Buonasera! (se ci metto
ancora un po’ dovrò scrivere
‘Buonanotte’ :D)
Per prima cosa ringrazio i
lettori delle mie precedenti fan-fiction, vi risponderò uno
ad uno ma ci tenevo
a ringraziarvi anche qui. Siete fantastici, tutti :*
Rieccomi qua, rinnovata nell’anima
e nel cuore, a pubblicare un altro figlioletto, che mi si è
materializzato in
mente stanotte e che stamane ho voluto mettere per iscritto.
Sperando di non aver fatto troppo male,
Buona lettura!
S.
Scommettiamo?
Si respirava una strana aria,
a Baker Street, quella mattina. John era appena tornato dalla spesa,
aveva
posato le pesanti buste di plastica sul tavolo –facendosi
ovviamente spazio tra
scartoffie e strani sacchetti di cui non voleva assolutamente
conoscere il contenuto- e aveva cercato Sherlock con
lo sguardo, aspettandosi di trovarlo sul divano, come al solito. Invece
il sofà
era perfettamente in ordine, i cuscini poggiati esattamente al loro
posto, il
tappeto immacolato, senza scarpe o ciabatte di sorta sparpagliate qua e
là.
John cominciò a preoccuparsi.
Mentre sedeva sulla poltrona
a riposare un po’ le gambe dopo la scarpinata,
pensò a dove potesse essere
andato il suo coinquilino. Prima che potesse giungere ad una
conclusione fu
distratto da un rapido rumore di passi.
Si sporse dalla porta
d’ingresso, accorgendosi che il rumore proveniva dalle scale
che portavano alla
sua stanza. Si allarmò alquanto, ma quando fece per metter
piede sul primo
scalino, qualcuno quasi gli piombò addosso.
“Scusi! Scusi tanto!” disse lo sconosciuto. John lo
osservò meglio, per capire
chi fosse, per ricordare se l’avesse mai visto prima. Da
quando viveva con
Sherlock, aveva preso il vizio di studiare troppo
le persone. Ragazzo sui venticinque, rosso di capelli, occhi azzurri.
Altezza
media, fisico normale, abiti sportivi. No, era sicuro di non averlo mai
visto
in vita sua.
“Non si preoccupi, scusi lei” rispose John
continuando ad osservarlo, curioso. Il
ragazzo gli sorrise, arrossendo e il suo continuo osservare la porta
d’ingresso
gli fece intendere che avesse una certa fretta. Il medico gli
sgombrò il
passaggio e lo fece passare. John fece per tornare verso la sua
poltrona,
quando un' idea, un pensiero martellante lo costrinse a fermarsi.
Chi diavolo era?
Non era un cliente, questo
era certo. Di solito venivano ricevuti in salotto, alla presenza sia
sua che di
Sherlock e quest’ultimo, John non aveva idea di dove fosse.
Poi era lui che
gestiva i messaggi e le mail dei vari possibili clienti e quella
settimana,
Sherlock aveva bocciato praticamente tutti i casi che gli aveva
proposto.
Pochi secondi dopo, un altro rumore, lo stesso rumore di passi per le
scale, attirò
la sua attenzione. Sherlock comparve sulla soglia del salotto,
allacciandosi la
cinta della vestaglia e avanzando verso di lui con sguardo distratto.
“Bentornato, John” disse, sedendosi sulla sua
poltrona afferrando il giornale e
scomparendo dietro di esso.
John lo guardò, e poi guardò il pianerottolo
domandandosi cosa diavolo ci
facesse Sherlock in camera sua. E soprattutto –cosa che
più gli premeva sapere-
cosa stava facendo fino a cinque minuti prima con quel ragazzo?
Rimase in silenzio per
qualche secondo, cercando di trovare una spiegazione a quello che aveva
appena
visto. Dal canto suo, Sherlock non sembrava minimamente disposto a
fornirgli
una spiegazione anche se –e John lo sapeva- aveva certo
notato la sua
espressione stranita.
