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Autore: SAranel    10/02/2012    6 recensioni
John nota un certo insolito viavai al 221b di Baker Street. E Sherlock sembra conoscerne perfettamente il motivo, anche se si ostina a nasconderlo a John. Riuscirà il dottore a scoprire il 'mistero'?
“Posso… posso chiederti cosa sta succedendo lassù da una settimana a questa parte?” disse, e si morse la lingua subito dopo. Aveva cercato di assumere un tono autoritario ma quello che era uscito fuori assomigliava più alla richiesta di un bambino che chiedeva alla mamma di uscir fuori a giocare.
“No” disse lui semplicemente.
“ ‘No’ cosa?”
“Non puoi chiedermelo” specificò. Poi chiuse il frigo, svogliatamente.[...]
Genere: Commedia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Buonasera! (se ci metto ancora un po’ dovrò scrivere ‘Buonanotte’ :D)
Per prima cosa ringrazio i lettori delle mie precedenti fan-fiction, vi risponderò uno ad uno ma ci tenevo a ringraziarvi anche qui. Siete fantastici, tutti :*
Rieccomi qua, rinnovata nell’anima e nel cuore, a pubblicare un altro figlioletto, che mi si è materializzato in mente stanotte e che stamane ho voluto mettere per iscritto.
Sperando di non aver fatto troppo male,
Buona lettura!
S.

 

Scommettiamo?

 

 

 

Si respirava una strana aria, a Baker Street, quella mattina. John era appena tornato dalla spesa, aveva posato le pesanti buste di plastica sul tavolo –facendosi ovviamente spazio tra scartoffie e strani sacchetti di cui non voleva assolutamente conoscere il contenuto- e aveva cercato Sherlock con lo sguardo, aspettandosi di trovarlo sul divano, come al solito. Invece il sofà era perfettamente in ordine, i cuscini poggiati esattamente al loro posto, il tappeto immacolato, senza scarpe o ciabatte di sorta sparpagliate qua e là. John cominciò a preoccuparsi.

Mentre sedeva sulla poltrona a riposare un po’ le gambe dopo la scarpinata, pensò a dove potesse essere andato il suo coinquilino. Prima che potesse giungere ad una conclusione fu distratto da un rapido rumore di passi.

Si sporse dalla porta d’ingresso, accorgendosi che il rumore proveniva dalle scale che portavano alla sua stanza. Si allarmò alquanto, ma quando fece per metter piede sul primo scalino, qualcuno quasi gli piombò addosso.
“Scusi! Scusi tanto!” disse lo sconosciuto. John lo osservò meglio, per capire chi fosse, per ricordare se l’avesse mai visto prima. Da quando viveva con Sherlock, aveva preso il vizio di studiare troppo le persone. Ragazzo sui venticinque, rosso di capelli, occhi azzurri. Altezza media, fisico normale, abiti sportivi. No, era sicuro di non averlo mai visto in vita sua.
“Non si preoccupi, scusi lei” rispose John continuando ad osservarlo, curioso. Il ragazzo gli sorrise, arrossendo e il suo continuo osservare la porta d’ingresso gli fece intendere che avesse una certa fretta. Il medico gli sgombrò il passaggio e lo fece passare. John fece per tornare verso la sua poltrona, quando un' idea, un pensiero martellante lo costrinse a fermarsi.
Chi diavolo era?

Non era un cliente, questo era certo. Di solito venivano ricevuti in salotto, alla presenza sia sua che di Sherlock e quest’ultimo, John non aveva idea di dove fosse. Poi era lui che gestiva i messaggi e le mail dei vari possibili clienti e quella settimana, Sherlock aveva bocciato praticamente tutti i casi che gli aveva proposto.
Pochi secondi dopo, un altro rumore, lo stesso rumore di passi per le scale, attirò la sua attenzione. Sherlock comparve sulla soglia del salotto, allacciandosi la cinta della vestaglia e avanzando verso di lui con sguardo distratto.
“Bentornato, John” disse, sedendosi sulla sua poltrona afferrando il giornale e scomparendo dietro di esso.
John lo guardò, e poi guardò il pianerottolo domandandosi cosa diavolo ci facesse Sherlock in camera sua. E soprattutto –cosa che più gli premeva sapere- cosa stava facendo fino a cinque minuti prima con quel ragazzo?

