandisce ogni frettoloso passo, la cuffia giace dimenticata sul pavimento, una macchia rosa tra le piastrelle.
Paula si serve dei capelli della sua signorina, un’aureola dorata alla luce del Sole, per seguirla lungo il corridoio della villa, verso una stanza che sembra conoscere solo lei.
 Sente la felicità della sua padrona come fosse palpabile nell’aria, è convinta di essere capace di toccarla solo allungando la mano.
 Eppure … quando raggiunge la sua signorina sulla soglia di una camera, questa è immobile, una statua di sale.
Ogni traccia di eccitazione, come un fuoco fatuo, si è spenta con un alito di vento.
Paula osserva la camera, cerca di capire.
La stanza è vuota, forse il padrone attende nel suo ufficio, c’è soltanto quel maggiordomo così simile ad un ombra che armeggia con un vaso.
Aggiunge alcune rose rosse ad una composizione di fiori bianchi, con la flemmatica tranquillità che gli si addice.

Paula non comprende subito il perché della visibile afflizione della sua signorina.
Quando l’ha fatto, Elisabeth se n’è ormai andata.
 

Note:
* Nell’anime Paula si rivolge ad Elisabeth con l’appellativo “ojousama”, “signorina” in italiano. Ho deciso di italianizzarlo per dare a questa fic un’atmosfera più europea delle altre, inoltre se Ciel è ormai noto con il titolo “Bocchan” e Alois con “Danna-sama”, con Elisabeth non è lo stesso discorso.
So che la fanfiction sarà colma di inesattezze storiche, ho cercato di renderla più credibile possibile ma sicuramente delle cose mi saranno sfuggite.


Angolo Autrice:
Buongiorno a voi, sventurate!
Potevo abbandonare una sezione a cui ormai sono abbonata, neanche fosse una spiaggia?
So che, in effetti, è (di nuovo) un pairing ed un personaggio su cui solitamente non mi soffermo ma … spero vivamente che la fic sopravvissuta alle revisioni sia, almeno, un prodotto accettabile.
 Ringrazio la mia immancabile beta
____Faxas, che svolge sempre il suo lavoro nel migliore dei modi. Una lode alla sua professionalità, alla sua infinita pazienza e al suo supporto durante le mie pseudo - crisi mistico-artistiche.
 Spero davvero che la fanfiction vi sia piaciuta, che la revisione ed il betaggio siano riusciti a risparmiarvi i miei orrori.
Nel caso in cui avessero fallito, mi chino in segno di perdono. 
   
 
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