“John, devo chiederti un
favore” esordì Sherlock, prima di lui.
Piegò in due il giornale, gettandolo con
noncuranza sul resto della pila di quotidiani sul vecchio tavolo.
“Mi
occorrerebbe la tua stanza per qualche giorno”.
Il medico boccheggiò,
come un
pesce fuor d’acqua, senza sapere cosa dire. Sherlock attese
paziente, con le
mani incrociate sulle labbra.
“E potrei saperne il
motivo,
di grazia?” fu tutto quello che riuscì a dire,
davanti a quella richiesta.
“Perché è la stanza più in
alto. Ed è quasi completamente insonorizzata. Per
l’utilizzo che devo farne mi occorre il non
lasciar…trapelare troppo rumore”
Ovviamente, non aveva
risposto alla sua domanda. John sospirò, ormai ci aveva
fatto il callo.
“Si, ma cosa devi farci?
Qualcuna delle tue…stramberie?” domandò
ancora, non nutrendo troppe speranze in
una risposta.
“…ovviamente potrai usufruire della mia stanza nel
frattempo. Ma non aprire il
terzo cassetto da sotto della cassapanca. Ho un esperimento
in corso” John non ne aveva la minima intenzione. Anche
se sapeva che qualunque cosa ci fosse stata, sarebbe rimasto molto
più
spaventato dal modo sicuramente… curioso
in cui erano disposti i suoi vestiti la dentro. Decise che non avrebbe
indagato. Si rese conto che stava divagando anche lui. E si
rassegnò al fatto
che Sherlock non gli avrebbe detto che cosa aveva in mente.
“Assicurami almeno una
cosa,
Sherlock. Che non è nulla di pericoloso. Vorrei avere
indietro la mia stanza
con tutte le pareti a posto, per favore” John voleva solo
quello. Ormai con
Sherlock si aspettava di tutto. Non di meno un’esplosione del
piano di sopra, o
un’irruzione di un qualche cecchino russo in salotto.
Sospirò di nuovo.
Sherlock annuì
energicamente.
“Te lo assicuro” esclamò.
“Va bene”
affermò John alla
fine, scuotendo la testa. Sherlock accennò un sorriso e
scattò in piedi,
puntellandosi sul divano e poi atterrando sul tappeto, agilmente.
“Ti ringrazio, John” disse ancora, prima di
dirigersi verso le scale, a passo
svelto.
“Sherlock!” lo bloccò poi John,
desideroso di soddisfare una curiosità,
nonostante avesse combattuto con se stesso per rimanere zitto e ignaro.
A volte
era meglio non sapere, se si aveva a che fare con Sherlock Holmes.
“Si?”
“Non mi dirai chi era quel ragazzo che è sceso
dalle scale prima di te, vero?”
“No”
“Ok, Sherlock.” Disse, rassegnato. Impossibile dire
che non lo aveva
immaginato. “Il pranzo sarà pronto fra un
ora”
“Benissimo”
John rise, scuotendo la
testa. Cielo, se era strano. Ma quello che era certo è che
era stato più che
fortunato a trovare un uomo come lui, come inquilino. La noia non era
contemplata quando convivevi con Sherlock.
……
I giorni seguenti, John
cominciò davvero a trovare la situazione imbarazzante. Oltre
che totalmente,
incredibilmente inspiegabile. Non trovava una spiegazione, non trovava
un
motivo per quel continuo viavai nel loro appartamento. Il 221b di Baker
Street
in tutti gli anni della sua gloriosa esistenza non era mai stato
così affollato
come in quel momento.
Era iniziato tutto il giorno
dopo l’incontro di John con il rosso. Era successa la stessa
identica cosa del
giorno prima. Al ritorno della spesa John aveva visto scendere un altro
ragazzo
dalla sua stanza, o meglio dalla sua stanza in prestito
a Sherlock, e lo aveva inevitabilmente incrociato
all’ingresso.
