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Autore: liserc    16/09/2006    8 recensioni
Una sedicenne si suicida dopo che gli amici e i parenti la rinnegano, ma la sua anima ha ancora dei compiti da svolgere prima di poter lasciare definitivamente questo mondo... Quali? Leggete questa breve oneshot e commentate! Se siete appassionati di suicidi sappiate che fra poco posterò nuove storie ;)
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era una giornata ventosa. Camminavo sulla spiaggia piangendo. Ecco, era successo. Sapevo che sarebbe successo, eppure non avrei voluto saperlo. Tornai nel mio rifugio e piansi a lungo. Non so per quanto tempo rimasi lì, ma pian piano si fece sera e poi notte. La notte mi accolse come una coltre, e smisi per un attimo di piangere. Ripensai a quello che era successo solo poche ore prima << Lara, tesoro, i tuoi amici, qui, vogliono parlarti!>> aveva detto la mamma << Di loro che adesso scendo! >> risposi. Avrei dovuto non scendere, eppure lo feci. Un groppo in gola segnava che non stava per succedere nulla di buono. << Senti Lara, abbiamo parlato a lungo di quello che è successo... E... siamo giunti alla conclusione che tu non dovresti più frequentarci >>.

Ecco com’era andata. Su msn avevo solo quegli amici. Gli altri non si connettono da giorni. Le mie amiche di msn hanno detto che devono riflettere su di me, e quindi non sanno se mi parleranno ancora. I miei amici reali oramai non mi guardano più, e tutta la scuola mi odia. Ma alla fin fine, io sono felice così. Certo, dopo aver pianto per giorni e giorni, forse non sarebbe esatto dire che sono felice, ma a me basta avere una casa dentro cui vivere.

Tornai a casa, e vidi mia mamma che mi aspettava davanti alla porta. L’aria molto arrabbiata, uno zaino in mano. Arrivatale davanti cercai di entrare in casa, ma lei mi sbarrò la strada. – Mamma, per favore, voglio andare a letto, sono stanca, mi faresti entrare? Chiesi, assonnata – No, tu non entri qui. Via, sparisci e non farti mai più rivedere. Vattene, VIA! Urlò lei. – Mamma... Ma... dissi in lacrime. Lei mi lanciò lo zaino e richiuse la porta dietro di sé.

Adesso so cosa significa essere tristi. Non vuol dire perdere un amico caro. No, io li ho persi tutti. Non vuol dire litigare con i genitori. No, loro mi hanno sbattuta fuori. Vuol dire non avere più niente per cui valga la pena vivere. Vuol dire preferire la vita alla morte. Mi incamminai verso il mio rifugio, in cui avevo accumulato oggetti di tutti i giorni che mi potessero essere utili. Camminavo con un peso sul cuore. Lo zaino pieno di vestiti sembrava niente a riguardo. Camminavo lentamente, con il peso che mi impediva quasi di muovermi. Piangevo. Non respiravo per le lacrime e l’asma me la sentivo in gola.

- Non vale la pena vivere, non vale la pena vivere, non vale la pena vivere, non vale la pena vivere... Mi ripetevo, come se servisse a darmi la forza per continuare a camminare. Raggiunsi il mio rifugio – Non vale la pena vivere... Non vale la pena vivere... Continuavo a ripetere. Ero distrutta. Ero a pezzi. Stavo davvero male. Molto, molto male. Vidi il coltello che avevo sempre con me. Lo presi. Non dovevo farlo. Tutto si risolve, presto o tardi.

Mi risvegliai in un mare rosso. Io ero pallida, pallida, fin troppo. Guardai a terra. Vidi il coltello, ancora sporco del liquido rosso. Vidi il mio corpo inerme. Vidi i tagli sulle vene che mi avevano uccisa. Vidi che io non ero più io. Vidi che io non ero nel mio corpo. Ero qualcosa di... Morto. Probabilmente un fantasma, se così si può chiamare. Non lo so. So solo che da quel giorno vago per la città. A volte qualcuno mi sente, ma non mi possono vedere. Spesso torno a casa mia. I miei genitori non piangono mai la mia morte. Non vanno mai alla mia tomba, che è piena di erica che dopo anni e anni è cresciuta. Io passo quasi tutto il mio tempo lì. Lì io mi sento io. Lì io mi sento a casa. Torno, a volte, dove un ragazzo mi ha trovato morta, nel lago di sangue ormai secco. Ma quel posto mi rende infelice. Così spesso vago, o mi ritrovo con il mio corpo, alla mia tomba.

Posso volare. Questa è l’unica cosa che mi fa sentire in parte felice. Il volo. Da sempre gli uomini desiderano volare. Non so come mai. Ma io posso farlo! E mi piace, molto. Volo, mi diverto. Poi vedo, dall’alto, la mia casa, la mia tomba, e scendo per andare a piangere me stessa. Sono l’unica che con la mia mano trasparente cerca di strappare l’erica. Ma non riesco. Non riesco a toccare niente. Quando vedo i miei amici, felici, resto con loro, e li attraverso, per cercare di trasmettere qualche sensazione. Ma mi prendono per un soffio d’aria fredda. E io piango. Sì, piango moltissimo. Anche gli spettri hanno il diritto di farlo.

