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Autore: BBambi    12/02/2012    4 recensioni
La neve si adagiava su di loro, sui loro abiti, sui loro capelli.
A separarli solo il braccio teso di lei.
Gli occhi dell’uno si riflettevano in quelli dell’altra, mentre infondo a quel braccio si trovava una pistola che tremava nella mano incerta della donna.
La vita dell’uno dipendeva da quella dell’altro e non era solo quell’arma a fare la differenza.
Lui afferrò la canna della colt e se l’appoggiò sul petto.
«Spara Lisbon!».
Genere: Dark, Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Jane/Lisbon
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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NB: il testo in stile italico e racchiuso tra ** rappresenta i flash back.



48 Ore. Verso la fine.



Il perpetuo stillicidio d’acqua rimbombava in quella stanza claustrofobica. Le singole gocce restavano qualche secondo appese al bordo metallico della proboscide del lavandino, per poi schiantarsi con violenza nella piccola vasca, anch’essa d’acciaio. Insieme al ronzio delle luci artificiali, quei suoni da sala ospedaliera rimbalzavano sulle nude pareti di cemento.
Sentiva lacrime calde staccarsi dai suoi polsi e colare lungo tutta la lunghezza dell’avambraccio, disegnando reticoli di radici rosse. Sotto le cinture di cuoio che la costringevano sulla barella metallica la pelle era escoriata e sanguinante. Ma quel bruciore era nullo in confronto al fuoco che percepiva in mezzo al petto.
Sentiva qualcosa di pesante là, al centro della sua cassa toracica.
La luce del faro luminoso non le lasciava tregua, giorno e notte. Scivolava nell’incoscienza e riprendeva conoscenza per periodi di tempo che non riusciva a quantificare, in uno stato di confusione probabilmente alimentato dai sedativi che le venivano somministrati negli intervalli in cui la lucidità l’abbandonava.
Ogni volta che riapriva gli occhi si accorgeva di aver perso un nuovo pezzo di sé, un altro ricordo, un altro dettaglio.
Si ritrovava prigioniera, dimentica della propria identità e del modo in cui era giunta fin lì sotto.
In tutta quella luce che la stordiva e rendeva ogni cosa reale distorta, vedeva sempre più spesso galleggiare un viso bellissimo. Ma ad ogni apparizione la faccia le sembrava sempre più estranea e malvagia.
Il bel sorriso triste e lo sguardo sempre velato di malinconia si trasformavano in un ghigno crudele e divertito. I capelli d’oro prezioso si spegnevano, virando verso la tonalità malsana del bronzo, mentre l’azzurro pulito e sincero degli occhi sprofondava verso un blu oscuro, infinito, spaventoso.
Aveva dimenticato totalmente la voce che apparteneva a quella bocca, vedeva solo quelle labbra sottili arricciarsi e distendersi, sorridere malevole e beffarsi di lei, inchiodata a una lastra di ferro con un macigno sul petto.
Tentò per l’ennesima volta di liberarsi le mani, tirando con tutta la forza che le restava e lacerandosi le carni in profondità. Le parve che le manette di cuoio le fossero penetrate fino alle ossa e gridò con disperazione, ricevendo l’eco dei suoi lamenti come unica risposta.
«Liberami» singhiozzò senza neanche accorgersi che stava piangendo e implorando come una bambina impaurita.
La luce del riflettore sopra di lei si fece ancora più intensa, cancellando ogni cosa, accecandola con un bianco abbacinante. Come due fiammelle solforose, le iridi blu apparvero galleggiando nell’accecante bagliore, appuntandosi su di lei.
Eccoci, pensò, finalmente metterà fine alle mie sofferenze, uccidendomi.
Il viso scomparve e lei chiuse gli occhi, per accogliere il dolce ristoro del riposo eterno che l’avrebbe strappata al dolore.
Ma quello che sentì fu una forte scarica in mezzo al petto che la liberava da quel peso infernale. Il suono elettronico di un elettrocardiogramma eseguiva il ritmo del suo cuore impazzito con note digitali.
La donna tremò violentemente, la sua pelle percorsa da brividi gelidi s’imperlò di sudore, il suo respiro si fece affannoso.
« Respira lentamente» disse una voce nuova, gentile, calda. Lisbon chiuse gli occhi, non poteva sopportare altro, non poteva resistere ancora in quelle condizioni.
« Sono venuto a salvarti» disse ancora quell’uomo che non poteva vedere per la troppa luce « Io ti libererò».
Sentì un sorriso accendere quella voce rassicurante, che si stava allontanando da lei. Il riflettore si spense sulla sua testa e mentre il tugurio sprofondava nei bagliori soffusi dei soli neon, si accorse di quanto le dolessero e le lacrimassero gli occhi.
Le mani gentili del suo salvatore le liberarono i polsi e le caviglie.
« Non alzarti» le intimò l’uomo e lei obbedì, piccola creatura scossa dai brividi. Si posò una mano tremante e insanguinata sul collo iniziando a scendere, a esplorare il proprio corpo alla ricerca di quel fuoco che divampava con non meno ardore all’interno del suo petto.
Smise di respirare quando, con orrore, si accorse dello squarcio aperto tra le sue costole.

*

Era scioccante guardarla, rinnovata, rinata come una fenice dalle proprie ceneri ardenti. Il viso magro era ancora più affilato e severo, incorniciato dai soliti capelli scuri, che probabilmente si era tagliata da sola.
Le lunghe ciocche che le arrivavano alle spalle erano state accorciate fin sotto il mento con irregolarità, conferendole un aspetto randagio, selvatico. Gli occhi, i soliti occhi verdi, erano più stanchi e più distanti, privi di quella luce vitale che sempre li accendeva.
Ma ciò che era veramente scioccante erano le parole che quella donna aveva appena pronunciato.
«Allora significa che non mi hai cercata abbastanza…se desideravi così tanto uccidermi!»