Rimase in silenzio per qualche secondo, cercando di trovare una spiegazione a quello che aveva appena visto. Dal canto suo, Sherlock non sembrava minimamente disposto a fornirgli una spiegazione anche se –e John lo sapeva- aveva certo notato la sua espressione stranita.

“John, devo chiederti un favore” esordì Sherlock, prima di lui. Piegò in due il giornale, gettandolo con noncuranza sul resto della pila di quotidiani sul vecchio tavolo. “Mi occorrerebbe la tua stanza per qualche giorno”.

Il medico boccheggiò, come un pesce fuor d’acqua, senza sapere cosa dire. Sherlock attese paziente, con le mani incrociate sulle labbra.

“E potrei saperne il motivo, di grazia?” fu tutto quello che riuscì a dire, davanti a quella richiesta.
“Perché è la stanza più in alto. Ed è quasi completamente insonorizzata. Per l’utilizzo che devo farne mi occorre il non lasciar…trapelare troppo rumore”

Ovviamente, non aveva risposto alla sua domanda. John sospirò, ormai ci aveva fatto il callo.

“Si, ma cosa devi farci? Qualcuna delle tue…stramberie?” domandò ancora, non nutrendo troppe speranze in una risposta.
“…ovviamente potrai usufruire della mia stanza nel frattempo. Ma non aprire il terzo cassetto da sotto della cassapanca. Ho un esperimento in corso” John non ne aveva la minima intenzione. Anche se sapeva che qualunque cosa ci fosse stata, sarebbe rimasto molto più spaventato dal modo sicuramente… curioso in cui erano disposti i suoi vestiti la dentro. Decise che non avrebbe indagato. Si rese conto che stava divagando anche lui. E si rassegnò al fatto che Sherlock non gli avrebbe detto che cosa aveva in mente.

“Assicurami almeno una cosa, Sherlock. Che non è nulla di pericoloso. Vorrei avere indietro la mia stanza con tutte le pareti a posto, per favore” John voleva solo quello. Ormai con Sherlock si aspettava di tutto. Non di meno un’esplosione del piano di sopra, o un’irruzione di un qualche cecchino russo in salotto. Sospirò di nuovo.

Sherlock annuì energicamente.
“Te lo assicuro” esclamò.

“Va bene” affermò John alla fine, scuotendo la testa. Sherlock accennò un sorriso e scattò in piedi, puntellandosi sul divano e poi atterrando sul tappeto, agilmente.
“Ti ringrazio, John” disse ancora, prima di dirigersi verso le scale, a passo svelto.
“Sherlock!” lo bloccò poi John, desideroso di soddisfare una curiosità, nonostante avesse combattuto con se stesso per rimanere zitto e ignaro. A volte era meglio non sapere, se si aveva a che fare con Sherlock Holmes.
“Si?”
“Non mi dirai chi era quel ragazzo che è sceso dalle scale prima di te, vero?”

“No”
“Ok, Sherlock.” Disse, rassegnato. Impossibile dire che non lo aveva immaginato. “Il pranzo sarà pronto fra un ora”

“Benissimo”

John rise, scuotendo la testa. Cielo, se era strano. Ma quello che era certo è che era stato più che fortunato a trovare un uomo come lui, come inquilino. La noia non era contemplata quando convivevi con Sherlock.

