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Autore: Arwis     17/09/2006    5 recensioni
E'una storia particolare, ambientata in uno dei numerosi paesi del mondo che ancora sfrutta i bambini-soldato. E' un racconto composto da un unico capitolo, ma che nella sua breve durata riassume tutto il dolore dell'infanzia rubata.
Genere: Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dopo aver corso tutta la notte quasi strisciava, sporcando ulteriormente gli abiti ormai laceri, che sembravano deridere quello che sarebbe dovuto essere il loro compito originale: proteggere quel corpo stanco dalle lame del freddo.
Il fango incrostava le sue braccia e il sangue si asciugava sulla pelle tirandola fastidiosamente. La pioggia cadeva imperterrita, goccia dopo goccia, impedendogli di vedere con precisione quale direzione stessero prendendo i suoi piedi.
Scappare. Combattere. Scappare.
Cosa importava chi fosse il nemico? Ora che ci pensava bene, non sapeva neanche se davvero ci fosse un nemico. Forse il vero problema era essere nemici di se stessi.
Cacciò via con veemenza quei pensieri dalla testa, tirando fuori i piedi stanchi e le mani dalla pozza di fango dove erano capitati.
Rialzandosi vide con chiarezza il sangue che sgorgava dalla ferita sullo stinco e improvvisamente sentì, bruciante e pulsante, il terribile dolore che l’accompagnava.
Cadde seduto, pesantemente. Qualcosa che non era una goccia di pioggia solcò la sua guancia. Era calda e quando raggiunse l’angolo della bocca fu quasi d’istinto catturata dalla lingua. Il sapore salato di quella stilla d’acqua, così simile alle altre in quella cascata di pioggia, richiamò una valanga di ricordi.
Sua madre l’aveva portato a giocare sulle altalene. Le ricordava chiaramente, vecchie e cigolanti, ma a lui che di giocattoli ne aveva visti ben pochi, sembravano l’oggetto che avrebbe portato la felicità nella sua vita. Il sole era quasi allo zenit e il caldo era denso, soffocante. Ma lui non lo soffriva. Era abituato alla sensazione del sudore che si mischiava alla polvere scendendo poi negli occhi, facendoli bruciare. Sua madre rideva e lui saltò giù dalla piccola giostra, correndo ad abbracciarla.
Si andava a lavorare, si lottava per vivere, si combatteva nell’esercito. Tutto ciò che succedeva all’esterno della sua realtà gli era completamente sconosciuto.
La vita era stata lavorare nei campi, era combattere e, con un po’ di fortuna, sarebbe stata tornare a lavorare nei campi. La vedeva chiaramente, la sua vita. Una serie di cause ed effetti che sarebbe morta annegando in un’appiccicosa melassa di malinconia e mediocrità.
La pioggia continuava a cadere, ostinata. Forse stava cercando di mondare quelle terre disastrate o forse il cuore degli uomini. Si alzò e ricominciò a zoppicare verso il limitare del bosco.
La ferita faceva male, male, male.
E’ la guerra che fa male. La pace forse no…. Ma dove trovare quella sconosciuta? Sicuramente fuori dal suo paese.
Sedette nuovamente. Quanto di quel dolore era stato causato da lui?
La prima volta che aveva ucciso un nemico, se l’era trovato davanti, niente tempo per pensare, solo un attimo per leggere la paura nei suoi occhi e per sentire il rumore dello sparo.
Il proiettile era partito quasi da solo. Colpì la gola di chi gli stava di fronte, preciso e letale.
Chissà cosa aveva pensato in quell’istante, l’ultimo istante. Come gli avevano insegnato sul camion polveroso che l’aveva portato fino a lì, iniziò a perquisire il cadavere con un misto di soddisfazione e nervosismo. Gli occhi della vittima erano rimasti sbarrati ed inespressivi. Lo guardavano, quegli occhi opachi. Lo accusavano o forse lo compativano.
Era da molto tempo che non aveva più l’occasione di parlare con se stesso. Prima di essere arruolato quei momenti di riflessione caratterizzavano le sue giornate. I suoi pensieri all’epoca erano di genere diverso.
Guardava le camionette di soldati che passavano dal suo villaggio, sollevando nuvole di polvere.
