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Autore: JonS    05/02/2012    2 recensioni
“Ho il profumo del mare che scorre nelle vene, ho il vento che mi sussurra all’orecchio e c’è solo pace, ma a volte il rumore del mare è solo un silenzio assordante che mi riporta da te.”
4a classificata al "from the video to the fiction" contest indetto da hhhavoc. sul forum di EFP.
Storia vincitrice del premio speciale "Boys don't cry" per la storia più commovente.
2a classificata al contest " Fantasia, originalità e sentimento" indetto da Red_Angel :3 sul forum di EFP.
Genere: Drammatico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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SHE IS
 
 

 
Erano gli anni ottanta e noi eravamo così giovani, eravamo talmente stupidi: tu avevi gli occhi verdi -questo lo ricordo bene e i capelli come la sabbia; sapevi di sale e temevo che l’onda che ci avrebbe toccati di li a poco avrebbe cancellato dalla tua pelle l’odore di libertà che emanavi.
Era estate ed il tuo corpo era caldo e la tua pelle liscia, in netto contrasto con la ruvidità della mia; le tue labbra soffici, il tuo naso dritto e perfetto. Era tutto perfetto.
Volevo cantare in una band: era l’estate dell’ottantaquattro ed io avevo venticinque anni, dei jeans strappati e dei capelli al limite della decenza. Non ero mai stato ricco ma possedevo un’auto, una chitarra e una bella faccia: ogni porta era aperta per me che ero forse troppo infantile per restare con i piedi per terra.
Ricordo la luce dei fari; era mattina, le due forse, o più tardi dato che il cielo cominciava a rischiararsi ma il sole non c’era. Non c’era nebbia, era estate e tu eri la mia luna quella notte, la guida pallida verso cui i miei pensieri ed il mi sguardo venivano attirati; cantavamo insieme quella canzone che ti piaceva stonare mentre io fingevo di non ricordarne le parole solo per ridere della tua voce. Ricordo, quasi fosse passato un secondo, ogni dettaglio di te: portavi un abito color pesca ed io detestavo quel colore ma fingevo di amarlo perché, lo confesso, ti lasciava scoperto quanto bastava per strapparmi una faccia sognante e forse alquanto ebete.
Fu quella mattina in cui mi chiedesti di portarti al mare. La ricordi? Io, sbigottito, annaspavo nella più totale meraviglia: non credevo che nella tua vita tu non l’avessi mai visto. Dal canto mio ero cresciuto fra le onde della California e mi destreggiavo bene tra le dune di sabbia e il caldo del primo pomeriggio ma tu no, eri abituata ad un clima freddo e alla cupezza di una cittadina fatta di onde di smog e sabbia di cemento; eri abituata al grigio ed io volevo donarti l’azzurro.
Arrivammo alla spiaggia che erano appena le sei di mattina, dopo un viaggio troppo lungo che ti aveva lasciate ombre scure sotto gli occhi, conseguenza dell’assenza di sonno. Ricordo che mi avevi pregato di non fermarmi al market e di non comprare più del dovuto, più di quanto potevo permettermi; ma io non ti ascoltavo, non ascoltavo mai nessuno e in quel periodo ero restio anche a sentire i miei stessi pensieri. 
Quando la macchina, con uno scossone ed un gracchiare sordo del motore, si arrestò al limite della banchina il sole stava sorgendo e già era sopra la linea del mare. Non dimenticherò mai la faccia che hai fatto: a tutt’oggi mi capita di sorridere se ci ripenso. Eri come una di quelle bambine che si vedono nei cartoni giapponesi, quelle tutte infiocchettate e piene di merletti che se ne stanno davanti ad un negozio di dolciumi e ascoltano solo il battito del proprio cuore osservando fameliche ed estasiate migliaia di caramelle che, seppur invitanti, restano irraggiungibili.
Scendemmo dall’auto come in un sogno, i piedi leggeri e vagamente instabili dopo tutta quella forzata inattività; e non feci a tempo a chiudere lo sportello che tu già correvi verso le scale che scendevano alla piccola spiaggia, una mezzaluna di sabbia pallida compresa tra due costoni di roccia che la abbracciavano ai lati in maniera quasi tenera, protettiva; tu correvi e io mi limitavo a guardarti sorridendo e tirandomi indietro quei capelli ricci e scuri che mi cadevano immancabilmente davanti al viso.