……

 

I giorni seguenti, John cominciò davvero a trovare la situazione imbarazzante. Oltre che totalmente, incredibilmente inspiegabile. Non trovava una spiegazione, non trovava un motivo per quel continuo viavai nel loro appartamento. Il 221b di Baker Street in tutti gli anni della sua gloriosa esistenza non era mai stato così affollato come in quel momento.

Era iniziato tutto il giorno dopo l’incontro di John con il rosso. Era successa la stessa identica cosa del giorno prima. Al ritorno della spesa John aveva visto scendere un altro ragazzo dalla sua stanza, o meglio dalla sua stanza in prestito a Sherlock, e lo aveva inevitabilmente incrociato all’ingresso.
“Salve” gli aveva detto con un sorriso “io sono Bruce” John si era presentato a sua volta e lo aveva lasciato andare, sempre più confuso.
Il giorno dopo era toccato a Rupert, giovedì a Steven, venerdì a Andrew, sabato a Mark. Addirittura domenica, il traffico non era affatto scemato. Il gioviale e simpatico Martin aveva colpito non poco l’attenta Signora Hudson.

Il lunedì, John era totalmente, visibilmente roso da una morbosa curiosità. Voleva sapere. Voleva sapere il motivo di quel continuo andirvieni, e si sentiva uno stupido a non averlo chiesto prima a Sherlock. Ma sapeva, lo leggeva nei suoi occhi che non gliel’avrebbe detto neanche sotto tortura. Non l’avrebbe mai ammesso ma era…geloso di tutta quella gente che saliva e scendeva, di quei sorrisi compiaciuti sui loro volti dopo aver lasciato la stanza e di Sherlock che scendeva da lui dopo quel paio d’ore chiuso li dentro, facendo come se nulla fosse, leggendo il quotidiano o smanettando con il suo portatile.

Sherlock era ancora chiuso nella stanza quando John rientrò. Guardando in alto, in direzione delle scale, incrociò per caso la signora Hudson, di ritorno anche lei dalle compere. Quando lo vide gli sorrise, comprensiva, dandogli un’amichevole pacca sulla schiena.
“L’ho visto entrare, oggi” disse la signora, osservando insieme a lui le scale, cercando di carpire qualche rumore, ovviamente senza sentire nulla di nulla “oggi è Benedict” squillò, arrossendo visibilmente in viso e scostando lo sguardo, come se fosse in imbarazzo. “Bel tipo, alto, capelli scuri, spalle dritte e occhi chiari. Se avessi vent’anni di meno…” sussurrò sovrappensiero, per poi tornare alla realtà, accorgendosi dello sguardo misto tra il divertito e il sorpreso di John. “Ma certi pensieri non sono consoni ad una vecchia signora come me” subito mise le mani avanti, chinando lo sguardo a cercare qualcosa nelle tasche. John sorrise affettuosamente nonostante covasse per questo Benedict una sorta di rancore innato, nonostante nemmeno lo conoscesse.

“Grazie dell’informazione, Signora Hudson. Buona giornata” le augurò entrando nell’appartamento, ancora guardando la porta sottecchi.

Come al solito attese Sherlock sulla soglia, a braccia conserte, battendo il piede sul pavimento nervosamente. Finalmente udì la maniglia della camera abbassarsi e la porta aprirsi con il suo solito cigolio lamentoso, che in quei giorni al medico pareva dieci volte più fastidioso del solito.

L’uomo che apparve sull’uscio costrinse John a cadere mollemente sulla poltrona, come se all’improvviso le gambe gli si fossero smaterializzate.
La Signora Hudson gli aveva reso giustizia; era di una bellezza fuori dai canoni comuni ma avrebbe potuto benissimo essere un modello o un attore. Aveva tutto al posto giusto. E oltretutto, stava guardando lui con un sorriso mellifluo.
“Salve. Lei deve essere John” disse, con voce profonda “Sherlock mi ha mandato a chiedere un asciugamano pulito”
John chiuse la bocca, e si tolse l’espressione ebete che probabilmente la sua faccia aveva inevitabilmente assunto. Con gesti meccanici, senza pensare, afferrò un asciugamano dal cassetto più vicino e la porse allo sconosciuto, senza staccargli gli occhi di dosso. Non poté fare a meno di notare una certa somiglianza con il suo coinquilino.
“Grazie mille” rispose quello, che rispondeva all’altisonante nome di Benedict.

