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Autore: elizzie    05/02/2012    1 recensioni
Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d'un sogno è racchiusa la nostra breve vita. (William Shakespeare, La tempesta: atto IV, scena I)
Genere: Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La tempesta

 

Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d'un sogno è racchiusa la nostra breve vita. (William Shakespeare, La tempesta: atto IV, scena I)

 

Appariva dal nulla, come nebbia leggera, salutando chi arrivava nel bosco per curiosità o per rabbia, o semplicemente per caso.

Nessuno avrebbe mai saputo descriverla con precisione. Il garzone di bottega avrebbe detto che era alta, snella, bionda, e che si presentava nuda ai suoi occhi languidi, coperta solo da lucide gocce di rugiada; la madre di famiglia avrebbe raccontato che era rossa e prosperosa, ammaliante come una sirena nel buio della notte, pronta a ghermire nel buio il povero malcapitato che avesse ceduto alle sue lusinghe; il bambino, fantasioso e smaliziato, l’avrebbe sicuramente dipinta come una fata, che ogni notte portava sorrisi e doni.

Ognuno, in sostanza, aveva un’idea diversa su di lei; molti addirittura erano convinti che non esistesse.

Nei boschi intorno alla città, quasi ogni notte, in Primavera più che nelle altre stagioni, si vedevano strane luci, accompagnate da un vento che portava con sé quello che sembrava un canto. Nessuno sapeva precisamente quando quel fenomeno fosse iniziato, gli anziani del paese dicevano che c’era da sempre, e che i loro nonni avevano raccontato la stessa cosa.

I più logici dicevano che doveva esserci una spiegazione, ma la maggior parte degli abitanti credeva nella leggenda della giovane donna che appariva in queste luci, e cantava quelle melodie senza parole; almeno un centinaio di persone tra uomini, donne e bambini, avrebbero giurato sulla propria vita di averla vista.

Nel corso dei decenni tutte le disgrazie e le fortune che capitavano nella città erano state attribuite alla donna del bosco. Alcuni la veneravano quasi come una dea pagana, portandole offerte al limitare della foresta per avere la sua benevolenza; Padre Thomas, nel sermone della domenica, li ammoniva spesso sul peccato che commettevano nell’onorare falsi dei, e li invitava a ricredersi al più presto per non commettere peccato.

Invece Padre James, il giovane reverendo da poco arrivato in città insieme alla moglie e al loro primogenito ancora in fasce, non vedeva come dannosa la fede che i cittadini avevano nella donna del bosco. Mai e poi mai l’avrebbe confessato davanti a Padre Thomas, ma in cuor suo credeva che quella donna fosse una Santa che appariva solo a persone meritevoli di stare in sua presenza, o bisognose di una guida che li spingesse a cambiare il loro stile di vita dissoluto.

Uno di coloro che dicevano di aver visto la donna del bosco, prima della miracolosa apparizione era stato un ubriacone incallito; e, dal giorno in cui l’aveva incontrata, non aveva mai più toccato una goccia di alcol. Un’altra era stata una donna di malaffare, nota per intrattenersi con numerosi uomini della città, e dopo l’incontro aveva abbracciato il messaggio di Cristo, come una novella Maria Maddalena.

Ma in città c’era anche qualcuno che non considerava quella creatura un essere benevolo: anzi, ne aveva proprio paura.

Quel qualcuno si chiamava Hector Bowen, e aveva sette anni; da poco tempo viveva in una casa al limitare del bosco, lontana da tutte le altre. Suo padre aveva preso quella decisione spinto dall’esasperazione per le condizioni della moglie. La madre di Hector, infatti, soffriva di una malattia senza nome, e per questo ancora più terribile, che la portava a essere insofferente e violenta con se stessa, in particolare quando qualcosa di imprevisto turbava il suo equilibrio quotidiano, come un visitatore improvviso o un forte rumore.

Vivere al centro della città rendeva la frequenza di tali avvenimenti piuttosto elevata, pertanto la famiglia Bowen si era spostata in una casa molto più isolata e tranquilla.

Il piccolo Hector era sempre stato spaventato dalla leggenda della donna del bosco, a differenza della maggior parte degli altri bambini della città, che ne erano affascinati, e che spesso fuggivano da casa nottetempo per addentrarsi tra i fitti alberi sperando di scorgerla. Da quando viveva vicino al bosco, poi, ne era davvero terrorizzato.

In una notte come tante gli capitò di non riuscire a prendere sonno; a nulla era valsa la camomilla che gli aveva preparato la madre: gli occhi non si chiudevano, e il corpo non si voleva abbandonare al dolce sonno.

Il vento sferzava violento tra i rami dei vicini alberi creando una specie di ululato, come quello di un branco di lupi affamati. Ma non era questo che turbava il piccolo; non lo urtava nemmeno il fatto che il padre, come accadeva sempre più spesso, non fosse ancora tornato a casa.

Quello che lo spaventava più di tutto era la strana assenza del canto della donna del bosco, che si faceva sentire più che mai quando il vento soffiava da nord come quella sera. Quando si ha paura di qualcosa, si preferisce sapere perfettamente dove si trova, e il non sentirlo faceva morire di paura il piccolo Hector.