“Salve” gli aveva detto con un sorriso
“io sono Bruce” John si era presentato a
sua volta e lo aveva lasciato andare, sempre più confuso.
Il giorno dopo era toccato a Rupert, giovedì a Steven,
venerdì a Andrew, sabato
a Mark. Addirittura domenica, il
traffico non era affatto scemato. Il gioviale e simpatico Martin aveva
colpito
non poco l’attenta Signora Hudson.
Il lunedì, John era
totalmente, visibilmente roso da una morbosa curiosità.
Voleva sapere. Voleva
sapere il motivo di quel continuo andirvieni, e si sentiva uno stupido
a non
averlo chiesto prima a Sherlock. Ma sapeva, lo leggeva nei suoi occhi
che non
gliel’avrebbe detto neanche sotto tortura. Non
l’avrebbe mai ammesso ma era…geloso
di tutta quella gente che saliva
e scendeva, di quei sorrisi compiaciuti sui loro volti dopo aver
lasciato la
stanza e di Sherlock che scendeva da lui dopo quel paio d’ore
chiuso li dentro,
facendo come se nulla fosse, leggendo il quotidiano o smanettando con
il suo
portatile.
Sherlock era ancora chiuso
nella stanza quando John rientrò. Guardando in alto, in
direzione delle scale,
incrociò per caso la signora Hudson, di ritorno anche lei
dalle compere. Quando
lo vide gli sorrise, comprensiva, dandogli un’amichevole
pacca sulla schiena.
“L’ho visto entrare, oggi” disse la
signora, osservando insieme a lui le scale,
cercando di carpire qualche rumore, ovviamente senza sentire nulla di
nulla “oggi
è Benedict”
squillò, arrossendo visibilmente
in viso e scostando lo sguardo, come se fosse in imbarazzo.
“Bel tipo, alto,
capelli scuri, spalle dritte e occhi chiari. Se avessi
vent’anni di meno…”
sussurrò sovrappensiero, per poi tornare alla
realtà, accorgendosi dello
sguardo misto tra il divertito e il sorpreso di John. “Ma
certi pensieri non
sono consoni ad una vecchia signora come me” subito mise le
mani avanti,
chinando lo sguardo a cercare qualcosa nelle tasche. John sorrise
affettuosamente
nonostante covasse per questo Benedict una sorta di rancore innato,
nonostante
nemmeno lo conoscesse.
“Grazie
dell’informazione,
Signora Hudson. Buona giornata” le augurò entrando
nell’appartamento, ancora
guardando la porta sottecchi.
Come al solito attese
Sherlock sulla soglia, a braccia conserte, battendo il piede sul
pavimento
nervosamente. Finalmente udì la maniglia della camera
abbassarsi e la porta
aprirsi con il suo solito cigolio lamentoso, che in quei giorni al
medico
pareva dieci volte più fastidioso del solito.
L’uomo che apparve
sull’uscio
costrinse John a cadere mollemente sulla poltrona, come se
all’improvviso le
gambe gli si fossero smaterializzate.
La Signora Hudson gli aveva reso giustizia; era di una bellezza fuori
dai
canoni comuni ma avrebbe potuto benissimo essere un modello o un
attore. Aveva
tutto al posto giusto. E oltretutto, stava guardando lui con un sorriso
mellifluo.
“Salve. Lei deve essere John” disse, con voce
profonda “Sherlock mi ha mandato
a chiedere un asciugamano pulito”
John chiuse la bocca, e si tolse l’espressione ebete che
probabilmente la sua
faccia aveva inevitabilmente assunto. Con gesti meccanici, senza
pensare,
afferrò un asciugamano dal cassetto più vicino e
la porse allo sconosciuto,
senza staccargli gli occhi di dosso. Non poté fare a meno di
notare una certa
somiglianza con il suo coinquilino.
“Grazie mille” rispose quello, che rispondeva
all’altisonante nome di Benedict.
