Disclaimer: Sherlock
appartiene ad Arthur Conan Doyle, alla BBC e al magico duo
Moffat/Gatiss. Nulla mi appartiene, nemmeno Benedict Cumberbatch.
Per ora.
Spoiler: nessuno.
Ispirazione: L'arte
classica e
"Cos'hai messo nel caffè" di Riccardo del Turco.
Prendetemi così come sono senza
porvi ulteriori domande: ne va della vostra salute mentale.
Indubbiamente
addormentarsi durante un concerto di musica
classica era vergognoso.
Nel bel mezzo dell'assolo del primo violino era
addirittura riprovevole.
Per non parlare poi dell'assistere alla rappresentazione
musicale in pigiama.
Fu solo a quel punto che il cervello di John Watson iniziò
a realizzare che tale cumulo di stranezze poteva appartenere solo al
mondo
onirico e si svegliò, tirando un sospiro di sollievo nel
constatare che era
effettivamente nel suo letto, si era solo sognato di essere a teatro
per un
concerto, in pigiama.
Ma allora perchè il violino non smetteva di suonare?
"Sherlock... certo, è Sherlock..." farfugliò.
Chi altri poteva essere a suonare alle... sette meno venti di mattina?
John
aveva sperato che dopo aver risolto un caso alle due di notte, anche
Sherlock
sentisse i sintomi della stanchezza e dormisse fino a un orario
cristiano.
Che pia illusione. Sherlock non era un comune mortale.
No, lui
è come un
dio dell'antica Grecia.
John
si bloccò sui gradini. E quel pensiero da dove cavolo
era sbucato?
"Mancanza di sonno, mancanza di sonno..." si
disse, lo stesso tono rassicurante che usava con i suoi pazienti in
vista di un
esame clinico che avrebbe potuto avere in realtà qualsiasi
esito.
E poi non era certo colpa sua se il suo coinquilino aveva preso
l'abitudine di andarsene in giro per casa con addosso solo un lenzuolo
a mo' di
peplo.
Ciabattò fino in soggiorno "Buongiorno Sherlock.
Dormito
bene?"
"Fin troppo." commentò brevemente il detective.
Ma sentitelo. John scosse la testa divertito e si diresse
in cucina per preparare un caffè.
Nel frattempo il dio
greco tornò a dedicarsi alla sua melodia.
"Un caffè forte
e nero, ecco cosa ci vuole." si disse un John ora decisamente
turbato.
Dopo i primi sorsi, tentò un'auto-psicoanalisi dei suoi
pensieri, che solo a
pronunciarlo era un delirio.
L'unica spiegazione logica, razionale (e rassicurante) era
che avesse pensato a Sherlock in quel modo per la sua intelligenza
smisurata,
la capacità di dedurre la vita di una persona solo
guardandogli le unghie delle
mani e quel genio sregolato e un po' folle che lo faceva apparire
davvero come
un essere ultraterreno.
Ecco sì, sicuramente il motivo era questo.
Era questo.
Non c'entravano nulla le mani affusolate, gli occhi di
diamante, le labbra dal contorno perfetto e il corpo longilineo dalla
pelle
nivea, i muscoli modellati proprio come una di quelle antiche statue
esposte al
British Museum. Solo che a differenza di una statua di marmo inanimata,
Sherlock sarebbe stato vivo, caldo e pulsante sotto le sue mani.
Ma che c....
"Sh-Sherlock - biascicò il dottore - hai messo
qualcosa di strano nel caffè, vero?"
"Perchè?" gli chiese il detective con molta
tranquillità, senza tradire alcun stupore per la domanda
quanto meno bizzarra.
"E' che... no, nulla, nulla." Voleva davvero
cercare di spiegare una cosa del
genere?
Raccolse il cappotto abbandonato la sera prima sullo
schienale della poltrona, balbettò qualcosa su degli
appuntamenti
all'ambulatorio ed uscì.
Il suono del violino lo inseguì fino in strada.
Tutto
ciò era grottesco e ridicolo, si disse un paio d'ore
dopo, nella pausa tra un appuntamento e l'altro.
Freud ne sarebbe stato oltremodo compiaciuto.
Ed anche sua sorella Harry, ne era certo.
Solo lui era nella confusione più totale.
Cercava di convincersi che la sua era stata
un'osservazione puramente oggettiva. Nulla più.