*

« Non ti muovere» le ripeté carezzandole dolcemente i capelli « Adesso chiuderò questa brutta ferita e starai bene» prese una siringa contenente un liquido chiaro « Ti porterò via di qui, ora riposati».
Percepì il metallo freddo dell’ago penetrare nella sua pelle sottile, il liquido entrò in circolazione provocandole un leggero fastidio, ma non aveva neppure la forza di reagire. Non oppose resistenza al buio che calò sui suoi occhi.
Quando si risvegliò si trovava su un morbido materasso, coperta da un soffice piumone profumato. Si premette la coperta sul naso, riempiendosi i polmoni di quel profumo di ammorbidente.
Mentre la nebbia che avvolgeva la sua mente diradava balenò nei suoi occhi il ricordo di quello squarcio in mezzo ai suoi seni. Posò titubante una mano nel punto dolorante e trovò la fredda cicatrice che la divideva a metà come una bambola di pezza rattoppata.
Si sedette nel letto, aveva ancora indosso la tunica bianca insanguinata e maleodorante di sempre, ai polsi e alle caviglie braccialetti rossi di sangue, tatuaggi di pelle bruciata lasciati dalle costrizioni che l’avevano tenuta prigioniera.
I capelli sudici le incorniciavano il viso smunto, nel quale s’infossavano due occhi privi di qualsiasi luce. Quei riflessi di smeraldo si erano spenti, colorandosi dello stesso grigiore della sua faccia.
Lasciò vagare lo sguardo nella stanza, le spoglie pareti bianche accoglievano la luce tiepida del mattino, filtrata da sottili tendaggi candidi. Anche l’arredamento s’intonava alla tinta dell’intonaco, il grande armadio ed il comodino in legno erano laccati di bianco, con rifiniture dorate.
Il pavimento piastrellato di grandi mattonelle grigie aveva un aspetto freddo, in contrasto col dolce tepore di quel letto accogliente.
Mentre si perdeva ad esaminare tutti quei dettagli squisiti, iIl cigolio della porta la fece sobbalzare in quella stanza sconosciuta.
« Tranquilla» disse l’uomo portando con sé un vassoio carico di vivande « Ho pensato di portarti qualcosa da mangiare».
Il sorriso su quella faccia aveva un sfumatura compassionevole, s’impietosiva davanti a quell’animale tremante e impaurito che si appiattiva contro la testiera del letto.
Si sedette accanto a lei, offrendole diverse pietanze. La donna lo guardò come una bestia incerta e alla fine accettò il pasto, ingozzandosi avidamente, mandando giù il bolo senza neppure triturarlo, deglutendo interi bocconi.
Le lasciò tutto il tempo di rifocillarsi e tranquillizzarsi, poi le mostrò il bagno e gli asciugami che le aveva preparato.
« Lavati con calma, poi parleremo».
Fu la prima volta che si vide, davanti a quel grande specchio dalla cornice argentea. La cicatrice, gli ematomi, il corpo sfinito. E l’orologio di metallo. Guardò l’accessorio che abbracciava il suo polso martoriato, cercando la chiusura a scomparsa, invano.
Il cinturino era un anello metallico rigido continuo, interrotto dal piccolo foro di una serratura.
Rinunciò e s’infilò sotto la doccia, insaponandosi energicamente, lavando via quella sensazione di sporco che non era del tutto fisica. Quando tornò davanti allo specchio, avvolta nell’accappatoio di spugna iniziò a spazzolarsi. I capelli erano così intricati che i denti del pettine non riuscivano a sciogliere i mille nodi. Aprì un paio di cassetti e trovò le forbici metalliche.
Con decisione recise le lunghe ciocche annodate, che ricadevano volteggiando accanto ai suoi piedi nudi. Terminò di asciugarsi ed indossò gli abiti maschili che le erano stati lasciati sul marmo del lavandino.
« Ti stanno bene i capelli corti» tentò di sdrammatizzare l’uomo che l’attendeva nel salone, sprofondato in una poltrona rivestita di stoffa arancione «Vieni a sederti qui» la invitò indicandole il divano di fronte a lui. La donna tirò su i jeans che cadevano dai suoi fianchi stretti e si diresse verso il sofà.
« Immagino che avrai un’infinità di domande da fare…» cominciò l’uomo «Permetti che ti dia prima io qualche informazione».
La donna annuì senza parlare « Mi chiamo Brice Sheldon, sono medico e la cicatrice che ti ritrovi sul petto è stata eseguita da me » fece una breve pausa « Ho tentato di chiudere la ferita che si apriva sul tuo torace e ho cercato di sistemare come potevo quello che c’era sotto».
« Quello che c’era sotto?» balbettò la donna.
L’uomo di fronte a lei non parlò immediatamente, fissò prima il pavimento apparentemente alla ricerca delle parole giuste.
« Il tuo cuore…» iniziò la frase per poi lasciandola in sospeso.
« Il mio cuore?» lo incoraggiò a proseguire.
Sheldon prese fiato e iniziò a raccontare, a raccontarle di come l’aveva trovata con la cassa toracica in bella vista, i macchinari collegati al suo corpo, le flebo coi sedativi. Ma la cosa sbalorditiva era quella pesca di metallo adagiata tra i suoi organi vitali.
« Il tuo cuore è stato asportato e sostituito con un apparecchio artificiale a batteria…».
La donna si portò una mano al petto, sentendosi soffocare al pensiero di quella cosa di ferro dentro di lei. Le lacrime le inumidirono gli occhi e traboccarono senza freni.
L’uomo andò a sedersi accanto a lei, accogliendola fra le braccia.
« Calmati…respira…ora starai bene…» cercò di rassicurarla « Cosa ricordi?» le domandò carezzandole la testa dolcemente.
Lei si strinse nelle spalle e indugiò.
« Io voglio aiutarti…» la incoraggiò.
« Ricordo il letto di metallo, il dolore, le manette di cuoio. E quell’uomo…»
« Quale uomo?»
« Non so il suo nome…Conosco solo la sua faccia…»
« Puoi descrivermelo?».
« Capelli biondi…occhi blu…» scosse la testa, profondamente turbata.
« Se ti mostrassi una sua foto lo riconosceresti?»
« Sì…»
L’uomo si alzò e si avvicinò al tavolino sul quale era deposta una foto « E’ questo l’uomo che ti ha fatto del male?» disse mostrandole lo scatto di un primo piano.
« Sì .»
«Quest’individuo è un pericoloso psicopatico. Sono riuscito a trarti in salvo in tempo. Ma ti starà cercando…per ucciderti. Cercherà di avvicinarti e se tu lo accuserai lui negherà. Ti dirà che ti stai sbagliando. Ti racconterà delle cose della tua vita, solo per confonderti. Non credergli. È un uomo furbo, manipolatore, crudele, disposto a tutto»
« E tu come fai a saperlo?» gli domandò lei frastornata da tutte quelle informazioni.
«Perché ha fatto del male anche a me».
Alzò il viso per guardarlo negli occhi.
«Ha ucciso mia moglie e mia figlia» sussurrò tra i denti l’uomo, guardando un punto imprecisato nella stanza, mentre i suoi occhi si velavano di lacrime trattenute.
Si massaggiò subito le palpebre e tornò ad appuntare le iridi scure in quelle della donna.
«Con le mie cure ho potuto solo allungare il tuo tempo per adesso. L’orologio che hai al polso è un contattore. Il cuore che hai nel petto è in realtà una batteria. Quell’uomo ha fatto esperimenti su di te, innestandoti un cuore artificiale. Purtroppo l’autonomia non è illimitata, occorre ricaricarlo con sostanze particolari. Nel momento in cui l’orologio si attiverà inizierà un conto alla rovescia che ci dirà quanto tempo ti resta prima di doverlo ricaricare. Più tardi faremo una stima della carica residua in modo da avere un’idea di quanto tempo abbiamo».
Fece una pausa, guardandola nutrirsi di quelle parole cariche di speranza.
«Ma come ben sai niente è gratuito, benché io e te in un certo senso ci troviamo sulla stessa barca, ogni cosa ha il suo prezzo. Aiutami e io potrò ridarti la normalità. Devi fare una cosa per me…e per te. Portami l’uomo che ci ha rovinato, ci vendicheremo insieme e tu potrai riprenderti la tua vita. Allora che ne dici…Elisabeth?»
Si toccò il petto senza avvertire alcun suono.
«D’accordo!»
« Patrick Jane pagherà per i suoi crimini»