Arrivammo entrambi a toccare la sabbia; tu muovevi le dita dei piedi come se fossero mani su di un piano, sgranchivi le dita e le affondavi nella sabbia facendole riemergere lentamente, lasciando che i granelli minutissimi e chiari si insinuassero tra le aperture come amanti che al risveglio incrociano le mani dopo una notte d’amore. 
Ti ritrovasti a sorridere di te stessa e a tirare la testa indietro, lasciando che il vento ti scompigliasse i lunghi capelli che, ribelli, si scuotevano come in una danza di cui avrei voluto saper comporre la musica; e, folgorato da quella scintilla che mi prendeva cuore e testa, ti chiesi di aspettare mentre correvo in auto a prendere la chitarra, per tornare e trovarti con i piedi nell’acqua. Ricordo che ti dissi di stare attenta, che forse era troppo fredda per te che soffrivi anche per il più piccolo degli spifferi, e tu mi guardasti e sorridesti a mezza bocca; era una cosa che facevi spesso quando mi volevi far capire che avevi tutto sotto controllo, che non eri una bambina ma un’adulta di diciassette primavere ben trascorse e, a giudicare da come eri bella, potrei azzardare e dire che ogni stagione ti avesse donato quanto di meglio poteva offrirti.
Si, lo so, sono un romantico ma invecchiando si arriva ad una sorta di noia latente che abbraccia anche il più stupido componimento e, tu mi conosci, non so dire di no alle sdolcinatezze anche se alla fine possono risultare tediose e fastidiose, a volte.
Quel giorno fu bellissimo essere noi, semplicemente io e te senza vincoli, senza pensieri; fu stupendo baciarti tra la sabbia ed il cielo illuminato da quel sole talmente potente ed accecante che non riuscivi a tenere gli occhi aperti. Ti ricordo mentre eri li, stesa nella la sabbia, alla ricerca di un riparo fra i miei riccioli; e com’eri buffa mentre tentavi di celarti con scarso successo a quel sole che, furbo, voleva farti arrossire.
Ti riportai a casa in ritardo di due giorni e tuo padre mi rifilò un pugno, rischiando di rompermi il naso; ti vidi piangere e bofonchiai un “mi dispiace” mentre mi colava il sangue dal naso e lui ti trascinava in casa.
Non era un problema, ti avrei ripresa e portata di nuovo tra le mie braccia, avevo imparato da tempo ad affrontare situazioni come quella; quindi mi limitai a tornare a casa dove trovai mia madre e il suo uomo in pratiche poco adatte alla mia situazione. Nonostante tutto mia madre trovò il tempo per tirarmi una bottiglia di birra intimandomi di sparire e lasciarli finire; non avevo una camera quindi mi toccò dormire nella mia auto, aspettando che il dolore al naso passasse e sperando che la notte durasse quel tanto che bastava a farmi recuperare le ore di sonno che avevo perso guidando per due giorni.
Ero un bravo guidatore. Lo ero davvero.
L’indomani venni a casa tua; tuo padre era in salotto, lo vedevo dal vialetto, perciò non scesi dall’auto ma lo osservai mentre, cupo e serio, se ne stava piegato sulla scrivania intento a scrivere uno dei suoi sermoni ben progettati e dalle parole ricercate di cui, son sempre stato convinto, sapeva ben poco. “Dio vi giudica” ripeteva sempre alla fine di ogni sermone ed io avrei tanto voluto spiegargli che a giudicare sono gli uomini che ben poco c’entrano con il parere di Dio.
Tua madre era in cucina, a preparare uno dei suoi soliti sformati di patate; non mi serviva vederla, l’odore nauseante arrivava fino alla mia auto e il caldo mi costringeva a tenere i finestrini spalancati. 
Tu eri alla finestra della tua stanza e guardavi verso la mia auto; non mi ero accorto che eri li già da un po’, ero troppo concentrato sul buon pastore che assaporava il piacere datogli dalle pecorelle belanti del suo gregge. Avevi le braccia incrociate come se aspettassi già da parecchio che io mi accorgessi di te.
