Era una busta affrancata, con
un
nome impronunciabile scritto sul retro ed un indirizzo simile al mio,
ma
comunque differente. Non avrebbe dovuto sorprendermi di scorgere una
lettera
destinata ad una sconosciuta, nella mia cassetta della posta. Lì, tra
le
montagne imbiancate di neve, dove una manciata di case, dalle tegole
rosse e i
tetti spioventi, erano disseminate con un ordine in apparenza casuale e
confuso.
L’arrivo di un nuovo postino, in quella zona, implicava necessariamente
bollette disperse, pacchi rimandati al mittente e la disperata ricerca
dei
vicini, in nome dell’educazione, per restituire ciò che era stato
erroneamente
consegnato. Peccato che quel giorno non avessi alcuna voglia di
imbardarmi,
avvolgendomi nella sua pesante giacca, sotto quella che era molto
simile ad una
tormenta di neve, ai miei occhi. Ai miei occhi di straniero, di quella
landa
desolata, che aveva visto anche climi peggiori, a detta del mio
simpatico capo.
Scrollai le spalle, gettando distrattamente quella busta sul tavolo, prestandovi poca attenzione, per dedicarmi al controllo di una qualche rivista di motori a cui non ero abbonato e la bolletta del gas, che ancora non parevano interessati a consegnarmi via mail. Avevo sempre detestato le lettere. Uno spreco di carta e inchiostro, che il più delle volte veniva dispersa da qualche mano troppo distratta o da un occhio pigro, poco interessato a controllarne realmente l’indirizzo. Forse ero un uomo ed ero ben conscio di quanto quella mia diffidenza cozzava con quell’immagine romantica che molte donne hanno delle lettere. Quante volte la mia ex aveva tentato di convincermi a scriverle qualcosa, per esternarle quei sentimenti che ben conosceva? Una richiesta incomprensibile che mi aveva costretto ad arcuare un sopracciglio, palesemente scettico. Perché scrivere ciò potrebbe essere pronunciato a voce, con la giusta intonazione, che avrebbe certamente evitato il gran numero di equivoci tanto comuni nelle esposizioni epistolari? Ovviamente quella mia risposta non era stata gradita da Layla, che mi aveva espressamente mandato al diavolo, anche se solo dieci mesi più tardi, tuffandosi tra le braccia di un cavernicolo ancor meno avvezzo di me alle smancerie.
Io definito anaffettivo.
Io che non pronunciavo mai la parola “tesoro”, "amore".
Io che avevo sempre dato molta più importanza ad un gesto, che non ad un sorriso ammiccante ed una frase condita di melassa.
Io che non sbandieravo un “ti amo” perché doveroso. Io che mi opponevo a quella moda, che aveva ormai spopolato, e che pareva considerare quelle due parole quasi come un bonus, da poter piazzare al termine di ogni frase, come un semplice saluto. Automatico e meccanico, come un comune ciao.
Io che, scioccamente, avevo creduto in qualcosa che non era mai realmente esistito, se non nella mia mente. Forse perché talvolta è più semplice illudersi che uno sguardo strano, quella risata sommessa che riecheggiava nella casa, alle ore più assurde, lontana da me, fossero dettagli trascurabili.
Ero stato cieco, volutamente cieco.
Avrei dovuto assumermi le mie responsabilità e aggrapparmi al mio orgoglio, chinando il capo dinanzi alla sua decisione, che mi aveva certamente salvato dal trascorrere la mia vita con una donna che, in fin dei conti, non avevo mai compreso. Una donna che era per me un mistero insondabile, come ogni esponente del gentil sesso. Una donna che avrebbe reso la mia vita un inferno, un labirinto intricato di bugie e menzogne, sulle quali avrei costruito una vita infelice, se mai avessi avuto l'ardire di compiere il grande passo con lei. Una follia dalla quale, la mia natura restia, mi aveva salvato. Peccato che, in seguito alla rottura la mia mente non fosse stata tanto lucida, da indugiare in simili elucubrazioni; come poteva dimostrare la macchina rigata di lei e la sua cassettiera di profumi accidentalmente trasformata in un’accozzaglia di cocci. Certo, un atteggiamento infantile e poco proficuo, che mi aveva permesso di guadagnare l’appellativo di bambino immaturo ma, al diavolo, era stata la mia unica soddisfazione, in anni ed anni di repressione subiti da lei e dalle innumerevoli scempiaggini al quale mi aveva costretto, vezzeggiandomi per indurmi ad assecondarla.
E io l’aveva assecondata, quasi sempre. Sin troppo spesso, considerando quanto velocemente si era stancata di me.
Risentimento.
Rabbia.
Gelosia.
Diffidenza.
Tutte emozioni che mi avevano condotto proprio lì, in quel paesino immerso nel nulla, dove avrei dovuto condurre una piccola sperimentazione, per l’azienda, relativa all’applicabilità o meno del telelavoro. Una mossa, secondo me, ben poco furba, considerando il gran numero di lavativi, tra cui il sottoscritto, che avrebbero sfruttato quelle ore in modo ben più interessante. Anche se, effettivamente, non vi era granché da fare, tra quelle innevate montagne. Ma ehi… sono sempre stato in grado di accontentarsi.