*

Il sole stava tramontando di nuovo, colorando di rosso gli uffici del CBI, ancora brulicanti di vita. Van Pelt era completamente assorbita dalle sue ricerche virtuali, mentre Cho e Rigsby, dopo un’ulteriore perlustrazione diurna al complesso nei pressi del museo ferroviario, erano chini su documenti, scartabellando prove su prove.
L’irruzione nel deposito ferroviario abbandonato della sera prima non solo li aveva condotti all’ennesimo punto morto, ma aveva comportato anche la perdita di un membro della squadra. Dopo aver perlustrato l’enorme stabile E, segnalato come sito dell’ultimo avvistamento di William Turn, Grace aveva fatto ritorno al fuoristrada ravvisando subito l’assenza del rumoroso consulente.
Il veicolo non riportava alcun danno e nella neve erano impresse tre paia di impronte che andavano verso il magazzino E – sue e dei due colleghi - mentre un altro paio solitario se ne staccava e si dirigeva verso ovest. Nessun segno di lotta.
Van Pelt aveva allora composto il numero di cellulare del collega. Il telefono aveva continuato a squillare a vuoto.
Dopo alcuni secondi Grace aveva richiamato i compagni e seguendo le orme delle suole di Jane sulla coltre erano giunti fino allo stabile B, dove il pavimento di cemento interrompeva le tracce.
Con le torce avevano illuminato ogni angolo, mentre la giovane tentava nuovamente di contattare il mentalista col cellulare.
La suoneria sobria di Patrick Jane era risuonata nel cantiere abbandonato, riempiendo il silenzio notturno.


« Ma che stai dicendo Lisbon?»
« Smettila di chiamarmi in quel modo!»
« In quale modo?» domandò lui inarcando confusamente il sopracciglio.
Lei scosse la testa, mentre un sorriso amaro le increspava le labbra « L’aveva detto che avresti fatto così».
Sempre più disorientato si appoggiò come meglio poteva allo schienale « Di che stai parlando?»
Lei non gli rispose e si limitò a fissare la strada, le dolci pianure costiere stavano lentamente lasciando spazio a un paesaggio montuoso, aspro e gelido, con quelle cime incappucciate di neve che si scorgevano tutt’attorno.
Il sole basso sull’orizzonte imporporava ogni cosa coi suoi raggi apparentemente caldi, la luce cremisi si scioglieva nell’aere e si disperdeva, mentre la parte più alta del cielo si vestiva di tenebre notturne e nuvole di neve, nascondendo le gemme stellari alla vista.
« Bene, come vuoi che ti chiami, allora?» riprese con voce più rilassata, cercando di stare a quel bizzarro gioco, del quale ancora non aveva compreso le regole.
« Preferirei tu tacessi e non mi rivolgessi la parola, ma posso sempre tapparti la bocca con dello scotch» terminò asciutta, facendo un cenno con la testa verso il retro della macchina.
Jane scrutò con la coda dell’occhio i sedili posteriori, alcuni rotoli di nastro adesivo facevano compagnia a un paio di cesoie e ad una fune.
Tornò a guardare la donna, era esausta ma allo stesso tempo la postura dritta lasciava trasparire la determinazione che la guidava. No, non stava mentendo. Ma questo non chiariva la situazione.


Un uomo vestito in giacca e cravatta fece capolino nell’ufficio « Agente Rigsby dovrebbe venire immediatamente, abbiamo un presunto assassino che dovrebbe interrogare!».
Prima di seguire il collega nel corridoio Wayne si fermò accanto a Grace.
« Tutto questo non ha senso» attaccò lei con gli occhi completamente assorbiti dal monitor dell’ordinatore che aveva davanti « Perché l’FBI avrebbe dovuto depistarci? E’ la seconda soffiata che ci arriva da loro e abbiamo perso un altro agente.. ma che diavolo succede?»
« Puoi rintracciare l’indirizzo IP del mittente?» domandò l’uomo portandosi alle sue spalle.
Lei si voltò sorpresa « indirizzo IP? Da quando sei diventato tu l’esperto informatico? » cercò di sdrammatizzare, ma la tensione era palpabile « Chiunque si sia messo in contatto con noi ha utilizzato un rigeneratore di indirizzi che mi crea difficoltà a rintracciarlo…ma vedo cosa posso fare…»
L’uomo in piedi sospirò e s’incamminò verso l’uscita.
Il telefono sulla scrivania dell’agente asiatico squillò un paio di volte prima che lui rispondesse « Cho» s’identificò ermetico.
L’uomo annuì un paio di volte, sotto lo sguardo incuriosito di Grace.
« Bene, può farmi avere immediatamente quei nastri? Inutile dire che si tratta di una situazione di emergenza». Scambiò formali saluti con l’interlocutore e riattaccò.
La donna lo fissava carica di aspettative « Abbiamo qualche pista?»
Cho tornò a guardare i documenti sulla sua scrivania « Le telecamere stradali hanno ripreso una macchina che si allontanava dall’area interessata» voltò pagina « Ci faranno avere i video entro un’ora, così potremo risalire al modello e alla targa» fece una breve pausa posando gli occhi su di lei « e se siamo fortunati vedremo anche la faccia del conducente».