Ordinate, tutte uguali come i soldati che vi sedevano. Le osservava e in lui si scatenva sempre la stessa lotta tra paura del giorno in cui anche lui sarebbe stato lì sopra e voglia di rendersi utile, di mostrare che era un vero uomo.
Il tempo continuava a scorrere e l’atmosfera era tesa come una pelle messa ad essiccare. Nel suo villaggio era una pratica molto comune, che seguiva un preciso rituale, lo stesso ogni volta. Chi sa se avrebbe avuto occasione di rivederlo, di sentire l’odore del liquido in cui le pelli venivano messe a macerare… Non era gradevole, ma era migliore dell’odore di morte che aleggiava in quel posto.
Era odore di casa.
Aveva appena smesso di piovere e l’aria era stantia.
L’attesa sembrava interminabile. Era straziante. Non aveva idea di cosa stesse aspettando, ma sapeva che sarebbe arrivato. Si rialzò in piedi, deciso a continuare a camminare finché non fosse arrivato al villaggio più vicino. Non gli importava che disertare fosse il peggiore dei crimini di guerra, punibile con la morte. Ne sarebbe valsa la pena per pochi minuti di tranquillità.
Per pochi minuti di vita.
Il dolore alla gamba era quasi scomparso o magari era stato lui a farci l’abitudine. Ma lo zaino iniziava a pesargli sulle spalle. Lo poggiò a terra e lo alleggerì di tutto ciò che non era strettamente necessario. Conservò solo le armi e le scarse cibarie. Ricominciò la sua marcia, alienandosi da tutto ciò che lo circondava.
- Comportamento deplorevole - ripeteva tra sé e sé - perdere lo stato d’allerta. -
Il generale lo diceva sempre durante l’addestramento, ma ormai quel ragazzo in cammino nel bosco non era più in guerra con nessuno.
Doveva solo pensare a mettere un piede davanti all’ altro e a procedere verso la meta.
Un fruscio.
L’ istinto e l’abitudine lo portarono ad estrarre il fucile e a puntarlo nella direzione da cui aveva sentito provenire il rumore.
Silenzio. Nient’altro.
Un raggio di sole pallido e malaticcio illuminava il pulviscolo che aleggiava nell’aria.
Sembrava quella polvere con cui gli spiriti avverano i desideri. Fece per chiudere gli occhi ed esprimere il suo quando si sentì afferrare da dietro e buttare giù.
Cadde nel fango.
Non ora. Non poteva succedere in quel momento. Rotolò fino ad arrivare prono e con un balzo si alzò in piedi.
Nessuno.
I suoi nervi erano tesi e le vene delle tempie pulsavano velocissime, rombanti.
Di nuovo quel fruscio.
Si lanciò verso la direzione da cui l’aveva sentito provenire e afferrò l’aria. Era solida. Iniziò a colorarsi.
Un ragazzo, una divisa… sembrava quasi di riflettersi in uno specchio!
Il colpo.
Gli occhi di chi gli stava davanti si spalancarono, si riempirono di paura. Era rimasto immobile, con l’arma in mano.
Scena familiare. Gli sarebbe venuto da sorridere se non fosse stato per il dolore lancinante che si propagava nel suo ventre.
Quella volta era toccata a lui.
No, non avrebbe mai più rivisto il suo villaggio, non avrebbe più ascoltato le storie del vecchio del paese. Mai più avrebbe sentito l’odore di pelli al quale poco prima erano andati i suoi pensieri. Chiuse gli occhi e si accasciò a terra, contorcendosi per cercare di arginare il dolore.
Un tonfo. Qualcuno si era inginocchiato accanto a lui e gli stava sbottonando la giacca.
Singhiozzava.
C’era qualcuno che piangeva per lui, c’erano le foglie che cantavano… Il dolore scomparve e allora seppe di poter volare. Seppe di essere libero.

I BAMBINI SOLDATO NEL MONDO SONO MIGLIAIA. NON CI NASCONDIAMO DIETRO AD I NOSTRI EGOISTICI “NON SI PUO' FAR NULLA”. SI PUO', ED E' NOSTRO DOVERE LAVORARE PER UN MONDO MIGLIORE, PER TUTTI. NON DOBBIAMO AVERE PAURA DI VEDERE.

Spero che il racconto che ho scritto via sia piaciuto e soprattutto che vi abbia lasciato qualcosa... ora non vi resta che recensire, criticate pure se dovete, mi aiuterà a migliorare!
E' importante che voi lo facciate...
Al prossimo racconto!
Arwis

  
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