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Autore: __Jude    10/02/2012    5 recensioni
One shoot su Molly Hooper e Sherlock Holmes, dopo la caduta di Reichenbach. Non amo particolarmente questa coppia, ma, dopo essermela sognata, non ho potuto far a meno di scrivere questa storia. Enjoy! :)
Genere: Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Molly Hooper
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il laboratorio era freddo quella sera. Non che di solito fosse un posto accogliente, essendo adiacente all’ obitorio, ma quella sera sembrava preso da un gelo quasi inquietante. Mi guardai intorno, per accettarmi che non ci fosse nessuno, e non sentendo neanche un respiro che non fosse il mio, mi affrettai verso il mio ufficio. Già, se proprio ufficio si poteva chiamare. Diciamo che era una stanza che mi avevano cordialmente concesso per accatastarci dentro le mie cose. Non c’ era neanche una targhetta sulla porta per scriverci il mio nome, così, con lo scotch, ci avevo appiccicato un pezzo di carta che riportava la scritta ‘Molly Hooper’.
Mi sfilai il camice e lo ripiegai con cura sopra la scrivania. L’ orologio segnava le undici di sera e, dato che le mie palpebre si stavano facendo sempre più pesanti, non vedevo l’ ora di andarmene a casa. Più o meno.
Entrai nel laboratorio di chimica silenziosamente e, per quanto paradossale possa sembrare, alla sua vista sentii quel gelo farsi più forte. Sherlock Holmes sedeva in un angolo della stanza, le mani giunte, gli occhi chiusi, accanto a lui la tazza di caffè che gli avevo portato poche ore prima. Fredda anche quella.
Dopo averlo aiutato a fingere la sua morte, avevo anche acconsentito a nasconderlo. E come avrei potuto rifiutare? Saperlo al sicuro era per me uno dei più bei regali e essere consapevole che ero io a garantirgli una protezione, mi faceva sentire quasi in diritto di essergli più vicina di quanto potesse essere qualsiasi altra persona. In più, anche se John Watson iniziava a nutrire dubbi circa il suo suicidio, ero la sola a sapere che era vivo. Ed ero anche la sola a sapere come era sopravvissuto. In cuor mio, sentivo che questo mi conferiva una certa importanza.
Mi presi del tempo per guardarlo; lo facevo spesso, specialmente quando sapevo che non se ne poteva accorgere. Contemplai le deliziose curve dei suoi ricci neri, gli zigomi sporgenti, l’ armonia delle labbra. Mi attardai sui suoi occhi chiusi, sulle palpebre chiarissime che spiccavano sul viso come bolle. Improvvisamente spalancò gli occhi e, senza degnarmi di uno sguardo, sospirò. Sussultai come un ladro che è stato beccato a rubare.
“Hai interrotto il filo dei miei pensieri, Molly”.
“Scusa” mormorai con un sorriso. “Ti ho portato qualcosa da mangiare. Ho fatto un pranzo abbondante, quindi non mi è venuta fame nel pomeriggio. Ma dato che mi ero comunque preparata un sandwich, ho pensato che sarebbe stato uno spreco buttarlo” dissi appoggiando una busta di carta sul tavolo davanti a lui.
Sherlock guardò la busta e ne ispezionò il contenuto, quasi gli avessi consegnato una prova di un delitto. Poi sorrise in quel suo modo divertito e quasi superbo, accavallando le gambe.
“Sbagliato. Sapevi che stamattina non avevo mangiato e neanche ieri sera. Così, presa da chissà quale slancio d’ affetto, prima di venire al lavoro hai preparato due sandwich, uno per me e uno per te. Come lo so? Semplice. Il panino è incartato, ma non in modo casuale e sbrigativo, come si fa di solito con il proprio pranzo take-away, ma con cura direi quasi meticolosa. In più, sia l’ interno della busta che la carta che avvolge questo sandwich sono sporchi di maionese, ingrediente che so adori e che ha macchiato anche un bordo della manica del tuo maglione, segno che, in effetti, tu hai mangiato. Incartando il tuo panino velocemente, ne hai lasciate parti scoperte che hanno macchiato la busta e la carta, rivelando il tuo atto di cortesia verso di me”.
Sentii il respiro morirmi nel petto e le guance avvampare. Quell’ uomo aveva il potere di uccidermi e farmi rinascere allo stesso tempo. E anche in quei momenti in cui sembrava strapparmi il cuore dal petto con le sue stesse mani, sentivo che non avrei mai potuto amare una persona più di così. Mi ero scavata la fossa da sola, quando avevo deciso di confessare a me stessa il mio amore per lui, e ogni volta che sentivo di non poterlo avere era come se facessi un passo avanti verso quel baratro.
Sherlock mi guardò e sorrise compiaciuto. “Il fatto che tu stia arrossendo mi dice che ho ragione”.
Mi sistemai nervosamente i capelli dietro l’ orecchio, pregando che il cuore non mi esplodesse. “Volevo solo essere gentile”.
“La gentilezza ed io non andiamo mai assieme, dovresti saperlo ormai” rispose apatico. “Ora lasciami solo, devo continuare a riflettere”.
Presi un bel respiro e i miei piedi si stavano già incamminando verso l’ uscita quando una sensazione violenta e non del tutto nuova mi avvolse con forza. Socchiusi gli occhi e sentii i muscoli irrigidirsi, la gola seccarsi e il sangue affluire lentamente alle guance e alle orecchie. Mi voltai verso Sherlock, riconoscendo a pieno quell’ emozione: rabbia.
“Io non ne posso più”.