Camminando verso la stanza per gli interrogatori, Wayne aveva preso a sfogliare il fascicolo relativo all’indiziato passatogli dal collega.
Nel verbale, stilato dagli ufficiali responsabili del fermo del sospettato, veniva esplicitamente riportato come l’uomo si fosse introdotto in casa di una giovane donna, provvisto di una sacca contenete vari strumenti chirurgici.
Purtroppo per lui la donna, che stava rincasando, si era immediatamente accorta dei segni di effrazione sulla porta e non aveva esitato a chiamare la polizia. L’uomo, nascosto in una delle stanze, era stato trovato e prelevato da alcuni agenti.
Grazie al materiale che portava con sé e al modus operandi era stato ricollegato alla figura fittizia del chirurgo e per questo assegnato alla squadra che fino a quel momento se n’era occupata.
Aveva confessato di chiamarsi William Turn, ma di più non aveva aggiunto.
Giunto davanti alle vetrate della stanza, oscurate da tapparelle metalliche, Rigsby richiuse il dossier e varcò la soglia.
L’uomo seduto al tavolo degli interrogatori teneva il capo chino, torturandosi nervosamente le dita.
« Signor Turn?» Rigsby richiamò la sua attenzione, gettando un ultimo sguardo alla foto segnaletica che avevano ricevuto il mese prima e che lui stesso aveva appena allegato alla documentazione.
Quando l’uomo alzò il viso, Wayne rimase sorpreso nel cogliere quella fisionomia ignota.

 

*

Un grido disperato si schiantò contro il muro del silenzio notturno, frantumandolo.
Una luce si accese nella casa, mentre un veloce scalpiccio rimbombava sul parquet. La porta della camera si spalancò e lei era lì, seduta su quel letto, lo sguardo fisso nel vuoto, le unghie infilzate nella coperta come coltelli.
« E’ venuto a prendermi…è venuto ad uccidermi…l’ho visto…» singhiozzò, voltandosi verso la fessura di luce che proveniva dalla soglia aperta.
Lui entrò nella camera e le sedette accanto.
«Va tutto bene, sei al sicuro, te l’ho detto, qui non può trovarti» le prese le mani, aveva bucato il piumone per la violenza con la quale vi si era aggrappata « Ti darò qualcosa per dormire»
« Grazie…Brice»
L’uomo uscì dalla stanza per tornare con un flacone di sonnifero. Gliene somministrò tre gocce sotto la lingua e lei riuscì ad affrontare la prima notte da donna liberata.
Tuttavia, se le medicine la facevano dormire, non le impedivano di sognare, la tenevano anzi prigioniera dei suoi incubi senza che potesse fuggirne, per rifugiarsi nell’insonnia.
Ogni volta che chiudeva gli occhi si ritrovava distesa sull’asfalto, imprigionata, incatenata al suolo, mentre quella faccia le precipitava addosso, maschera gigantesca senza corpo. Gli enormi occhi erano sferici oceani in tempesta, increspati da onde e schiuma salata. E ogni volta ci cadeva dentro e si sentiva annegare in quel turbinio di correnti. Quando la centrifuga iridea la risputava fuori si ritrovava a rotolare in una prateria di spighe dorate. Ma ben presto si accorgeva che il campo era in fiamme ed era accerchiata dal fuoco, mentre le lingue incandescenti si allungavano verso di lei per assaggiare la sua pelle, per divorarla e consumarla.
Quando l’effetto dei tranquillanti esauriva la sua efficacia si svegliava di soprassalto, madida di sudore, in crisi respiratoria, mentre quel cuore di piastre metalliche e circuiti elettrici rimandava un flebile battito ronzante, leggero, artificiale, disumano.
Passarono cinque giorni, Brice Sheldon si prendeva cura di lei e le raccontava pian piano ogni dettaglio della vicenda.
Le spiegò di come, dopo la morte della sua famiglia, avesse deciso di vendicarsi. Aveva deciso di mettersi al servizio della legge ed era riuscito ad entrare in collaborazione con l’FBI, grazie ai suoi studi di medicina.
Quel mostro a cui davano la caccia era davvero astuto, non lasciava tracce ed era praticamente impossibile da identificare, ma finalmente era riuscito a risalire alla sua identità e aveva scovato uno dei suoi laboratori, proprio quello dove lei era stata tenuta prigioniera.
«Collaboro al caso di quest’uomo da molti anni ormai, ma quando ho scoperto uno dei suoi nascondigli e ti ho trovata ho deciso di non denunciarlo alla poliziaà…ti ho curata e salvata….in più, a causa di quel macchinario che hai nel petto, la maggior parte degli scienziati vorrebbe studiarti come una cavia…» la guardò dritto in faccia « Io non voglio consegnarlo alle autorità, lo voglio morto…per mano mia…per mano nostra...Ti prego Elisabeth..aiutami…»
Leggeva una sincera disperazione negli occhi di quell’uomo che le aveva restituito la vita e che giorno dopo giorno le stava anche restituendo la sua identità, o almeno così lei credeva « Grazie al mio coinvolgimento nel caso ho avuto accesso a molte informazioni su di te. Tu eri sola al mondo, non hai più una famiglia, proprio per questo eri una preda perfetta…»
La donna si sentì profondamente triste e ancora più sola di quanto già non si sentisse a causa del totale buio sui suoi ricordi « Non ho un marito? Una mia famiglia?».
« No tu eri una donna in carriera…non avevi tempo per nessuno e hai finito con l’isolarti…persino i tuoi colleghi che abbiamo interrogato non sapevano quasi nulla di te…»
« E’ una cosa davvero molto triste…» concluse lei facendo una breve pausa « Io ti aiuterò Sheldon…»
Lui le prese le mani concitatamente « Faremo sparire quel mostro dalla faccia della terra…nessuno se ne accorgerà e noi potremo riprenderci le nostre vite….»
La donna annuì, mentre un timido sorriso colmo di speranze faceva capolino sulle sue labbra disidratate.