“Si… si figuri” riuscì a biascicare. Poi scomparve nuovamente al piano di sopra.

John ebbe l’irrefrenabile impulso di prendere a pugni il muro ma si trattenne, stringendo il cuscino della poltrona fin quasi a strapparlo in due pezzi. Che stava succedendo? A che diavolo gli serviva…un asciugamano?

 Un miliardo di domande, di perché? Affollavano la mente di John. Più Sherlock sembrava tranquillo, più la Signora Hudson gli diceva di stare tranquillo, che Sherlock era fatto così e che presto sarebbe passata più John continuava a infervorarsi. Era geloso, si, e per quanto avesse cercato di non definire così quel sentimento che lo attanagliava in quella morsa fastidiosa, non era riuscito a trovare un termine più adatto di quello.

Si rilassò, sprofondando sulla sua poltrona preferita, alzandosi poi di scatto accorgendosi di essersi seduto su qualcosa di spigoloso, che si rivelò essere una scatoletta di cartone. La prese tra le mani e la osservò attentamente non trovandovi segni di cosa potesse contenere. Curioso, la aprì.

Dentro c’era una pila disordinata di carte, per di più ricevute e scontrini. Però solo un paio di quei foglietti attirarono l’attenzione del medico.
Uno era un cartoncino blu, con una scritta in bianco. L’altro era un semplice foglio bianco con una scrittura disordinata, ma leggibile.
Quasi fece un salto, quando lesse il contenuto dei due messaggi.


“Sei il migliore. Grazie di tutto quanto. Mark”

“Non ti ringrazierò mai abbastanza. Il tempo speso con te è stato il migliore della mia vita. Grazie. Martin”

 
“Oh, Dio” esclamò John scompigliandosi i capelli con una mano, shockato.

Aveva vagliato mille ipotesi sul nuovo esperimento di Sherlock. Ed erano tutte una più fantasiosa (e impossibile) dell’altra. Non si sapeva mai cosa aspettarsi con lui. John non doveva ragionare secondo il comportamento di una persona normale e questo lo infastidiva; doveva ragionare come Holmes e questo lo disorientava sempre in maniera cospicua.

Dopo una settimana, solo una teoria era sopravvissuta al complicato intrigo di tesi e congetture del Dottor Watson. E lo spaventava, ingelosiva e divertiva immensamente allo stesso tempo. Voleva scoppiare a ridere ogni volta che ci pensava e contemporaneamente avrebbe voluto rinchiudere tutti quegli uomini in una cassa e spedirli in Sud America per il resto dei loro giorni, quasi come in un cartone animato.
John non aveva più dubbi ormai. Aveva vagliato ogni prova, ogni indizio. E quei biglietti, adesso, gli fornivano la prova decisiva. Sherlock era diventato sicuramente una specie di... intrattenitore per signori.

Sapeva che anche lui era umano e che prima o poi sarebbe voluto uscire dal guscio, in quel determinato senso, almeno. Forse era stufo delle continue prese in giro di Mycroft, o semplicemente perché gli andava così. Aveva provato e gli era piaciuto. E magari aveva deciso di trasformarlo in un impiego extra. Non si poteva sapere con certezza, non con lui.

Mentre ancora era seduto tra i cuscini, sentì qualcuno chiudere la porta d’ingresso, con un rumore secco. Quello che seguì fu il fruscio di passi strisciati sul parquet.