Le lacrime, fredde come il mio corpo, solcano il mio viso di fantasma. Loro le posso toccare. Loro possono sporcarmi il viso. Loro possono farmi sentire ancora più infelice. Loro possono farmi sentire il dolore di essere come sono. Loro mi fanno sentire una cosa che non voglio essere. Loro mi fanno sentire, però, ciò che sono: uno spettro. Un’ombra, mi definiscono alcuni. Ma nessuno può vedermi, quindi non lo sono.

Io so solo che per giorni interi, vago per la mia città. Vago per il mondo. Vago sul mare. Vedo la vita e la morte, vedo quello che non si vede, e quello che si vede. Vedo quello che non voglio vedere e quello che voglio vedere. Vedo tutto, vagando placidamente per il mondo.

Quando morii, mi sentivo in collera con il mondo. Se avessi potuto avrei distrutto quello che gli umani considerano la pace. Avrei distrutto tutto, tutto. Ma poi, pian piano, mi calmai. Un sentimento di collera, però, mi riempiva il cuore di fantasma. I miei genitori che mi avevano scacciata. I miei amici che mi avevano rinnegata. Volevo fargliela pagare. Ma non potevo fare niente. Non potevo interagire col mondo al di fuori di me. I miei suoni non erano sentiti da coloro che odiavo. Le mie mani trasparenti non stringevano i loro colli quando in un attacco d’ira volevo ucciderli.

Un giorno capii. Io non ero un fantasma. I fantasmi fanno rumore. I fantasmi muovono gli oggetti. No, io ero un essere. Come diventare fantasma non lo sapevo, e ancora non lo so. Io cerco di muovere oggetti. Ma le mie bianche mani li attraversano e io mi ritrovo a stringere il mio stesso corpo. Quando cammino per la strada canto, urlo, parlo con tutti, mi fermo ad ascoltare i discorsi delle donne e rispondo alle loro domande, ma loro sembrano non sentirmi. È come se... Se io non esistessi. Spesso anche quando si è vivi ci si sente così. Io lo so. Io mi sono sentita così quando gli altri mi evitavano. Quando gli altri mi evitavano. Quando io comparivo e gli altri neanche mi guardavano. Quando nessuno rispondeva alle mie domande. Spesso, insomma.

Adesso ero lì. Guardavo la mia casa da lontano. Le lacrime mi solcavano il volto. Piangevo. Sì, perché loro erano vivi. I miei genitori erano vivi, nonostante non si meritassero la vita che a me avevano tolto. Perché era stata colpa loro, se io mi uccisi. Certo, fui io a tagliare le mie vene. Fui io a commettere l’errore, ma per colpa loro. Per colpa loro. E questo non lo dimenticherò mai.

Dopo giorni di prove, ero finalmente riuscita a muovere un oggetto. L’unico oggetto che volevo poter muovere. Il coltello con cui mi ero uccisa. Ero riuscita ad attraversare la barriera che mi impediva di interferire col mondo. Adesso sapevo che sarei stata appagata. Sapevo che il mio eterno vagare si sarebbe concluso. Lo sapevo.

Camminavo senza paura. Raggiunsi la porta di quella casa che un tempo era stata la mia. Mi fermai. Guardai attraverso i vetri. Vedevo la mia famiglia. O meglio, quella che un tempo lo era stata. Attraverso il muro. Adesso sono dentro la mia casa. Davanti a me vedo mia madre. Mi avvicino. Il coltello in pugno.

Dopo pochi minuti apro la porta, ed esco dalla casa. Una folata di vento mi fa cadere il coltello sporco di sangue. Lo lascio a terra, non mi importa. Adesso, posso morire in pace. Mi alzo per quello che so sarà il mio ultimo volo. Raggiungo la mia tomba, e mi riunisco alle mie membra. Finalmente mi sono vendicata. Mi sento sparire. Sento che pian piano il mio io si affievolisce. Fino a che non riesco più a pensare. Emetto un ultimo pensiero. Sono morta, finalmente.

Hanno trovato i corpi della mia famiglia. Hanno trovato il coltello. Lo so perché sento i pensieri della gente che cammina davanti alla mia tomba. In un modo o in un altro sono rimasta collegata a questo mondo crudele, da cui il mio corpo è stato strappato. Ancora non sono in pace con me stessa. Ancora un peso grava sul mio cuore. Un peso asfissiante, che mi fa sembrare ancora viva. Devo uscire alla luce del giorno. Devo andarmene dalla mia tomba. Ho un’ultima missione da compiere.

Cammino per la strada. Raggiungo una via stretta e sporca, ed entro nella prima casa. Vedo una donna matura, che fa dondolare una culla contenente un bambino. Guardo nella culla. Gli occhi verdi della bambina mi ricordano qualcosa. Gli osservo, poi mi chino. Bacio la bimba e gli sussurro – Ti voglio bene, figlia mia. Poi torno alla mia tomba. So che avrei dovuto farlo da viva. Ma non ho mai avuto il coraggio. Le mie membra mi accolgono, fredde. Io mi unisco a loro, e finalmente sento che ho finito la mia vita sulla terra. Finalmente sento che non ho altro da fare, qui. Finalmente posso morire in pace, dopo aver salutato per l’ultima volta la cosa che ha provocato la mia morte.

Ed eccoci alla fine della storia... Bella? A me è piaciuta un sacco *__* Rileggerla poi, è stato fantastico...:D Commentino? Coraaaaaggio XD Mi va bene anche negativo!! *__*
  
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