“Si… si
figuri” riuscì a
biascicare. Poi scomparve nuovamente al piano di sopra.
John ebbe l’irrefrenabile
impulso di prendere a pugni il muro ma si trattenne, stringendo il
cuscino
della poltrona fin quasi a strapparlo in due pezzi. Che stava
succedendo? A che
diavolo gli serviva…un asciugamano?
Un
miliardo di domande, di perché?
Affollavano la mente di John.
Più Sherlock sembrava tranquillo, più la Signora
Hudson gli diceva di stare
tranquillo, che Sherlock era fatto così e che presto sarebbe
passata più John
continuava a infervorarsi. Era geloso, si, e per quanto avesse cercato
di non
definire così quel sentimento che lo attanagliava in quella
morsa fastidiosa,
non era riuscito a trovare un termine più adatto di quello.
Si rilassò, sprofondando
sulla sua poltrona preferita, alzandosi poi di scatto accorgendosi di
essersi
seduto su qualcosa di spigoloso, che si rivelò essere una
scatoletta di
cartone. La prese tra le mani e la osservò attentamente non
trovandovi segni di
cosa potesse contenere. Curioso, la aprì.
Dentro c’era una pila
disordinata di carte, per di più ricevute e scontrini.
Però solo un paio di
quei foglietti attirarono l’attenzione del medico.
Uno era un cartoncino blu, con una scritta in bianco. L’altro
era un semplice
foglio bianco con una scrittura disordinata, ma leggibile.
Quasi fece un salto, quando lesse il contenuto dei due messaggi.
“Sei il migliore. Grazie di tutto
quanto.
Mark”
“Non
ti ringrazierò mai abbastanza. Il tempo speso con
te è stato il migliore della mia vita. Grazie.
Martin”
“Oh,
Dio” esclamò John
scompigliandosi i capelli con una mano, shockato.
Aveva vagliato mille ipotesi
sul nuovo esperimento di
Sherlock. Ed erano tutte una più fantasiosa (e impossibile)
dell’altra. Non si
sapeva mai cosa aspettarsi con lui. John non doveva ragionare secondo
il
comportamento di una persona normale e questo lo infastidiva; doveva
ragionare
come Holmes e questo lo disorientava sempre in maniera cospicua.
Dopo una settimana, solo una
teoria era sopravvissuta al complicato intrigo di tesi e congetture del
Dottor
Watson. E lo spaventava, ingelosiva e divertiva immensamente allo
stesso tempo.
Voleva scoppiare a ridere ogni volta che ci pensava e
contemporaneamente
avrebbe voluto rinchiudere tutti quegli uomini in una cassa e spedirli
in Sud
America per il resto dei loro giorni, quasi come in un cartone animato.
John non aveva più dubbi ormai. Aveva vagliato ogni prova,
ogni indizio. E quei
biglietti, adesso, gli fornivano la prova decisiva. Sherlock era
diventato
sicuramente una specie di... intrattenitore
per signori.
Sapeva che anche lui era
umano e che prima o poi sarebbe voluto uscire dal guscio, in quel
determinato senso, almeno. Forse
era stufo delle
continue prese in giro di Mycroft, o semplicemente perché
gli andava così.
Aveva provato e gli era piaciuto. E magari aveva deciso di trasformarlo
in un
impiego extra. Non si poteva sapere con certezza, non con lui.
Mentre ancora era seduto tra
i cuscini, sentì qualcuno chiudere la porta
d’ingresso, con un rumore secco.
Quello che seguì fu il fruscio di passi strisciati sul
parquet.
“Buongiorno
Sherlock” disse
John automaticamente, senza nemmeno alzare lo sguardo.
“Buongiorno John” rispose l’altro aprendo
il frigo “hai comprato il latte?”
domandò come se nulla fosse successo, come se non avesse
passato due ore chiuso
nella sua stanza con un perfetto sconosciuto.