 

*

« Che diavolo ti è successo Lisbon?»
Quell’uomo pericoloso e fastidioso era anche logorroico, non era riuscito a farlo tacere neppure con le minacce.
« Che mi è successo?» ghignò amareggiata facendogli eco « Dovresti saperlo molto bene»
« So che ti hanno rapita mentre indagavamo su un caso e…»
Lei lo interruppe con violenza, gridando « Sta zitto!» e lui non ebbe la forza di parlare ancora, vedendo quegli occhi esausti velarsi di lacrime.
Qualsiasi cosa le avessero fatto, avevano incluso anche un bel lavaggio mentale. L’avevano tenuta prigioniera un mese, era un tempo sufficiente a confonderla ed a inculcarle in testa nuove convinzioni.
Dovevano aver usato una massiccia dose di medicinali e chissà quale terapia d’urto per ridurla così.
Forse avrebbe potuto cercare di ipnotizzarla, ma così legato e con il trattamento che lei doveva aver subito, non sarebbe stata una cosa facile.
« Non so cosa ti hanno fatto o cosa ti hanno detto ma, io voglio aiutarti!»
La donna sterzò bruscamente, la macchina fece qualche metro nello sterrato a lato della carreggiata e si arrestò sul ciglio della strada. Patrick Jane ebbe davvero paura.
Quella donna non era più la Lisbon che conosceva e non riusciva a leggerne la mente per capire quali fossero le sue intenzioni.
La osservò alzarsi dal sedile, fare il giro intorno al veicolo e aprire la portiera posteriore, proprio dietro di lui.
Nello specchietto retrovisore la vide impugnare le cesoie.
« Starò zitto! Starò zitto! Ma metti giù quelle forbicione per favore!» cinguettò dimenandosi e facendo tintinnare il metallo delle manette.
La donna non si fermò, tagliò un pezzo di scotch e gli si avvicinò, stampandoglielo sulla bocca.
« Oh sì, non ho dubbi che ora starai zitto!» disse sorridendo e sferrandogli un destro in pieno ventre « Maledetto bastardo! Ringrazia che mi servi vivo e che non ti uccida subito!».
Jane cercò di piegarsi su se stesso per ammortizzare il dolore ma, nonostante il male pulsante, riuscì ugualmente a comprendere ciò che la donna aveva ringhiato tra i denti dopo averlo colpito.
Per un secondo aveva sentito il suo stomaco balzare nell’esofago e poi rimpiombargli nel ventre.
Aveva veramente un destro formidabile.

 

*

« Come ti senti? Ti fa ancora male?»
« No, va tutto bene. Sei riuscito a capirci qualcosa?»
« Sì, Liz » disse sedendole accanto « La batteria è alimentata da diversi componenti chimici liquidi, alcuni facilmente reperibili, altri davvero rari…» fece una pausa, mentre lei metabolizzava con apprensione la notizia « Ma vedrò che posso fare per procurarmeli»
La donna chiuse brevemente gli occhi, inspirando più aria che poteva, gonfiandosene i polmoni e poi domandò d’un fiato, senza pensare per non perdere il coraggio « E quanto tempo ho?»
Lui la guardò intensamente prima di parlare, poi con rassegnazione confessò «Quattro giorni circa…a partire da oggi»
Quel cuore di ferro le sembrava diventato ancora più pesante, un macigno insostenibile.
« Liz» le circondò le spalle col braccio « Ce la faremo, ho già organizzato tutto! Una volta che l’avremo preso ci faremo dire la miscela che occorre al tuo cuore per funzionare…e poi lo uccideremo!»
« E se non volesse collaborare?»
« Collaborerà, ci dirà tutto!» si alzò dal divano « Ti illustrerò il piano, ma la cosa importante che tu ricordi è di non ascoltarlo e di non rispondere alle sue domande»
« E perché? Non posso subito chiedergli come preparare la miscela chimica per il mio cuore?»
« No Liz, devi portarlo dove ti dirò e devi portarmelo vivo! Se ti venisse voglia di ucciderlo… Ricordati che ne va della tua stessa sopravvivenza! Quando sarai nel luogo che ti indicherò potremo occuparci prima del tuo cuore e poi di lui.»
Lei annuì, non aveva altra scelta.
Doveva fidarsi di quell’uomo, non solo le aveva salvato la vita ma era anche l’unico che poteva garantire la sua futura sopravvivenza.
« Dimmi cosa devo fare!»

*


Era dentro la sala interrogatori da circa dieci minuti, la stessa identica quantità di tempo che l’uomo che si faceva chiamare William Turn aveva tenuto la bocca ermeticamente serrata.
« Signor Turn, se lei collaborasse sarebbe molto più semplice!» Wayne aprì il fascicolo e glielo sottopose « Se non si decide a parlare verrà accusato per gli omicidi di sei donne!»
Gli occhi azzurri, piccoli e frenetici di Turn schizzavano dall’una alle altre foto sottopostegli dall’agente.
« Non avete prove!» esordì poi l’omuncolo con voce tremante.
« Oh sì invece» prese un ulteriore scatto da sotto i fogli del dossier e lo pose sopra gli altri « E la accuseremo anche per il rapimento di uno dei nostri agenti».
Rigsby non aveva le doti deduttive di Jane, non era un mago, non un mentalista, ne un prestigiatore, ma colse senza difficoltà l’indiscutibile scintilla negli occhi di Turn quando gli venne presentato il ritratto di Teresa Lisbon.
« Conosce questa donna?»
« No io non..»
« Non menta signor Turn! Se lei sa qualcosa di questa persona e me lo dirà, le garantisco che troveremo un accordo!»
« Un accordo?» mormorò Turn prendendo la foto tra le mani.