Sherlock era bello. Obiettivamente era così. A furia di
convivere con un'altra persona si arriva a notare tutto di quella: i
difetti,
le abitudini, le manie, la bellezza. Era perfettamente normale e non
c'era
nulla di male nel riconoscerlo.
Freud provò a suggerirgli sommessamente che sia quando
aveva frequentato
l'università che la
caserma aveva avuto altri coinquilini, ma su nessuno di loro aveva mai
avuto
pensieri di questo tipo. Neanche lontanamente.
John si affrettò a cacciar fuori a calci Freud dalla sua
testa. Era come diceva lui. Punto. E poi nessuno dei suoi compagni di
stanza
aveva il corpo come quello del Discobolo di Mirone.
Diamine, un corpo così avrebbe fatto crepare d'invidia un
discreto numero di modelli d'alta moda.
Un corpo così era un'isola misteriosa di zone erogene
tutte da scoprire.
No, non di nuovo.
Si prese la testa tra le mani. Una risatina spettrale gli
sfuggì dalle labbra pensando che l'oggetto dei suoi deliri
in quel momento era a
casa, del tutto ignaro dello scombussolamento che gli stava provocando.
Oddio,
con Sherlock non si poteva mai essere certi di niente, ma
finchè non avesse
imparato a spiarlo con gli occhi della mente a diversi isolati di
distanza da
casa, poteva dirsi al sicuro.
Chissà se stava ancora suonando il violino per combattere
la noia.
No, fermi tutti. Qualcosa non quadrava.
Sherlock non suonava il violino quando era annoiato.
Sparava contro il muro, si aggirava per il salotto come un leone in
gabbia,
elemosinava casi da Lestrade, metteva a soqquadro l'intero stabile alla
ricerca
della scorta segreta di sigarette. Ma non suonava.
Quello lo faceva quando era pensieroso, quando qualcosa
sfuggiva al suo bellissimo cervello dentro la sua altrettanto
bellissima testa.
Oh, per l'amor del cielo!
Si chiese cosa potesse tormentarlo: avevano appena risolto
un caso e non ce n'erano altri all'orizzonte. Altrimenti Sherlock
l'avrebbe
avvisato.
Controllò il cellulare per sicurezza: nessun messaggio,
nessuna chiamata persa. Comunque si accertò che
nell'ambulatorio ci fosse
abbastanza campo e poi lasciò il telefono sulla scrivania,
sbirciandolo di continuo,
col risultato che uscì da lì col torcicollo.
Tornò
a casa e trovò il suo coinquilino più o meno
nella
stessa posizione in cui l'aveva lasciato, circondato da una musica che
John
giudicò malinconica, gli occhi ad inseguire un inesistente
punto lontano fuori
dalla finestra. Mrs. Hudson gli aveva riferito che aveva suonato quasi
tutto il
giorno.
"Abbiamo un caso?" domandò John. Non che si
aspettasse una risposta. Quando Sherlock entrava in quello stato
mentale era
capace di non rivolgere a nessuno la parola per giorni.
Iniziò a preparare la
cena.
"Penso di sì." disse il detective dopo parecchio
tempo.
"Hai mangiato qualcosa, oggi?" chiese il dottore
preoccupato, non vedendo alcun piatto sporco nel lavandino.
"No."
"No? Quindi non mangi da stamattina."
"Da ieri sera. Stamattina non ricordo di aver fatto
colazione."
Pazzesco: tanto era preoccupato di tenere sempre in
allenamento la mente, tanto trascurava il suo corpo. E questo lui da
dottore,
da amico, da sailsignorecosa, non poteva permetterlo "Sherlock, so che
pensi che le normali funzioni biologiche siano ordinarie e noiose, ma
ti
garantisco che hai bisogno di nutrirti come chiunque altro.
Perciò ora vieni a
tavola. Accidenti a te, finirai per romperti."
Finirà in pezzi come una statua, bellissima ma fragile, se
nessuno si prende cura di lui.
"Intendevi 'ammalarti' ." lo corresse Sherlock.
Oh, grandioso. Ora iniziava anche a blaterare idiozie ad
alta voce "Certo. Quello. Precisamente volevo dire che se non assumi
abbastanza calcio, le ossa diventano fragili e possono rompersi. Ecco."
Neanche una matricola universitaria si sarebbe espressa in
modo così patetico.
Gli occhi inquisitori di Sherlock lo fissarono a lungo.
Poi finalmente posò lo strumento e si sedette a tavola.
Finita la cena il detective si alzò e tornò in
salotto.