“Si, è nello sportello” rispose John,
rendendosi conto dell’assurdità della
situazione. Perché aveva accettato tutto così di
buon grado? Era il suo
coinquilino, per l’amor del cielo, e si era appropriato della
sua stanza senza
spiegazioni per…per fare chissà che. Aveva il
sacrosanto diritto di sapere. Il
dottore strinse i pugni e si alzò di scatto.
“Sherlock” attirò la sua attenzione. Il
coinquilino lo guardò con la coda
dell’occhio, posando il bidoncino del latte.
“Si?”
“Posso… posso
chiederti cosa
sta succedendo lassù da una settimana a questa
parte?” disse, e si morse la
lingua subito dopo. Aveva cercato di assumere un tono autoritario ma
quello che
era uscito fuori assomigliava più alla richiesta di un
bambino che chiedeva
alla mamma di uscir fuori a giocare.
“No” disse lui
semplicemente.
“ ‘No’ cosa?”
“Non puoi
chiedermelo”
specificò. Poi chiuse il frigo, svogliatamente.
John fece un respirò
profondo, cercando di raccogliere tutto il coraggio che
riuscì a trovare dentro
di se e abbattendo quel muro che gli impediva di parlar chiaro con lui.
Voleva una risposta e
l’avrebbe avuta, quel giorno stesso.
“Ho il diritto di
sapere”
sbottò Watson, irritato “viviamo insieme, per
l’amor del cielo!”
Sherlock gli rivolse
un’occhiata sbieca ma ugualmente penetrante. Si sedette su
una delle sedie
della cucina, a mani giunte pensieroso.
“Io non ti chiedo dettagli su cosa tu faccia con Sarah, con
Jeannette o con chi…tu
stia al momento”
John rise sarcastico.
“Non c’è bisogno che tu me li chieda.
Mycroft ti tiene aggiornato su ogni mio
passo”
“Ma c’è una piccola fondamentale
differenza, John! Non sono io che glieli
chiedo. Il fatto che lui voglia riferirmelo non conta”
John aprì e chiuse la bocca, con espressione tra lo
scocciato e lo sconcertato.
I ragionamenti contorti di quell’uomo lo avrebbero fatto
uscire di senno, prima
o poi.
“Queste cose però succedono qui! Non a casa di
Sarah o di Jeannette! E nella
mia camera!” esclamò, spazientito.
“Tu mi hai dato il permesso, se non sbaglio”
rispose lui guardandolo con
attenzione, gli occhi ridotti a fessure.
John si alzò, incapace
di rimanere
seduto ancora. Si sfregò le mani nervosamente.
“Si ma… io non ti ho dato il permesso di usare la
mia stanza per… per certe
cose!” riuscì a dire, alla fine. Stava imboccando
un sentiero pericoloso, ma
doveva sapere.
Sherlock sembrò
ridestarsi.
Spalancò gli occhi e si mise dritto sulla sedia accennando
un minuscolo
sorriso.
“ ‘Certe cose’?”
ripeté le parole dell’assistente. John
avvampò.
“Si, esattamente. So cosa… so cosa fai
lassù con loro” ammise, pieno
d’imbarazzo.
Sherlock
s’illuminò. Aveva
una strana luce, negli occhi e sembrava stesse studiando ogni
particolare del
volto di John. Stava certamente cercando di anticipare le sue mosse.
John si
voltò. Voleva avere lui in mano le redini del discorso, per
una volta.
“Sono stato
costretto”
sussurrò Sherlock, a bassa voce.
Il medico si voltò
nuovamente
guardandolo a bocca aperta. Aveva davvero detto quello che aveva
sentito?
Perché non gliene aveva parlato? Cosa diavolo
c’era sotto?
“Che…che
cosa?”
“Quei ragazzi avevano
bisogno
di…disciplina”
continuò ancora il
detective, incrociando le gambe e guardandolo con espressione diversa,
indecifrabile. Era la prima volta che John non lo vedeva sicuro di
sé.
“Di-disciplina?”