Non avrebbe mai saputo dire che ora fosse, ma, ad un certo punto, si addormentò; fu come se due incudini fossero precipitate all’improvviso sui suoi occhi, come se fosse svenuto per un qualche motivo sconosciuto; di certo non si era addormentato come gli accadeva normalmente, abbandonandosi al sonno che lo cullava dolcemente.

Si ritrovò all’improvviso in mezzo al bosco che tanto lo terrorizzava; ma stranamente era tranquillo. Non aveva la certezza di stare sognando, tutto ciò che gli stava intorno gli sembrava infatti eccessivamente vivido.

All’improvviso un rumore di foglie attirò la sua attenzione, e da dietro a un albero uscì la donna del bosco. Hector non se la sarebbe mai immaginata così: era straordinariamente reale, nella sua figura snella ma materna, i fianchi larghi e il seno prosperoso; aveva la pelle bianca come il latte appena munto e i capelli neri come la pece che creavano un contrasto affascinante e allo stesso tempo spaventoso. Ma nessuno avrebbe mai potuto avere paura di lei, per la dolcezza che brillava nei suoi profondi occhi chiari.

«Hector», disse, rivolgendosi al bambino che la fissava stupefatto. Lui era incantato dal tono cristallino con cui parlava, così squillante ma allo stesso tempo dolce.

Gli si avvicinò, e gli si mise di fronte, inginocchiandosi in modo che i loro volti fossero alla stessa altezza; sorridendo, sollevò la mano destra e gli accarezzò una guancia.

«Non hai più paura di me?», gli domandò con tono rassicurante.

Hector scosse energicamente la testa, abbozzando un sorrisetto allegro. Si sentiva sicuro e protetto.

«Ne sono felice», gli disse lei, continuando a sorridere. «Io mi chiamo Miranda, e sono qui per farti un regalo», annunciò. Hector rimase in paziente ascolto.

«Ho atteso moltissimi anni in questo luogo prima che nascesse qualcuno degno del mio dono. Cominciavo a perdere la speranza, ma poi finalmente sei arrivato tu, piccolo Hector. Tu avrai da me in dono la magia».

Hector fece un passo indietro. Finalmente fu sicuro che il suo fosse un sogno; la magia non esisteva, lo sapeva bene.

«Io l’ho avuta da mio padre, poco prima che morisse», raccontò Miranda. «Non è un dono comune, è estremamente raro possederlo, e si tramanda di padre in figlio. Purtroppo io non ho potuto trasmetterlo, perché sono morta molto giovane, per una grave polmonite. Sai, Hector, ci sono cose che nemmeno la magia può risolvere», si rabbuiò per un attimo. «Ma può fare molte cose; e io ho scelto te per avere questo dono. Un giorno anche tu dovrai trasmetterlo a uno dei tuoi figli», disse, sorridendo nuovamente.

Aprì la mano, e dal suo palmo scaturì una luce. Hector la osservò incuriosito, restandosene immobile.

«Avanti, piccolo, metti la tua mano sulla mia», lo invitò Miranda. «Non c’è niente di cui tu debba aver paura».

Hector non se lo fece ripetere due volte, toccò quella strana luce, e all’improvviso sentì un caldo estivo che gli entrava fin nelle viscere, a contrastare il freddo di quella nottata ventosa.

Fu come se una musica li avvolgesse, l’anima inquieta che per decenni aveva peregrinato e il bambino dal carattere strano, che aveva pochi amici e una madre con una malattia sconosciuta. Lei finalmente si era liberata del peso che non le aveva permesso di volare via, verso l’ignoto luogo in cui avrebbe incontrato nuovamente tutte le persone che aveva amato e perso. Lui finalmente aveva qualcosa di speciale, un segreto da custodire che lo facesse sentire forte e sicuro, e che, un giorno, avrebbe usato per rendere felici molte persone.

Miranda lo abbracciò, stringendolo a sé. «Ora me ne devo andare, Hector», gli comunicò, accarezzandogli i capelli. «Mi raccomando, non ti dimenticare di me».

Lui avrebbe voluto dirle di rimanere, di non lasciarlo solo; per la prima volta nella sua vita si era sentito veramente felice con lei. Ma non fece in tempo, poiché Miranda svanì lentamente.

Subito dopo si ritrovò nel suo letto; si rese immediatamente conto che a svegliarlo era stato un forte rumore.

Uscì dalla sua piccola stanza da letto, e si trovò davanti sua madre che urlava, dopo aver rotto un vaso per la rabbia, mentre suo padre le stava davanti con sguardo mortificato; ancora una volta era tornato a casa all’alba.

Non appena se ne andarono verso la cucina, Hector si avvicinò ai frammenti che giacevano per terra; li toccò e questi si riunirono, riportando il vaso alla sua integrità.

In quel momento nacque Prospero l’Incantatore. Nessun nome d’arte sarebbe stato più adatto per lui, che aveva avuto la magia da Miranda.

Da quel giorno nessuno sentì mai più il canto della donna del bosco.

Finalmente Miranda se n’era andata in pace.

   
 
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