Ti salutai con un cenno della mano e ti intimai a gesti di scendere il più velocemente possibile: fu allora che tuo padre alzò lo sguardo -lo ricordo bene perché incrociai i miei occhi scuri con quelli chiari e apparentemente puliti del reverendo. Chiunque ci avesse messi a confronto avrebbe notato quanto io sembrassi un figlio delle tenebre e della perdizione mentre lui pareva incarnare quanto di più buono e casto ci fosse al mondo; eppure sotto quella sua aria da perfetto gentiluomo timorato di Dio si nascondeva una serpe pronta a punire chi non la pensava come lui e questo includeva te e tua madre.  Lui mi fissava e io di rimando: ero furioso ma se non volevo farmi ammazzare era meglio girare al largo perciò andai via, pochi isolati più in la della tua casa, e mi misi a suonare la chitarra. 
Fu allora che composi la mia prima canzone, “She is”, a tutt’oggi è quella che preferisco.
Non ero un tipo che si arrendeva facilmente e tornai di li a poche ore. Stavi cenando ma eri brava a riconoscere il rumore delle ruote sgonfie della mia auto e ti affacciasti alla finestra della sala da pranzo fingendo di voler far entrare un po’ d’aria, mi facesti cenno di aspettare. Attesi in macchina che la vostra cena finisse mentre il mio stomaco si lamentava: non mangiavo da ore, troppe perché potessi essere in grado di pensare razionalmente. Fu quando ti vidi aprire lo sportello ed entrare in auto che percepì realmente cos’era successo: non eri il tipo da scappare così in piena cena.
Tuo padre inseguì la macchina quel poco che il suo grasso gli permise di fare e noi ridemmo del suo goffo arrancare, ebbri di liberà e ribellione -infondo eravamo giovani e odiavamo quell’uomo, perché non deriderlo?
Ci fermammo da un mio amico quella notte e dormimmo come mai avevamo fatto nella vita. L’adrenalina aveva lasciato il posto ad una profonda stanchezza eppure alle quattro mi svegliai: non sentivo più il braccio sinistro e ben presto capì che l’intorpidimento era la giusta conseguenza del tuo star comoda e tentai di toglierlo senza svegliarti, cosa che mi riuscì malamente dato che arricciasti il naso e mi implorasti di dormire. Non lo feci, tutta la restante parte della notte rimasi ad osservarti come intontito dalla tua bellezza: non c’era al mondo cosa più bella.
L’indomani tornammo alla spiaggia; lì c’era un piccolo hotel ed i pochi soldi che uscirono dal tuo portafoglio  ci pagarono il viaggio verso il paradiso. Tu non eri mai stata con qualcuno e io mi vergognavo a dirti che eri la prima ma tu me lo chiedesti più di una volta e alla fine dovetti sputare il rospo. Fu bellissimo tenerti stretta a me, respirarti: la tua pelle sapeva di fresco, di pulito e mentre eri li sul mio petto e ti accarezzavo i capelli pensavo che non c’era cosa più bella che essere me in quel preciso momento e in quel preciso posto.
Fantasticammo ore ed ore sul nostro futuro: io mi sarei cercato un lavoro e tu avresti fatto lo stesso e quando saremo stati pronti avremmo messo su famiglia. Jason sarebbe stato il primo, cresciuto a pane e musica rock, Melany la seconda, viziata e coccolata; io sarei stato il buono, quello che le da tutte vinte e tu saresti stata la falsa severa, quella che avrebbe imposto i vincoli più assurdi solo per riderne quando, inevitabilmente, loro li avrebbero infranti. Ci saremmo sposati in giugno, pochi giorni prima del tuo compleanno, e lo avremo fatto su quella spiaggia che avremmo comprato una volta divenuti ricchi.
Passammo la notte a ridere di queste sciocchezze che per noi erano tutto.
L’indomani ti portarono via. Tuo padre aveva smosso lo sceriffo dalla sua sedia in pelle nera, cosa che aveva turbato non poco il suo stato di assopimento mentale. Il vecchio mi tirò giù dal letto come se fossi un dannato fuorilegge e mi intimò di ricoprire le mie nudità; il reverendo entrò dopo di lui urlando ed imprecando verso il suo superiore, andò dritto verso di te e, predicando con l’uso della forza, ti intimò di rivestirti e scendere da quel letto del peccato.