Il dottore
non poté evitare che nella sua testa si materializzassero
immagini di corde,
corpetti di pelle e…frustini vari. Scosse la testa come se
servisse a scacciar
via quel pensiero.
“Disciplina, John.
Vengono da
me solo perché io gli insegni, perché diventino
davvero bravi” spiegò, e sembrò
più rilassato. Tutto l’esatto contrario di come si
sentiva John.
“Oh Dio. E… che cosa potevi insegnare tu
che loro non sapessero?” balbettò, come in trance.
Tutta quella conversazione
gli sembrava surreale.
“Io?” Sherlock
parve offeso
“Io ho più competenza di quanto tu possa
immaginare” rispose.
“Sono confuso” John si toccò la fronte,
come per controllare che non scottasse.
Gli sembrava seriamente di essere nel bel mezzo di una delirante
allucinazione
dovuta alla febbre.
“Loro lo erano di
più.
Avresti dovuto vedere come maneggiavano quell’affare, John.
Da non credere”
sbottò scuotendo la testa al pensiero.
John dovette sedersi di nuovo. Sentiva le gambe diventare gelatina e la
testa
girare. Se qualcuno gli avesse detto che avrebbe sostenuto un dialogo
del
genere con il suo coinquilino, gli avrebbe certo dato del pazzo.
“Da non
credere” disse di
nuovo John, ripetendo le sue parole. “Ma sai che…
che insomma è illegale!” si
sforzò di dire, cercando di risvegliare un minimo di morale
in quel dissoluto e
totalmente out of carachter Sherlock
che aveva davanti.
Il detective lo guardò accigliato, inarcando un sopracciglio.
“Di cosa stiamo parlando,
John?”
Cadde il silenzio. John
cominciò a sentirsi a disagio.
“Non lo so. Dimmelo tu. Chiaro e tondo” voleva
un’ammissione di colpa, concisa
e sincera.
John continuò a guardarlo come se fosse mentalmente
instabile. Si alzò dalla
sedia e si appoggiò allo stipite della porta, aprendosi la
vestaglia e
infilando in tasca le mani.
“Alla scommessa che ho
perso
con Anderson” sbottò Sherlock guardando altrove,
con espressione disgustata “al
fatto che ho dovuto fare ripetizioni di violino a quasi metà
degli Archi
dell’Orchestra di Scotland Yard”
John voleva sprofondare,
eclissarsi, scomparire, smaterializzarsi come…come un Harry
Potter nel pieno
delle sue energie. Voleva trivellare il pavimento e scavarsi un tunnel
sottoterra fino a spuntare in Scozia.
Come diamine aveva fatto a
non pensare ad una cosa del genere? Come aveva fatto a contemplare
anche solo
l’idea che Sherlock fosse diventato una sottospecie
di…gigolò?
Arrossì furiosamente,
come
una lampadina di Natale impazzita. Il detective lo guardò,
preoccupato. Lo
fissò negli occhi, sguardo che John non riuscì a
mantenere, e parve comprendere
tutto in meno di un lampo. Maledetto.
“Oh”
esclamò, con un sorriso
“oh, oh, oh”
“Smettila,
Sherlock” disse
John sfregandosi gli occhi con le dita.
“Non so se esserne offeso
o
compiaciuto”
“Non dire niente, è meglio” disse John
tra i denti, ancora rosso in viso.
“E’ veramente
fantasiosa. Mi
lusinga che tu mi consideri tanto capace”
Se possibile, John assunse un
colorito porpora-scarlatto ancora più intenso, a quelle
parole. Cercò un posto
dove potersi nascondere. Non sapeva cosa dire e soprattutto non sapeva come dirle.
“Perché
non… perché non la
finiamo qui? Devi per forza farmi sentire un completo idiota per tutto
il
giorno?” sibilò borbottando il dottore.
Andò alla finestra a respirare una
boccata d’aria, ne aveva un bisogno quasi inumano.