 

*

« Ti diverte vero, Greg? Il vederle soffrire, il loro chiederti pietà, implorarti di risparmiarle. Quanto ti piace quella sensazione Greg?»
« Come sa il mio nome?…» balbettò il giovane dalla pelle diafana e gli occhi di ghiaccio.
Lo sconosciuto ignorò la sua domanda « Io posso darti questa sensazione di potere! Posso farti sentire invincibile…se tu mi aiuterai!»
« Non ti conosco e non ho idea di che diavolo stai parlando! Per quale motivo dovrei aiutarti?»
L’uomo dinanzi a lui tirò fuori un rettangolo di carta dalla tasca « Sto per consegnare la tua foto segnaletica alla polizia Gregory!!»
Il giovane sussultò, deglutendo rumorosamente « Cosa vuoi che faccia?»
Per Brice Sheldon era stato facile adescare quel delinquentello squilibrato di Gregory Hayes: infastidiva le ragazze, cercava di approcciarle nei luoghi bui e la polizia aveva già ricevuto diverse denunce.
Ci avrebbero messo poco a scovarlo e a sbatterlo dentro; Brice Sheldon però lo aveva trovato prima, lo aveva osservato e aveva riconosciuto in lui la mente insana della quale aveva bisogno per ordire il suo dedalo perfetto.
Sheldon ci sapeva fare con le persone, sapeva come convincerle, anche contro la loro volontà.
« Quando avrai finito il tuo lavoro per me io ti darò una faccia nuova, mio caro amico» gli porse una mano guantata per suggellare l’accordo « Avrai una nuova identità e sarai libero di ricominciare da zero come vorrai!»
« D’accordo» Gregory strinse quella mano, come stesse stingendo la sua unica ancora di salvezza.

 

*

Quando Rigsby tornò in ufficio, Kimball e Grace erano intenti a visionare i nastri ricevuti dall’Agenzia di Sicurezza.
« Abbiamo una confessione!» esultò Wayne raggiungendoli davanti al monitor.
Rapidamente li aggiornò sulle informazioni raccolte dall’interrogatorio: l’uomo che gli avevano segnalato come William Turn si chiamava in realtà Gregory Hayes, motivo per cui non risultava in alcun database.
Hayes era stato convinto con il ricatto a prendere parte ad alcuni omicidi, del quale peraltro non si prendeva la responsabilità.
« Che significa che non le ha uccise?» domandò Cho scettico.
« Lui le spaventava e…»
« Qualcun altro le uccideva» concluse la frase Grace.
« Ecco spiegato perché appena ha agito da solo è stato colto in fragrante» constatò l’orientale, incrociando le braccia.
« Quell’uomo è solo un pazzo, ma non è abbastanza in gamba per aver commesso tutti quegli omicidi in maniera così pulita..»
Rigsby spiegò che lo stesso uomo che aveva coinvolto Gregory negli assassinii era anche lo stesso che lo aveva costretto a rapire l’agente Lisbon.
« Solo In cambio di quell’ultimo favore il signor Hayes avrebbe ottenuto la sua operazione chirurgica facciale e la sua libertà»
«Abbiamo trovato il nostro chirurgo dunque!» cinguettò trionfalmente Grace.
« Non proprio» Rigsby moderò subito gli entusiasmi « Hayes ci ha dato una descrizione, ma non abbiamo nessun nome».
« Allora continuiamo coi nastri, magari troviamo qualcosa!» sospirò stancamente Kimball.
« Io torno agli indirizzi IP ed eventualmente farò una ricerca incrociata sui database con la descrizione ottenuta da Hayes» propose Grace.
Rigsby si unì a Cho nella visualizzazione, ancora sconcertato dall’ultima frase del sospettato. Non aveva il coraggio di riportarla ai due colleghi.
“ Non so che fine hanno fatto fare alla vostra amica, l’ultima volta che l’ho vista aveva un bisturi piantato in mezzo al petto!”.


Il cielo era già imbrunito da un pezzo, il paesaggio sprofondato nel buio si rifletteva sui finestrini e sul parabrezza dell’auto, lanciata a tutta velocità sulla strada semideserta.
Una manciata di case sparse qua e la si scorgevano lontano dalla carreggiata, le luci delle finestre galleggiavano nell’oscurità e infondevano un breve senso di rassicurazione.
Avevano fatto una rapida sosta di un paio d’ore, lontano dalla strada e da occhi indiscreti, poi avevano ripreso il viaggio e non si erano più fermati.
Durante quella fuggevole tappa , Lisbon aveva dormito con la pistola saldamente impugnata nella mano destra, svegliandosi di tanto in tanto, in preda a forti tremiti.
Se non fosse che esteticamente appariva come la collega di sempre, avrebbe potuto dire di avere davanti un’altra persona.
Quella donna lo guardava con un odio che non riusciva a concepire, un odio intenso, palpabile, un odio vero. Un odio che per un istante lo fece soffrire.
Quegli occhi, seppur talvolta severi, erano sempre stati pieni di una luce speciale, che solo lui riusciva a cogliere. Se fino a quel momento Lisbon per lui era stata un libro aperto, adesso doveva fare i conti con quella nuova creatura risorta e seduta accanto a lui.
Aveva perso il conto delle ore di quel viaggio interminabile, quando la macchina finalmente si arrestò.
Il casolare era immerso nel buio più totale e a giudicare dall’andatura incerta di Lisbon, doveva essere anche per lei la prima visita al piccolo podere.
Gli aveva ammanettato le mani dietro la schiena e, per essere completamente sicura, lo seguiva tenendogli una pistola puntata alla schiena. Jane incespicava sul viottolo sterrato ricoperto di neve, cercando di seguire come meglio poteva il fascio di luce proiettato dalla torcia della donna. Aveva ancora la bocca sigillata dal nastro adesivo e faceva fatica a respirare.
Quando furono dentro, Jane ebbe una disorientante sensazione di dejà vu. L’oscurità della casa, il corridoio dalle tante porte chiuse e la polvere ovunque che si rivelava nel cerchio luminoso della torcia.
Come nella proprietà di Paladino Road, camminavano vicini e silenziosi in quella casa sconosciuta.
La donna sembrava incerta su quale delle porte aprire, tentò con scetticismo una prima maniglia sulla destra, che si rivelò chiusa a chiave. Al secondo tentativo fu più fortunata e trovata la porta aperta – con tanto di chiave sulla toppa - si introdussero nella stanza. Una scala nel pavimento conduceva a un piccolo seminterrato privo di arredamento, fatta eccezione per un pesante banco da lavoro in acciaio, una vetrina - custode di alcune fiale e barattoli - e una sedia da ufficio sgualcita.
« Ora te ne stai buono qui» lo scatto metallico delle manette rimbombò nella stanza semivuota, riempiendola con la sua eco musicale. Il consulente era stato perfettamente ancorato ai piedi del bancone, in modo che non potesse muoversi o nuocerle.
Là seduto su quel sudicio pavimento aveva un aspetto ancora più miserabile, sembrava un animale sottomesso.
Si chinò su di lui, dapprima sfiorandogli il volto con gentilezza e suscitando un’immensa sorpresa in quei profondi occhi cerulei.
Ma poi le dita sottili corsero al cerotto adesivo e lo strapparono via con forza, in una sola volta. L’uomo si lamentò contrariato e allo stesso tempo riempì i polmoni d’aria.
« So che stavolta starai zitto…senza che te lo dica due volte…» sorrise pericolosamente e Jane annuì senza obbiettare.
La donna si levò in piedi e guardandolo dall’alto estrasse il telefono dalla sua tasca, premendo un tasto di chiamata rapida.
« Dannazione » imprecò alzando il telefono verso l’alto e orientandolo prima ad est e poi ad ovest « Non c’è campo!».
Si avviò verso la scala e fece qualche scalino, poi si arrestò gettando uno sguardo al prigioniero « Gridare è inutile, come hai potuto vedere non ci sono case! Stai buono qui, torno subito!» e sparì al piano superiore, lasciandolo solo coi suoi pensieri .
Non c’era via di scampo da quella situazione, constatò seriamente allarmato.


