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Autore: ScratchThePage    11/02/2012    1 recensioni
Questa storia in realtà non è mia, ma di una mia "amica", che avrebbe voluto mandarla ad un concorso, ma per varie divergenze non ci è riuscita. Siccome (parole testuali):" Non ho sprecato tre ore della mia vita a scrivere questa cosa per niente." Mi ha chiesto se potevo pubblicargliela con il mio account su EFP, dato che così almeno qualcuno la poteva leggere. La storia, in poche parole, parla di questa ragazza che fa queste "Confessioni" per l' appunto ad un pubblico impassibile. Non saprei che altro dirvi, quindi... buona lettura.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Clarissa si avvicinò al microfono con una calma abilmente camuffata. Il corpo le tremava da cima a fondo, ma doveva dimostrare la sua solita sicurezza, altrimenti nessuno l’avrebbe ascoltata con la dovuta attenzione.
” B…buonasera” le sue parole rimbombarono nell’enorme salone. Tutta la gente che le stava davanti era seduta su comode poltrone di velluto e la stava fissando impassibile, come se ritenessero che quella ragazza con quella chioma color rosso rame e ribelle e quell’abbigliamento più adatto ad una ragazza della sua età, che alla sua corporatura femminile, fosse sul palco per sbaglio, non perché qualcuno l’avesse mandata là di sua spontanea volontà. Ma se in realtà era avvenuto proprio questo, allora la persona in questione doveva proprio essere una stolta. Perché mai far parlare una tipa del genere? Che cosa aveva da dire? Bastava vederla per capire che genere di ragazza fosse e, quindi, in quel momento avrebbe fatto meglio a tacere e a tornare da dove era venuta. Clarissa aveva sopportato quegli sguardi da una vita e ora aveva intenzione di soccombervi.
” Buona sera signori. Io oggi sono qui per dire una cosa molto importante, un peso che ho legato al collo da troppo tempo” prese fiato. Stava andando bene e non doveva mollare. Quella era un’occasione che non poteva perdere, doveva dire tutto ciò che aveva dentro:” Mia madre è morta quando ero ancora piccola, poco dopo che era nata mia sorella. Lo so, questa è una storia già sentita miliardi di volte, ma è proprio da quel momento che ho iniziato a chiudere dentro di me delle cose…no, farei meglio a definirle parole. Mio padre diventò il padrone effettivo del mio piccolo nucleo personale, e non lo descrivo così per una mia percezione personale. Era sicuramente un uomo giusto e, forse, sarebbe stato un buon educatore, ma aveva una mentalità troppo antica, quella di chi  ritiene che le donne debbano per forza di cose essere sottomesse all’autorità del sesso forte. Applicava questa sua concezione soprattutto nei confronti delle sue due figlie: obbedienza totale, nessuna lamentela per ciò che veniva richiesto, dato che era lui che comandava, nessuna opinione o idea contrastante alle sue, (eravamo donne, cosa potevamo saperne?), vestiti pressappoco da suora, e coprifuoco alle sei di sera. Io cercai, giuro, cercai di adattarmi alle sue regole, ma man mano iniziai a capire che non volevo fare la fine di mia nonna. Una persona fantastica e molto generosa, ma completamente sottoposta al marito, tanto che era divenuta la sua misera ombra. Io non volevo diventare una specie di fantasma piatto e pieno di rancori, e così iniziarono i miei no, assieme a quelle tremende litigate, dove ognuno sembrava fare a gara a chi urlava di più. Ma non mi importava, e neanche quando arrivavano le botte; io volevo far valere ciò che veramente ero.