Non gli venivano in mente nemmeno per sbaglio incombenze
ordinarie quali sparecchiare o lavare i piatti. John sospirò
e provvide lui.
"Niente più violino?" domandò.
Sherlock si era seduto su un angolo della scrivania e lo
osservava a mani giunte. Ma non c'era nulla di supplichevole nel suo
sguardo.
Sembrava intento a scrutare una colonia di batteri in una goccia di
sangue.
John provò un repentino senso di disagio e
occhieggiò la
porta d'ingresso: andare subito a dormire sembrava la miglior idea
degli ultimi
anni.
"John - disse Sherlock lentamente - ho bisogno di
te."
Il medico si schiarì la voce "Per cosa?"
"Per un esperimento." gli occhi chiari di
Sherlock non lo abbandonavano un istante.
"Oh." c'era della delusione nella sua voce? Sì. "Andiamo, colossale idiota! Cosa ti
aspettavi? No, non dirmelo, non voglio saperlo." John
litigò con il
suo subconscio prima di riuscire ad articolare un'altra frase di senso
compiuto
"D'accordo. Cosa devo fare?"
"Baciami." la voce di Sherlock, profonda e
chiara, non aveva la minima traccia di esitazione.
"P-prego?" nello specchio sopra al caminetto
John intravide la sua immagine: mai aveva avuto un'espressione tanto
stranita.
Aveva capito male, vero?
"Hai capito benissimo." disse Sherlock e,
dannazione, un giorno John gli avrebbe fatto confessare come riuscisse
a
leggergli nel pensiero. "Baciami." ripetè Sherlock.
"Perchè?" pigolò l'altro.
"Per l'esperimento e la risoluzione del caso. Ho
bisogno che tu mi baci."
Il dottore si premette una mano sulla fronte, come se
stesse per scoppiargli un forte mal di testa. Cosa che in
realtà stava
avvenendo.
Avanzò piano verso il suo coinquilino, attraverso l'aria
fattasi d'improvviso densa come latte, non sapeva se più
sconvolto da ciò che
stava per fare o dalla consapevolezza che non aveva pensato di
rifiutarsi, cosa
che sarebbe stata un suo legittimo diritto. Nemmeno per un istante.
"Baciare una
divinità. Un'occasione del genere quando ti ricapita?"
Certo, sarebbe stato decisamente più a suo agio senza quegli occhi chiarissimi che lo radiografavano... a pochi centimetri dal suo viso biascicò "Sherlock,
potresti chiudere gli occhi?"
"No, devo guardare."
"Già. L'esperimento." espirò John con acrimonia.
Per Sherlock era solo un accidente di test, scemo lui che voleva
leggerci a
tutti i costi qualcosa di più, scemo lui che si sentiva
impacciato come un
ragazzino alla prima cotta.
Maledizione.
Ma quello passava il convento e doveva farselo bastare.
Appoggiò timoroso i polpastrelli sulle sue guance, sempre
sotto lo sguardo vigile del detective. Il suo viso era morbido, liscio,
privo
di imperfezioni. Era davvero come baciare una divinità.
Non poteva resistere oltre. Chiuse gli occhi e appoggiò le
labbra su quelle di Sherlock. Un brivido percorse il suo corpo e tutti
i suoi
organi interni parvero vaporizzarsi in una vampata di calore.
Aumentò
leggermente la pressione, forzò le labbra di Sherlock a
schiudersi e inclinò la
testa per meglio farle aderire alle proprie. Mossa da
volontà autonoma, la sua
mano desta si fece strada nella foresta scura dei suoi ricci e gli
artigliò la
nuca.
Sherlock sussultò e per John su come una frustata:
lasciò
la presa e si allontanò precipitosamente di qualche passo.
Quanto tempo era passato? Tre, cinque secondi massimo.
Aveva il fiatone come dopo una maratona.
"Soddisfatto?" riuscì a dire, in un tono tutto
sommato dignitoso.
"Sì. L'esperimento ha avuto esito positivo. E il caso
è risolto." rispose lui con calma adamantina.
Si era sbagliato. Sherlock Holmes era
una statua. Una statua di freddo marmo. Perchè un essere
umano
non poteva mostrare un tale distacco dopo un bacio. John si
sentì piombare
addosso all'improvviso una stanchezza indicibile "Beh, buon per te. Io
ora
me ne vado a dormire." e fece per uscire.
"Tu mi ami." sentenziò il detective.