« Ragazzi» la voce di Grace arrivò alle loro spalle « Ho tracciato l’indirizzo IP e sono risalita al contatto…ma…» si ammutolì davanti allo schermo che i suoi colleghi stavano utilizzando per visionando i nastri.
Il fermo immagine di una delle registrazioni mostrava una berlina nera e grazie allo zoom era stato possibile focalizzare il viso del conducente.
« Non può essere…» balbettò Van Pelt.
« Eppure quella è proprio Lisbon…» mormorò Cho, tra l’incredulo e il trasognato.
La giovane agente si riebbe dallo stupore e riprese il discorso dove lo aveva lasciato « Ho un nome e due indirizzi! So dove potrebbero essere!»


« Ma dove diavolo sei finito?» domandò con voce alterata dall’ansia « Dovevi già essere qui da un pezzo, Brice!» gettò un’occhiata all’orologio. I numeri sul display continuavano a crollare, a farsi e disfarsi, a diminuire irreversibilmente.
00:22:27
« Ho avuto un contrattempo Liz, ma non temere sto arrivando! Come sta andando?»
« Avevi ragione…ha cercato di confondermi, ma gli ho tappato la bocca!»
« Bene, prenditi cura del nostro ospite finché non arrivo! E’ questione di momenti» disse riattaccando, senza congedarsi.
La donna ripose il telefonò per nulla distesa. Il suo respiro si condensava in dense nuvole bianche, salendo verso il cielo.
La piccola proprietà era completamente isolata, la prima casa abitata si trovava a più di due chilometri e l’oscurità abbracciava ogni cosa. Un tremito di freddo, o di paura – non seppe definirlo – la percorse e decise di rientrare nell’abitazione a sorvegliare il suo ostaggio.
Scese velocemente le scale, accompagnata dal suono dei propri passi. Si bloccò a metà della rampa, sentendosi gelare.
La scena che si presentava ai suoi occhi era raccapricciante: l’uomo, ancora ammanettato al mobile, era riverso scompostamente in avanti, col capo ciondoloni e le braccia abbandonate mollemente che toccavano il pavimento. La cosa preoccupante era la chiazza rossa che si allargava a partire dal bavero della camicia. Scese gli scalini due a due e raggiunse il corpo apparentemente esanime.
« Che fottuto bastardo!» sibilò tra i denti, mentre i suoi occhi si velavano impercettibilmente « Si è ammazzato!»
Tirò un calcio al banco metallico, facendolo risuonare, mentre il conto alla rovescia stava ora scandendo il tempo che la separava dalla sua imminente morte.
Ancora impossibilitata ad accettare la realtà dei fatti si chinò nuovamente sull’uomo per controllargli battito direttamente al livello della giugulare, dove era più facile sentirlo.
Posò le dita su quel collo caldo, ma fu troppo tardi quando percepì il tamburellio ritmico di quel cuore ancora pulsante.
Lui le aveva già sfilato la pistola e gliela stava puntando dritto in mezzo agli occhi.
« Non voglio farti del male» disse alzandosi in piedi e tenendola sotto tiro.
« Come diavolo hai fatto a liberarti?» gli domandò con le mani alzate in segno di resa.
« Vedi Lisbon, se non ti avessero sottoposta ad un lavaggio del cervello sapresti benissimo che sono un mago con le serrature» espose in bella vista la forcina che gli aveva permesso di liberarsi dalle manette, con non poca fatica.
« E il sangue? »
« Merito dei barattoli che ho notato nella credenza appena siamo scesi» concluse lui « Ora dammi il tuo telefono!» glielo chiese gentilmente, senza però abbassare l’arma. Non si poteva fidare di quella donna.
Lei prese l’apparecchio, si chinò e lo posò a terra, facendolo poi scivolare fino all’uomo che la teneva sotto tiro.
« Molto bene!» disse recuperandolo da terra, senza perdere il contatto visivo « Ora siedi accanto a quel banco e non ti muovere».
Percorse le scale al contrario e quando ebbe un sufficiente vantaggio si avventò sulla porta, guadagnando il corridoio e richiudendosela alle spalle.
Girò più volte la chiave nella serratura e poi se la mise nel taschino.
Poteva sentire i passi della donna rimbombare su per le scale, mentre, dopo aver acceso le luci, si affrettava ad uscire all’aria aperta, per chiamare rinforzi.
Beffardo il destino, aveva usato il solito trucchetto della simulazione di morte in un seminterrato, proprio insieme a Lisbon. Quella volta però non gli era andata così bene e avevano rischiato di morire insieme. Come molte altre volte.
Si erano salvati più e più volte la pelle a vicenda, avevano trascorso giorni e giorni l’uno accanto all’altra dandosi vicendevolmente per scontati. E ora che l’aveva persa capiva il valore inconscio di quella presenza al suo fianco.
Iniziò a comporre il numero sulla tastiera, ma si interruppe, quando un rumore dinanzi a lui lo fece trasalire.
« Finalmente ci incontriamo signor Jane…»


Continuava a colpire la porta di legno con la spalla e il risultato fu solo un terribile dolore alle ossa.
00:13:45
Si sentì spossata, priva di energie, sintomo che il suo nuovo cuore artificiale stava esaurendo la propria carica.
Doveva sbrigarsi e trovare un modo per uscire da lì. Con o senza Brice avrebbe riacchiappato quell’uomo e lo avrebbe costretto a curarla. Ormai non aveva più niente da perdere e non poteva neanche arrendersi.
Tornò ad affacciarsi sulla scala. Il suo sguardo si posò con interesse sulla vecchia sedia sgangherata.