Sherlock alzò lo sguardo e aggrottò le sopracciglia, mantenendo però quella sua aria indifferente. Dischiusi le labbra, lasciando uscire tutte le parole che mi ero tenuta tra i denti in quell’ ultima settimana.
“Mi tratti come fossi uno straccio, come un ferro vecchio! Cosa che non dovrebbe disturbarmi più di tanto, visto che lo fai da quando ci conosciamo. Ma, chissà, da stupida quale sono, pensavo che averti salvato la vita avrebbe fatto la differenza! Io non me lo merito, Sherlock, io non me lo sono mai meritato!”.
Distese i muscoli facciali, facendosi improvvisamente serio, e il suo sguardo da vacuo divenne vigile. Era quello lo sguardo che mi piaceva, perché faceva sembrare Sherlock più mortale. Più vero.
“E’ tanto tempo ormai che ti tengo nascosto qui e tu non hai mai mostrato gratitudine. I primi giorni lo potevo capire, in fondo fingere di morire non è come andare a fare la spesa da Tesco e di sicuro tenere tutto nascosto a John non deve essere facile. Ma ad un certo punto pensavo ti stancassi di fare il cattivo e che mi guardassi come mi hai guardato quella volta che mi hai coinvolto in questo enorme e malefico casino. Dannazione, sto anche rischiando il mio posto di lavoro per te! Per te, poi! Per te che non hai il coraggio di farti vedere da John perché sei più spaventato di lui. Per te che non parli mai, mi scansi e non ascolti. Per te che prima mi fai sentire al sicuro e poi ti riveli come il pericolo. Per te che mi strappi il cuore”.
Sherlock non mi guardava più negli occhi. Batteva ripetutamente le palpebre, lottando contro le sue emozioni affinché non lo tradissero. Il suo respiro si era fatto quasi impercettibile e per un momento pensai che fosse in apnea. Il mio invece si era fatto affannato e mi morsi la lingua per non piangere.
Stava curvo sulla sedia, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e le maniche della camicia, arrotolate fino all’ avambraccio, rivelavano la pelle nuda e i muscoli in estrema tensione sotto di essa. Vene, tendini, sangue. Tutto di lui mi parlava, tutto il suo autocontrollo era sul punto di crollare. Lui scappava, io lo inseguivo.
“Non ho mai voluto farti sentire il peso della mia sofferenza. Forse semplicemente perché io stessa tentavo di ignorarla. In fondo, sarebbe meglio per entrambi, no? Ignorare, ignorarsi, far finta che l’ uno non conti niente per l’ altro. Solo che io non ci riesco, davvero. Io non so controllare le mie emozioni come fai tu e ti chiedo di perdonarmi per questo. Ma solo perché li vedi distintamente, questo non ti autorizza a giocare con i miei sentimenti”.
Sherlock alzò lo sguardo lentamente ed i suoi occhi glaciali e di una profondità quasi esasperante incontrarono i miei, lucidi e stanchi. Per la prima volta da quando lo conoscevo, sostenni il suo sguardo. Ci misi tutto l’ impegno che potevo, ma dovetti appoggiarmi al bordo del tavolo per non cedere. Non mi aveva mai guardata così a lungo.
“Non ho mai chiesto pietà. Non ho mai chiesto affetto. Non ho mai chiesto amore. Non vedo perché tu non debba darmi un po’ di gentilezza e riconoscenza”.
Appena percepii le mie ginocchia tremare, distolsi lo sguardo e sbattei più volte le ciglia, sperando che dai miei occhi non uscissero lacrime. Sotto alle palpebre chiuse era ancora vivida l’ immagine devastante dei suoi occhi. Il cuore mi bruciava nel petto, ma non mi pentii affatto delle parole dette.
Non ebbi il coraggio di muovermi, né di alzare la testa, bensì sentissi chiaramente il rumore della sedia sul pavimento. Sherlock mi si avvicinò, con una leggerezza tale che sembrava quasi non toccasse terra. Mi sfiorò il viso con la punta delle dita e mi alzò il mento, costringendomi a guardarlo di nuovo negli occhi.
“Ti chiedo di perdonarmi. E se mai rinascerò in un corpo nuovo e con una mente meno bastarda te lo chiederò di nuovo, Molly” sussurrò con un tono che mi sembrò quasi dolce. “E te lo chiedo un’ altra volta, qui: perdonami. E ricordami che dovrò chiedertelo per il resto dei miei giorni perchè non sarà mai abbastanza. Perdonami”.
Quella notte, in quel laboratorio che puzzava di scienza e disinfettante, mentre tutti lo credevano morto, Sherlock Holmes mi abbracciò. Sentendo le sue braccia forti attorno a me, dapprima non seppi che fare, ma poi il mio corpo fece da sé. Mi era sempre risultato molto difficile controllare il mio corpo quando ero con lui.
“Ti perdono” mormorai. “Per questa volta”.
Lui sciolse l’ abbraccio e rise in quel suo modo cupo e delizioso. “Spero di riuscire a mantenere la promessa, quella di mostrarti riconoscenza”.
“Tu non le mantieni mai le promesse” risposi abbassando lo sguardo per un attimo e mascherando la mia inquietudine con un sorriso. “Ma possiamo lavorarci su quello”.
Sorrise e senza dire altro si risedette al tavolo e aprì la busta con il mio sandwich. Mi accoccolai su una sedia accanto a lui e non potei far a meno di restare ad osservarlo con dolcezza e meraviglia. Quando guardi qualcosa che non puoi avere, ti sembra sempre più preziosa e splendida di quanto sia in realtà.
  
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