John si voltò, interdetto "Ora... ma... come... si
può sapere che accidenti ti è preso questa sera?"
"Mi hai baciato sulle labbra."
"Me l'hai chiesto tu e ora me lo rinfacci? Al diavolo tu e i tuoi dannati
esperimenti!" urlò il medico, al colmo dell'esasperazione.
"No. - puntualizzò il moro, per nulla impressionato
dalla sfuriata dell'altro - Io ti ho semplicemente chiesto di baciarmi.
Avresti
potuto darmi un bacio sulla guancia, o sulla fronte. Ma tu mi hai
baciato sulla
bocca. Quindi mi ami."
"Sulla guancia? Ma dove siamo, all'asilo? - il dottore cercò di esibirsi in una risatina di scherno, che risultò debole e poco credibile - Insomma, tu mi hai chiesto un bacio e quello per me è un bacio."
"Quindi se Molly o Lestrade od un qualsiasi estraneo te lo chiedesse, tu lo baceresti sulle labbra?"
"Certo che no! Ma tu non sei un estraneo qualsiasi, tu sei..."
John si sentì braccato, in trappola, con le spalle al
muro, metaforicamente e letteralmente, visto che ora era schiacciato
contro la
porta d'ingresso dallo sguardo trionfante di Sherlock, che era riuscito
a
fargli ammettere una cosa che nemmeno lui si era reso conto di sapere.
Sì, lo amava. Amava quel sociopatico, la sua vita
disordinata, senza orari nè regole, amava seguirlo nelle sue
corse per la città
e perdersi nell'ascoltare le sue deduzioni inappuntabili. Amava tutto
di lui,
anche i disgustosi esperimenti seminati ovunque per casa. E amava quel
corpo da
divinità classica.
Perfetto.
E irraggiungibile, come ogni divinità che si rispetti.
Fu quell'ultimo pensiero a farlo montare su tutte le
furie. Perchè John era certo che il suo fosse, senza alcun
dubbio, un amore a
senso unico.
E faceva male.
Più male di una pallottola nella spalla.
"Complimenti. E' così. - disse freddamente - Immagino
sia molto divertente dimostrare che sono talmente idiota da non
rendermi conto
dei mie stessi sentimenti."
"John..." iniziò l'altro, con il tono di voce
che si usa normalmente nei confronti di un bambino capriccioso e
testardo.
"Lasciami in pace."
Sherlock lo raggiunse e gli impedì di abbassare la
maniglia, chiudendogli il polso nella sua mano "John..."
ripetè, con
lo stesso tono.
"Si può sapere che altro vuoi ancora? Ti ho detto che
hai ragione, bravo! In fondo, a te non interessa nient'altro." Era
consapevole che, in effetti, si stava comportando come un bambino
capriccioso e
testardo, ma era troppo stanco, ferito e arrabbiato per badarci. "Un
bacio
dovrebbe essere... dovrebbe essere un gesto di... beh, di certo non
dovrebbe mai
essere uno stramaledetto esperimento scientifico."
Cercò di divincolarsi dalla presa dell'altro, ma senza
successo. Il detective gli inchiodò entrambi i polsi sopra
la testa e alzò gli
occhi al cielo "John, l'esperimento non era solo per te."
"Cosa vuoi che me ne importi?"
"Era anche per me - proseguì Sherlock - dovevo
assolutamente capire una cosa." un sorriso si fece largo sulle sue
labbra.
Quelle stesse labbra che, nonostante la rabbia e la vergogna, John
sentiva
ancora di voler baciare.
"C-cosa... cosa dovevi capire?" chiese in un
sussurro.
Il sorriso del moro si allargò a dismisura
"Questo." e fu di nuovo bocca su bocca, in un bacio di fuoco che
nulla aveva del timore reverenziale di quello di John di poco prima. I
suoi
organi interni si materializzarono di nuovo, solo per liquefarsi e
precipitare
nelle viscere. Non appena Sherlock gli lasciò le mani per
cingergli la vita,
John le affondò nuovamente, con gusto, in quei ricci
infiniti e meravigliosi.
Fu lui, a malincuore, a staccarsi per primo, in debito di ossigeno
anche per
via della sfuriata di prima. Doveva assolutamente imparare a mantenere
la
calma. "Hai chiuso gli occhi." sussurrò dolcemente.
Sherlock appoggiò la fronte alla sua "Stavolta non
era un esperimento."
La divinità era scesa sulla terra.
FINE
Decisamente non ho
il dono della sintesi.