« Ci conosciamo?» disse continuando a impugnare la pistola in una mano e il cellulare nell’altra.
« Oh, no, non direi. Diciamo che abbiamo un amico in comune…» Jane rabbrividì a quelle parole, mentre la luce della casa alle sue spalle illuminava i tratti dello sconosciuto « John ti manda i suoi saluti, caro Patrick Jane!».
« Quindi c’è lui dietro tutto questo?» abbassò la mano con cui impugnava il telefono.
Brice Sheldon sorrideva compiaciuto « Diciamo che gli dovevo un favore, ma l’idea è tutta mia » rispose con aria tronfia « John si sta stancando dei tuoi giochetti e ha deciso che è ora di finirla!»
Il biondo scosse la testa « E Lisbon? Che diavolo le hai fatto?»
« Ah, già, la tua amica…beh, con lei è stato un tocco di classe! Il lavaggio mentale…il cuore artificiale…è stata un’ottima cavia per i miei esperimenti chirurgici…»
« Cuore artificiale?» anche la mano che stringeva la pistola si abbassò, mentre ogni cosa perdeva senso e razionalità.
« Sì, ho sostituito il suo cuore con una batteria alimentata da agenti chimici che interagendo tra loro creano un’innovativa fonte energetica…ovviamente quando la reazione si sarà consumata totalmente i reagenti diventeranno passivi e s’interromperà il processo di alimentazione… »
« Stai dicendo che…?»
« Sì, quel cuore presto smetterà di battere » guardò l’orologio al proprio polso « Diciamo tra una manciata di minuti…»
Il consulente era sconvolto dalla rivelazione di quell’uomo sconosciuto, ma era sicuro che non si trattasse di uno scherzo, ne di una trappola. Lui conosceva bene le persone e quel tipo faceva sul serio.
« Però » riprese Sheldon « Io posso salvarla. Lascia che io ti uccida» estrasse la pistola dal soprabito scuro « e la tua cara Lisbon sarà al sicuro».
Patrick Jane abbassò lo sguardo e tacque, sempre più sconcertato e sopraffatto da quella situazione che lo faceva sentire impotente come non mai.
Brice sghignazzò mentre lo teneva sotto tiro « Sai qual è la parte più divertente?»
Jane alzò gli occhi su quel viso alterato dalla follia « Crede che sia tutta opera tua! Ho manipolato la sua mente mostrandole una tua foto e abbinandola a sensazioni spiacevoli.. le ho fatto credere che hai sterminato la mia famiglia» concluse con sadica ironia.
Mentre Jane assimilava l’informazione ed ogni tassello del puzzle tornava al proprio posto, qualcosa gli piombò addosso facendolo capitombolare nella neve. Nell’impatto la pistola e il telefono erano volati nella coltre fresca.
La donna che lo teneva schiacciato a terra allungò una mano verso l’arma, raccogliendola.
Sheldon guardava la scena compiaciuto, mentre i due contendenti si rialzavano dal manto nevoso.
La donna aveva una spalla leggermente più bassa dell’altra, segno che doveva essersela lussata nel tentativo di sfondare la porta. Per fortuna le era venuta in soccorso un’improbabile aiutante: la poltroncina sgualcita da ufficio.
Con le poche forze rimastele, l’aveva usata per abbattere la barriera costituita dalla porta.
Ora i principali attori di quel macabro teatrino erano lì, statue di carne impiantate nel terreno innevato.
La neve cadeva copiosa. I cristalli di ghiaccio danzavano nell’aria, fragili ballerine dalla vita effimera.
La loro esistenza si protraeva nel lasso di tempo che le conduceva dal cielo alla terra, il tempo di una caduta libera insomma.
Ma quel balletto era così elegante, così delicato che più che pochi istanti sembrava durasse un’eternità.
Nel bianco più assoluto ogni rumore era dissolto, ogni movimento congelato, ogni emozione amplificata, come un’eco in quel vuoto niveo.
Jane era precisamente nel punto mediano, la stessa distanza lo separava da Lisbon, davanti a lui, e da Sheldon, alle sue spalle.
Il foro della colt era un occhio che si apriva dritto sul suo petto, poteva sentire il freddo metallo attraverso la stoffa, come se lo avesse avuto a contatto diretto con la pelle.
« Liz, sono riuscito a farlo parlare!» intervenne Sheldon trasfigurando il suo viso in una maschera angosciata « Conosco la composizione della miscela!» lei lo guardò rigenerata dalla speranza « Uccidilo adesso e potrò salvarti!»
In quello statico ritaglio di realtà, solo il calore dei loro respiri che si condensava nell’aria punteggiata di bianchi fiocchi dava un senso di dinamicità.
La neve si adagiava su di loro, sui loro abiti, sui loro capelli.
A separarli solo il braccio teso lei.
Gli occhi dell’uno si riflettevano in quelli dell’altra, mentre infondo a quel braccio si trovava la pistola che tremava nella mano incerta della donna.
La vita dell’uno dipendeva da quella dell’altro e non era solo quell’arma a fare la differenza.
00:00:59
Lui afferrò la canna della colt e se la premette energicamente sul petto.
«Spara Lisbon!».



 



Ed ecco che il cerchio si chiude…è stato un vero parto…rimettere insieme i tasselli, dar loro un senso “quasi” possibile…ma spero vi abbia soddisfatto e che questo capitolo non si sia rivelato banale o scontato…questa storia mi ha veramente tenuta impegnata…ho cercato di darle un’ambientazione, nuovi personaggi, situazioni…insomma mi ci sono dedicata seriamente….senza grandi pretese letterarie, poiché questo è un hobby ed io sono una semplice dilettante…ma è scritta con passione e spero che almeno quest’ultima cosa sia arrivata fino a coloro che hanno dedicato un po’ del loro tempo a leggere.
Il prossimo capitolo è praticamente quasi pronto e sarà il più breve dopo questo papiro…che alla fine ho deciso di non spezzare perché mi pareva mantenesse meglio una continuità narrativa…
Bene tra capitolo e note finali mi sono dilungata anche troppo.
Un saluto e un ringraziamento a tutti coloro che finora hanno letto e recensito.
Grazie di cuore.
Con affetto.
BBambi.


 

  
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