Fu così che ti portarono via da me.
Sono finito in carcere; una notte, nulla più. Nessuno ha pagato la cauzione, nessuno mi ha detto come comportarmi e come fare per ritrovare la strada di casa; ero disperso e tu eri l’unica dimora a cui volevo tornare.
Sono passati quindici anni. Sono alla soglia dei quaranta eppure le donne mi trovano ancora attraente. A volte mi stupisco di quanti discorsi facciamo stando in silenzio e di quanto io sia cambiato. 
Tu sorridi sempre anche se sai che ho avuto molte donne, forse perché sai che non ne ho amata nessuna; sorridi pur sapendo che alle volte ho ceduto alla collera e alla droga; sorridi perché sai che sono diventato un cantante di successo e che i dischi d’oro affollano la mia casa, quella casa che è troppo grande per me e alle volte, come adesso, mi stupisco della tristezza che fa la consapevolezza di parlarti attraverso una polaroid vecchia di sedici anni dove tu sorridi, sorridi sempre e continuerai a sorridere per sempre.
Ho raccontato migliaia e migliaia di volte la nostra storia attraverso le mie canzoni e questo mi ha fatto guadagnare un bel po’ di soldi; lo sai, non mi sono mai sposato e forse ero sicuro che tu lo avresti fatto ed ecco perché oggi è difficile scriverti. Pensavo che avresti dimenticato e che ti saresti ricostruita quel mondo in cui poter essere felice ed invece tu non hai creduto che le cose potessero migliorare ed hai affidato il tuo ultimo respiro al balcone di un hotel che dava sul mare, a pochi chilometri dalla nostra spiaggia ed è bello ricordarti mentre affondi i tuoi piedi nella sabbia e, forse, era proprio quello che cercavi, la libertà di quel giorno. Eri un uccello troppo bello e ribelle per restare nella gabbia di un padre rigido e chiuso nella sua ottusa mente perversa.
Sono solo quattro anni che ho scoperto della tua morte, quattro anni che sembrano un’eternità.
 
Ultima serata, ultimo concerto e Dallas che urla con le bocche di migliaia di persone accorse per sentirmi cantare; tutte le mie canzoni sono sdolcinate e so come mi guarderesti sentendomele cantare.
Sai, Isabel, quando chiudo gli occhi immagino ogni dettaglio e nei miei sogni so che abbiamo avuto una vita felice ed immagino che Jason stia li a ridere con noi mentre Melany fa le solite boccacce durante la foto di famiglia; e quando si apre il sipario ed inizio a cantare ciò che vedo non è la folla di persone urlanti ed eccitate che mi adorano: c’è solo il vuoto, un lampione che illumina i tuoi fili dorati e tu che te ne stai li, a braccia conserte, una spalla contro il metallo scuro; sei li che mi guardi con quegli occhi verdi ed il tuo sorriso a mezza bocca ed allora è come se vedessi me stesso al rallentatore mentre inizio a cantare la mia canzone, la mia bocca che tocca appena quel microfono come se si poggiasse sulle tue labbra rosee; ed accarezzo le corde della mia chitarra come se stessi infilando le dita tra i tuoi capelli e sussurro la mia canzone per te, la bisbiglio quasi, come mormoravo a bassa voce quella notte in quel letto. E per un istante posso quasi sentire la tua pelle contro le mie spalle ed ho la certezza che quando la voce si alzerà per urlare il ritornello di “She is” lo sentirai.
Stasera suonerò il mio ultimo concerto poi andrò alla spiaggia come faccio ormai da tre anni e li toglierò le scarpe per sentire la sabbia sotto i piedi, lascerò che il mare faccia rumore, ed aspetterò che il vento mi porti il tuo odore e me lo attacchi alla pelle.
 
Travis

 
Note autore: Bene, questo racconto è pienamente nel mio stile in quanto amo leggere storie scritte in prima persona e che abbiano un retrogusto nel contempo “dolce e amaro”, lo stile potrà apparire confusionario, in alcuni pezzi anche troppo frammentario, ma è una scelta: ho voluto che la storia fosse quanto di più simile ai pensieri di un uomo in preda ai ricordi più dolci ed atroci di una vita, per cui lo stile non poteva che essere questo. 

  
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