Forse ho sbagliato a comportarmi così, forse avrei dovuto un giorno sedermi a tavola, sola con mio padre, e parlargli, senza urlare, con calma, e cercare di chiarirmi con lui, cercare di spiegare cosa provavo, che cosa non mi andava bene. Ma non l’ho mai fatto, e mi sono sempre tenuta tutto dentro. Crebbi, e con il tempo vidi che il mondo che mi circondava non era molto diverso da quello all’interno di casa mia. Approfittatori, oppressori, ricattatori, violenti, tutta gente che  cercava di sottometterti. Non posso di certo paragonare mio padre a molti di questi elementi, ma nella mia mente di allora anche lui voleva sopprimere il mio vero io, cercando di farmi diventare un burattino al quale poteva muovere liberamente i fili. Ma torniamo a ciò che stavo dicendo prima. Iniziai a guardarmi intorno e a  capire che neanche là fuori volevo essere sottomessa. In quel periodo mi piacevano i lupi. So che questo adesso non centra niente, ma ora vi spiego. Erano degli animali che mi interessavano molto, perché li vedevo forti, sicuri di sé, e sapevano far valere i propri diritti se qualcuno della loro specie cercava di opprimerli. Ma, più che i lupi che vivevano in branco, mi affascinavano molto quelli solitari, quelli che riuscivano a sopravvivere da soli, che sapevano affrontare gli altri se si mettevano sul loro percorso o, almeno, era ciò che pensavo. Così decisi di diventare un lupo solitario ed iniziarono i litigi con gli altri ragazzi, le risse, gli scherzi infimi, e tutto ciò per non essere inferiore a loro. Ma giuro, giuro che c’erano momenti in cui avrei voluto correre tra le braccia di qualcuno, piangere tutte le lacrime possibili e dire tutto ciò che sentivo, tutte le mie sofferenze, tutti i miei dolori. Ma non avevo nessuno che mi potesse ascoltare o, meglio, che ritenesse di potermi ascoltare. Mio padre lo odiavo a morte, e non gli avrei mai e poi mai scaricato quel fardello, e mia sorella la vedevo troppo piccola e poi… ma parlerò di lei più tardi. Rimaneva solo mia nonna ma, ogni volta che andavo a casa sua a farmi mendicare le ferite di battaglia vedevo nei suoi occhi una strana luce, come se anche lei, quand’era giovane, avesse voluto ribellarsi al sistema che l’opprimeva e, forse vedeva in me parte di ciò che avrebbe voluto essere.
Quindi non le dissi mai niente e mi mostrai sempre forte e sicura di me.
Così si conclude la prima parte del mio discorso, ed inizia quella che mi pesa di più.
Io ormai ero un lupo solitario e mi sapevo difendere dagli altri, ma le mie armi non erano solo le botte, ma anche le parole, quelle taglienti che, se dette al momento giusto, possono spezzare il cuore di una persona.
Ecco, adesso vi parlo di mia sorella. Forse lei ha saputo agire molto meglio di me a casa ma, sinceramente, tutt’ora non la invidio. Lei sì che era la “donna perfetta”, o almeno così la definiva mio padre: impeccabile, obbediente, silenziosa, vestita in modo decoroso e senza mai una protesta. Io non lo potevo sopportare e, quando eravamo sole, la tormentavo in tutti i modi, ma ciò che mi divertiva di più era insultarla. Una volta le dissi addirittura che non era mia sorella, che l’avevamo trovata sulla strada, abbandonata dalla sua vera madre, dato che una tale lagna non poteva venire dalla nostra famiglia di tosti. Lei era una creatura molto sensibile e la maggior parte delle volte mi urlava contro un :”Ti odio”. Detto con tutto il cuore, prima di chiudersi a piangere nella sua stanza. E ogni volta che sentivo quei gemiti mi veniva un nodo alla gola, assieme ad una terribile sensazione di malessere. Quanto avrei voluto correre subito da lei e chiederle scusa con tutto il cuore! Ma non vi andai mai: “Le serve da lezione, perché deve diventare forte anche lei.” Pensavo dentro di me, cercando di giustificare ciò che avevo fatto, ma spesso invano. Purtroppo