Avevo accettato in fretta, senza neppure rimuginarvi, considerando quell’offerta la perfetta fuga dal passato, da Layla, dall’ingombrante presenza di lei, in quella casa che un tempo dividevamo. Quasi un suggerimento del fato, nel quale non avevo mai neppure creduto. Ma non è raro divenire religiosi dinanzi ad una tragedia, proprio come non è raro trasformarsi in fautori del destino, quando si ha solo bisogno di una scusa per scappare.
E io aveva semplicemente approfittato quella scusa.
Scrollai le spalle, gettando distrattamente quella busta sul tavolo, prestandovi poca attenzione, per dedicarmi al controllo di una qualche rivista di motori a cui non ero abbonato e la bolletta del gas, che ancora non parevano interessati a consegnarmi via mail. Avevo sempre detestato le lettere. Uno spreco di carta e inchiostro, che il più delle volte veniva dispersa da qualche mano troppo distratta o da un occhio pigro, poco interessato a controllarne realmente l’indirizzo. Forse ero un uomo ed ero ben conscio di quanto quella mia diffidenza cozzava con quell’immagine romantica che molte donne hanno delle lettere. Quante volte la mia ex aveva tentato di convincermi a scriverle qualcosa, per esternarle quei sentimenti che ben conosceva? Una richiesta incomprensibile che mi aveva costretto ad arcuare un sopracciglio, palesemente scettico. Perché scrivere ciò potrebbe essere pronunciato a voce, con la giusta intonazione, che avrebbe certamente evitato il gran numero di equivoci tanto comuni nelle esposizioni epistolari? Ovviamente quella mia risposta non era stata gradita da Layla, che mi aveva espressamente mandato al diavolo, anche se solo dieci mesi più tardi, tuffandosi tra le braccia di un cavernicolo ancor meno avvezzo di me alle smancerie.
Io definito anaffettivo.
Io che non pronunciavo mai la parola “tesoro”, "amore".
Io che avevo sempre dato molta più importanza ad un gesto, che non ad un sorriso ammiccante ed una frase condita di melassa.
Io che non sbandieravo un “ti amo” perché doveroso. Io che mi opponevo a quella moda, che aveva ormai spopolato, e che pareva considerare quelle due parole quasi come un bonus, da poter piazzare al termine di ogni frase, come un semplice saluto. Automatico e meccanico, come un comune ciao.
Io che, scioccamente, avevo creduto in qualcosa che non era mai realmente esistito, se non nella mia mente. Forse perché talvolta è più semplice illudersi che uno sguardo strano, quella risata sommessa che riecheggiava nella casa, alle ore più assurde, lontana da me, fossero dettagli trascurabili.
Ero stato cieco, volutamente cieco.
Avrei dovuto assumermi le mie responsabilità e aggrapparmi al mio orgoglio, chinando il capo dinanzi alla sua decisione, che mi aveva certamente salvato dal trascorrere la mia vita con una donna che, in fin dei conti, non avevo mai compreso. Una donna che era per me un mistero insondabile, come ogni esponente del gentil sesso. Una donna che avrebbe reso la mia vita un inferno, un labirinto intricato di bugie e menzogne, sulle quali avrei costruito una vita infelice, se mai avessi avuto l'ardire di compiere il grande passo con lei. Una follia dalla quale, la mia natura restia, mi aveva salvato. Peccato che, in seguito alla rottura la mia mente non fosse stata tanto lucida, da indugiare in simili elucubrazioni; come poteva dimostrare la macchina rigata di lei e la sua cassettiera di profumi accidentalmente trasformata in un’accozzaglia di cocci. Certo, un atteggiamento infantile e poco proficuo, che mi aveva permesso di guadagnare l’appellativo di bambino immaturo ma, al diavolo, era stata la mia unica soddisfazione, in anni ed anni di repressione subiti da lei e dalle innumerevoli scempiaggini al quale mi aveva costretto, vezzeggiandomi per indurmi ad assecondarla.
E io l’aveva assecondata, quasi sempre. Sin troppo spesso, considerando quanto velocemente si era stancata di me.
Risentimento.
Rabbia.
Gelosia.
Diffidenza.
Tutte emozioni che mi avevano condotto proprio lì, in quel paesino immerso nel nulla, dove avrei dovuto condurre una piccola sperimentazione, per l’azienda, relativa all’applicabilità o meno del telelavoro. Una mossa, secondo me, ben poco furba, considerando il gran numero di lavativi, tra cui il sottoscritto, che avrebbero sfruttato quelle ore in modo ben più interessante. Anche se, effettivamente, non vi era granché da fare, tra quelle innevate montagne. Ma ehi… sono sempre stato in grado di accontentarsi.
Avevo accettato in fretta, senza neppure rimuginarvi, considerando quell’offerta la perfetta fuga dal passato, da Layla, dall’ingombrante presenza di lei, in quella casa che un tempo dividevamo. Quasi un suggerimento del fato, nel quale non avevo mai neppure creduto. Ma non è raro divenire religiosi dinanzi ad una tragedia, proprio come non è raro trasformarsi in fautori del destino, quando si ha solo bisogno di una scusa per scappare.
E io aveva semplicemente approfittato quella scusa.