“Sto solo lodando la tua
inventiva e la tua capacità… particolare di
analizzare i fatti e arrivare alle
conclusioni sbagliate” lo punzecchiò il detective.
John lo fulminò con lo
sguardo.
“E’ pur sempre un talento, mio caro. Non
offenderti” rispose Sherlock,
osservandosi le mani. “E poi… sai che per me sei indispensabile”
continuò.
John riprese il suo colorito normale e lo guardò sbigottito,
gli occhi sbarrati
dalla sorpresa. Non era mai, in tanti mesi di convivenza, stato tanto
esplicito
sul suo ‘lagame’ con lui.
“Mi sorprendi, Sherlock” riuscì solo a
dire, puntellandosi sul davanzale, alla
ricerca di qualcosa da fare.
“Dico davvero. Ci sono tante cose in cui il tuo aiuto
è sempre fondamentale”
John non aveva più
parole.
Gli puzzava talmente tanto di presa in giro... Decise di mantenersi
neutrale.
Non voleva mostrarsi entusiasta di quel comportamento per poi essere
miseramente smontato con qualche sua battutina acida.
“Ne sono contento,
Sherlock”
si limitò a dire. Però c’era qualcosa
che lo aveva colpito in tutta quella
faccenda, qualcosa a cui non era riuscito a trovare una spiegazione
razionale.
“Spiegami una cosa, però.” Gli
domandò, perdendo ogni imbarazzo “quale sarebbe
questa scommessa che hai perso con Anderson?”
Sherlock sorrise, con espressione sicura. Sapeva perfettamente che
quella
domanda sarebbe arrivata. Anzi, quel suo sopracciglio sollevato, quella
smorfia
particolare della sua bocca indicavano disappunto. Probabilmente si
chiedeva
come mai non gliel’avessi domandato prima.
Sherlock si avvicinò al medico, a passo lento, senza
staccare gli occhi dai
suoi.
“Anderson mi ha detto che
sono palesemente attratto da te” disse, con tutta la
semplicità del mondo. John
sentì nuovamente le gambe scomparire, come se fossero fatte
di gomma. Il cuore
mancò un battito. Aveva davvero detto quello che aveva
sentito?
“Io ho malauguratamente
risposto
di no, nell’immediatezza, sovrappensiero. Lui ha sorriso e mi
ha sfidato a
trovare venti giustificazioni che affermassero il contrario”
Il dottore lo fissò, e
deglutì incapace di spiccicare parole. Sembrò
aver dimenticato come fare uso
della lingua e della voce. Sembrò aver dimenticato
completamente la parola.
“…e
tu?” riuscì solo a dire,
districando la lingua da quell’intreccio immaginario.
“Io ho perso. Non ne ho
trovata nemmeno una” rispose, a voce bassa.
Il silenziò calò ancora una volta. Nessuno dei
due osava aggiungere una parola
e l’atmosfera gravava su di loro colma
d’aspettativa, d’attesa, di possibili
delusioni e di possibile…lieto fine.
John non si era mai sentito
così, con nessuna, con nessuno. Trovò dentro di
se un coraggio nuovo, diverso,
migliore. Non poteva ignorare tutto quello che era successo, e non
voleva,
affatto. Gli sembrava che la stanza brillasse di una luce bellissima,
rinnovata.
“Oh beh, Sherlock” disse, buttandola li come se
stesse parlando del tempo
“potrei aiutarti a trovarne qualcuna. Ma
necessiterò di uno studio…approfondito
da parte tua”
Sherlock
s’illuminò.
Socchiuse gli occhi e si avvicinò ancora.
“Come minimo”
“Un paio d’ore nella mia stanza di sopra dovrebbero
bastare, per cominciare”
Si sentiva pieno d’energia, pieno di… di qualcosa
che non riusciva a definire.
Ma era qualcosa di meraviglioso.
Sherlock sorrise. John non
poté fare a meno di imitarlo.
“Come potrei negare un ripasso di violino
al mio prezioso dottor Watson?”
*