non fu solo lei a pagare per la mia arroganza. Marco, uno dei tanti nomi che mi sono impressi nella mente. In classe era sempre stato un ragazzo tranquillo, silenzioso e molto per le sue. Un giorno, durante il cambio d’ora, fece una battuta ironica nei miei confronti. Non era niente di che e adesso, se la ripenso, mi viene anche da ridere. Ma in quel momento no, non mi piacque per niente. Aveva osato mettere in dubbio la mia autorità  e, in pochi secondi si ritrovò a terra, ricoperto da mille insulti nei suoi confronti e in quelli della sua famiglia e, per poco, non si ritrovò con un bell’occhio nero, se l’insegnante e qualche alunno non mi avessero fermata. Maledetto il mio essere lupo solitario! Lui non mi aveva fatto niente di male ed io l’avevo trattato in quel modo. Ma né lui né mia sorella sono le persone con cui vorrei scusarmi di più. Francesca. Questo nome non me lo toglierò mai dalla mente. Era mia amica e cercava di aiutarmi, cercava in qualche modo di … liberarmi da quella situazione di isolamento totale in cui mi trovavo, e in cui mi trovo tutt’ora. Non so perché lo feci. Forse perché pensavo che dovevo cavarmela da sola e che non avevo bisogno di nessuno, o forse perché volevo proteggerla da tutti gli aculei che ricoprivano la mia vita e il mio cuore, ma un giorno le mentì, le mentì spudoratamente, dicendole che non l’avevo mai ritenuta un’amica, che era un’imbranata, un’esile ragazzina senza un briciolo di logica, per non  aver capito che per tutto quel tempo l’avevo usata e altre cose ben peggiori. Ci rimase molto male, ma cercò lo stesso di riappacificarsi con me, ma io l’allontanai ogni volta in malo modo. Le spezzai sicuramente il cuore ma, se il suo era rotto a metà, il mio era completamente distrutto. Il dolore e le lacrime tornavano spesso durante la giornata e, specialmente di notte. Io cercavo di scacciarli, ma per molto tempo mi fu inutile. Avevo perso la mia unica amica e, forse, la migliore che avessi potuto trovare. Così il mio fardello aumentò, e mi incominciava a pesare sempre di più ma, ora finalmente posso dire che…….”
 
“Clarissa! Clarissa!”, una voce alquanto arrabbiata la svegliò da quel sogno ad occhi aperti, “come al solito siamo persi nel mondo dei sogni no?”
Odiava la professoressa Fabiola, era una delle peggiori insegnanti che aveva mai avuto. Anzi, forse odiava qualsiasi professore. Nel suo io tutta quella gente che cercava di imporsi su di lei con le sue stupide regole non le piaceva per niente. Certe anche le capiva, ma la maggior parte no. Le bastava avere una dittatura a casa, e non la desiderava anche in altri luoghi. Un’idea le balenò in mente. E se avesse ragione? E se adesso si fosse scusata con la signora Fabiola, ed avesse iniziato sempre a comportarsi così?
“No Clarissa, no. Così ti renderai solo debole ai loro occhi”. Eccola che tornava, quella maledetta voce. La chiamavano coscienza ma, allora, che razza di coscienza le era capitata? In fondo sapeva che era sbagliato tutto ciò che le suggeriva, ma lei la ascoltava lo stesso. Quindi Clarissa, come ogni volta, iniziò a protestare e a rispondere in malo modo alla professoressa, fino a quando questa non la sopportò più e la cacciò fuori dalla porta. Ormai vi aveva fatto l’abitudine, era da una vita che andava avanti così. Tirò un calcio al termosifone posto di fronte alla classe. Il piede cominciò a farle male, ma quel dolore era niente; tutta la rabbia che provava in quel momento la comprimeva. Doveva calmarsi. Adesso sapeva che sfogarsi facendo del male agli altri non serviva a niente e, anzi, la faceva stare solo peggio. Decise di utilizzare il metodo che ormai usava sempre. Cercò nella sua memoria le note della melodia ed iniziò a cantare quella canzone dei Queen che ormai era il suo inno personale.
  
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