“Buongiorno Sherlock” disse John automaticamente, senza nemmeno alzare lo sguardo.
“Buongiorno John” rispose l’altro aprendo il frigo “hai comprato il latte?” domandò come se nulla fosse successo, come se non avesse passato due ore chiuso nella sua stanza con un perfetto sconosciuto.
“Si, è nello sportello” rispose John, rendendosi conto dell’assurdità della situazione. Perché aveva accettato tutto così di buon grado? Era il suo coinquilino, per l’amor del cielo, e si era appropriato della sua stanza senza spiegazioni per…per fare chissà che. Aveva il sacrosanto diritto di sapere. Il dottore strinse i pugni e si alzò di scatto.
“Sherlock” attirò la sua attenzione. Il coinquilino lo guardò con la coda dell’occhio, posando il bidoncino del latte.
“Si?”

“Posso… posso chiederti cosa sta succedendo lassù da una settimana a questa parte?” disse, e si morse la lingua subito dopo. Aveva cercato di assumere un tono autoritario ma quello che era uscito fuori assomigliava più alla richiesta di un bambino che chiedeva alla mamma di uscir fuori a giocare.

“No” disse lui semplicemente.
“ ‘No’ cosa?”

“Non puoi chiedermelo” specificò. Poi chiuse il frigo, svogliatamente.

John fece un respirò profondo, cercando di raccogliere tutto il coraggio che riuscì a trovare dentro di se e abbattendo quel muro che gli impediva di parlar chiaro con lui.

Voleva una risposta e l’avrebbe avuta, quel giorno stesso.

“Ho il diritto di sapere” sbottò Watson, irritato “viviamo insieme, per l’amor del cielo!”

Sherlock gli rivolse un’occhiata sbieca ma ugualmente penetrante. Si sedette su una delle sedie della cucina, a mani giunte pensieroso.
“Io non ti chiedo dettagli su cosa tu faccia con Sarah, con Jeannette o con chi…tu stia al momento”

John rise sarcastico.
“Non c’è bisogno che tu me li chieda. Mycroft ti tiene aggiornato su ogni mio passo”
“Ma c’è una piccola fondamentale differenza, John! Non sono io che glieli chiedo. Il fatto che lui voglia riferirmelo non conta”
John aprì e chiuse la bocca, con espressione tra lo scocciato e lo sconcertato. I ragionamenti contorti di quell’uomo lo avrebbero fatto uscire di senno, prima o poi.
“Queste cose però succedono qui! Non a casa di Sarah o di Jeannette! E nella mia camera!” esclamò, spazientito.
“Tu mi hai dato il permesso, se non sbaglio” rispose lui guardandolo con attenzione, gli occhi ridotti a fessure.

John si alzò, incapace di rimanere seduto ancora. Si sfregò le mani nervosamente.
“Si ma… io non ti ho dato il permesso di usare la mia stanza per… per certe cose!” riuscì a dire, alla fine. Stava imboccando un sentiero pericoloso, ma doveva sapere.

Sherlock sembrò ridestarsi. Spalancò gli occhi e si mise dritto sulla sedia accennando un minuscolo sorriso.
“ ‘Certe cose’?” ripeté le parole dell’assistente. John avvampò.
“Si, esattamente. So cosa… so cosa fai lassù con loro” ammise, pieno d’imbarazzo.

Sherlock s’illuminò. Aveva una strana luce, negli occhi e sembrava stesse studiando ogni particolare del volto di John. Stava certamente cercando di anticipare le sue mosse. John si voltò. Voleva avere lui in mano le redini del discorso, per una volta.

“Sono stato costretto” sussurrò Sherlock, a bassa voce.

Il medico si voltò nuovamente guardandolo a bocca aperta. Aveva davvero detto quello che aveva sentito? Perché non gliene aveva parlato? Cosa diavolo c’era sotto?

“Che…che cosa?”

“Quei ragazzi avevano bisogno di…disciplina” continuò ancora il detective, incrociando le gambe e guardandolo con espressione diversa, indecifrabile. Era la prima volta che John non lo vedeva sicuro di sé.

“Di-disciplina?” Il dottore non poté evitare che nella sua testa si materializzassero immagini di corde, corpetti di pelle e…frustini vari. Scosse la testa come se servisse a scacciar via quel pensiero.

“Disciplina, John. Vengono da me solo perché io gli insegni, perché diventino davvero bravi” spiegò, e sembrò più rilassato. Tutto l’esatto contrario di come si sentiva John.
“Oh Dio. E… che cosa potevi insegnare tu che loro non sapessero?” balbettò, come in trance. Tutta quella conversazione gli sembrava surreale.

“Io?” Sherlock parve offeso “Io ho più competenza di quanto tu possa immaginare” rispose.
“Sono confuso” John si toccò la fronte, come per controllare che non scottasse. Gli sembrava seriamente di essere nel bel mezzo di una delirante allucinazione dovuta alla febbre.

“Loro lo erano di più. Avresti dovuto vedere come maneggiavano quell’affare, John. Da non credere” sbottò scuotendo la testa al pensiero.
John dovette sedersi di nuovo. Sentiva le gambe diventare gelatina e la testa girare. Se qualcuno gli avesse detto che avrebbe sostenuto un dialogo del genere con il suo coinquilino, gli avrebbe certo dato del pazzo.

“Da non credere” disse di nuovo John, ripetendo le sue parole. “Ma sai che… che insomma è illegale!” si sforzò di dire, cercando di risvegliare un minimo di morale in quel dissoluto e totalmente out of carachter Sherlock che aveva davanti.
Il detective lo guardò accigliato, inarcando un sopracciglio.

“Di cosa stiamo parlando, John?”

Cadde il silenzio. John cominciò a sentirsi a disagio.
“Non lo so. Dimmelo tu. Chiaro e tondo” voleva un’ammissione di colpa, concisa e sincera.
John continuò a guardarlo come se fosse mentalmente instabile. Si alzò dalla sedia e si appoggiò allo stipite della porta, aprendosi la vestaglia e infilando in tasca le mani.

“Alla scommessa che ho perso con Anderson” sbottò Sherlock guardando altrove, con espressione disgustata “al fatto che ho dovuto fare ripetizioni di violino a quasi metà degli Archi dell’Orchestra di Scotland Yard”

John voleva sprofondare, eclissarsi, scomparire, smaterializzarsi come…come un Harry Potter nel pieno delle sue energie. Voleva trivellare il pavimento e scavarsi un tunnel sottoterra fino a spuntare in Scozia.

Come diamine aveva fatto a non pensare ad una cosa del genere? Come aveva fatto a contemplare anche solo l’idea che Sherlock fosse diventato una sottospecie di…gigolò?

Arrossì furiosamente, come una lampadina di Natale impazzita. Il detective lo guardò, preoccupato. Lo fissò negli occhi, sguardo che John non riuscì a mantenere, e parve comprendere tutto in meno di un lampo. Maledetto.

“Oh” esclamò, con un sorriso “oh, oh, oh”

“Smettila, Sherlock” disse John sfregandosi gli occhi con le dita.

“Non so se esserne offeso o compiaciuto”
“Non dire niente, è meglio” disse John tra i denti, ancora rosso in viso.

“E’ veramente fantasiosa. Mi lusinga che tu mi consideri tanto capace”

Se possibile, John assunse un colorito porpora-scarlatto ancora più intenso, a quelle parole. Cercò un posto dove potersi nascondere. Non sapeva cosa dire e soprattutto non sapeva come dirle.

“Perché non… perché non la finiamo qui? Devi per forza farmi sentire un completo idiota per tutto il giorno?” sibilò borbottando il dottore. Andò alla finestra a respirare una boccata d’aria, ne aveva un bisogno quasi inumano.

“Sto solo lodando la tua inventiva e la tua capacità… particolare di analizzare i fatti e arrivare alle conclusioni sbagliate” lo punzecchiò il detective. John lo fulminò con lo sguardo.
“E’ pur sempre un talento, mio caro. Non offenderti” rispose Sherlock, osservandosi le mani. “E poi… sai che per me sei indispensabile” continuò.
John riprese il suo colorito normale e lo guardò sbigottito, gli occhi sbarrati dalla sorpresa. Non era mai, in tanti mesi di convivenza, stato tanto esplicito sul suo ‘lagame’ con lui.
“Mi sorprendi, Sherlock” riuscì solo a dire, puntellandosi sul davanzale, alla ricerca di qualcosa da fare.
“Dico davvero. Ci sono tante cose in cui il tuo aiuto è sempre fondamentale”

John non aveva più parole. Gli puzzava talmente tanto di presa in giro... Decise di mantenersi neutrale. Non voleva mostrarsi entusiasta di quel comportamento per poi essere miseramente smontato con qualche sua battutina acida.

“Ne sono contento, Sherlock” si limitò a dire. Però c’era qualcosa che lo aveva colpito in tutta quella faccenda, qualcosa a cui non era riuscito a trovare una spiegazione razionale.
“Spiegami una cosa, però.” Gli domandò, perdendo ogni imbarazzo “quale sarebbe questa scommessa che hai perso con Anderson?”
Sherlock sorrise, con espressione sicura. Sapeva perfettamente che quella domanda sarebbe arrivata. Anzi, quel suo sopracciglio sollevato, quella smorfia particolare della sua bocca indicavano disappunto. Probabilmente si chiedeva come mai non gliel’avessi domandato prima.
Sherlock si avvicinò al medico, a passo lento, senza staccare gli occhi dai suoi.

“Anderson mi ha detto che sono palesemente attratto da te” disse, con tutta la semplicità del mondo. John sentì nuovamente le gambe scomparire, come se fossero fatte di gomma. Il cuore mancò un battito. Aveva davvero detto quello che aveva sentito?

“Io ho malauguratamente risposto di no, nell’immediatezza, sovrappensiero. Lui ha sorriso e mi ha sfidato a trovare venti giustificazioni che affermassero il contrario”

Il dottore lo fissò, e deglutì incapace di spiccicare parole. Sembrò aver dimenticato come fare uso della lingua e della voce. Sembrò aver dimenticato completamente la parola.

“…e tu?” riuscì solo a dire, districando la lingua da quell’intreccio immaginario.

“Io ho perso. Non ne ho trovata nemmeno una” rispose, a voce bassa.
Il silenziò calò ancora una volta. Nessuno dei due osava aggiungere una parola e l’atmosfera gravava su di loro colma d’aspettativa, d’attesa, di possibili delusioni e di possibile…lieto fine.

John non si era mai sentito così, con nessuna, con nessuno. Trovò dentro di se un coraggio nuovo, diverso, migliore. Non poteva ignorare tutto quello che era successo, e non voleva, affatto. Gli sembrava che la stanza brillasse di una luce bellissima, rinnovata.
“Oh beh, Sherlock” disse, buttandola li come se stesse parlando del tempo “potrei aiutarti a trovarne qualcuna. Ma necessiterò di uno studio…approfondito da parte tua”

Sherlock s’illuminò. Socchiuse gli occhi e si avvicinò ancora.

“Come minimo”
“Un paio d’ore nella mia stanza di sopra dovrebbero bastare, per cominciare”
Si sentiva pieno d’energia, pieno di… di qualcosa che non riusciva a definire.

Ma era qualcosa di meraviglioso.

Sherlock sorrise. John non poté fare a meno di imitarlo.

“Come potrei negare un ripasso di violino al mio prezioso dottor Watson?”

 

 

 

 

*

 

 

 

 

 

 


 



  
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