In Her Shoes.
Capitolo I.
La sua città le era
sempre piaciuta.
A qualsiasi ora del giorno e della notte, ai suoi occhi, Verona
conservava quell'aura magica e romantica che Shakespeare e il suo Romeo
Montecchi avevano contribuito a farle apprezzare; l'Arena, piazza delle
Erbe, palazzo Barbieri e il Castelvecchio erano solo alcuni dei luoghi
che Cecilia non si sarebbe mai stancata di ammirare, con lo sguardo
emozionato ed entusiasta di una bambina che osserva il mondo per la
prima volta.
Il suo posto preferito era la Casa di Giulietta, un palazzo medievale
ormai completamente ristrutturato, con un cortile sempre colmo di
turisti, giunti per rispettare la tradizione nel profano gesto di
toccare un seno alla statua dell'eroina. Ci avrebbe perso delle
giornate a sbirciare i biglietti lasciati dai giovani innamorati
nell'antro dell'edificio, talvolta per ridere delle frivolezze di
cervelli lasciati troppo a macerare nel brodo dell'amore, talvolta per
trovarsi a desiderarle, quelle sciocchezze.
La verità era che Cecilia non voleva saperne di relazioni;
quando l'unico modello di riferimento che hai sono due genitori
divorziati da anni che si odiano e che non fanno nulla per venirsi
incontro, non è facile immaginare cosa significhi avere un
rapporto serio e duraturo con qualcuno, basato su affetto e rispetto.
Se fosse cresciuta in una famiglia come quelle delle
pubblicità, dove la cosa più brutta che possa
capitare è macchiare la tovaglia con del succo d'arancia, le
cose sarebbero state diverse, e lei non si sarebbe trovata a fuggire
ogni contatto umano come si fa con la peste. Ecco, allora sarebbe
più corretto dire che lei non è che non volesse
saperne di relazioni; semplicemente, non sapeva nemmeno cosa fossero.
Dalla poca esperienza che derivava
dai suoi ventun anni, l'unica certezza che possedeva era che sarebbe
vissuta dei suoi scritti e della sua fantasia, a costo di finire a
vivere come una bohémienne in un quartiere malfamato di
Parigi, innamorata di un ballerino di can-can malato di tisi.
D'accordo, lei non era Satine e quella non era e mai sarebbe stata la
sua storia, però Cecilia aveva anche quello da imparare:
accantonare per qualche volta la finzione, fedele e al tempo stesso
illusoria compagnia, perché quella racconta, sì,
tante avventure e tante vite diverse, ma mai la propria.
La passione per la letteratura era
un'eredità di suo padre, insieme ai sottili capelli mossi
castano chiaro e gli occhi azzurro cielo. Della madre poteva vantare
solo il metro e settanta di altezza e la spruzzata di lentiggini che le
ravvivavano il viso dal colorito rosato. La scarsa pazienza e
l'acredine delle battute sarcastiche che non raramente si concedeva
erano, invece, lignaggio della matrigna, Maria Carolina, una trentenne
convinta di saperne molto più di chiunque altro della vita.
Nonostante Cecilia non avesse fatto nulla per innescarla, una cerca
tensione si era creata tra le donne di papà Ferdinando,
dovuta più che altro ad un bisogno di accaparrarsi quante
più attenzioni e regali possibili.
C'era stato un periodo in particolare di cui Cecilia non andava fiera:
il periodo nel quale aveva ceduto alla tentazione di sfruttare i sensi
di colpa di suo padre per circondarsi di cose inutili, a colmare il
vuoto lasciato dall'assenza di entrambi i genitori. Si era fermata solo
quando aveva capito che Ferdinando non avrebbe avuto il coraggio di
farlo, il giorno in cui si era presentato da lei e le aveva comunicato
di aver già contattato l'agenzia di viaggi per sapere se era
possibile fare un'escursione al Polo Sud per vedere i pinguini,
così come richiesto per scherzo da lei. Quella volta,
Cecilia aveva capito tre cose di lui: era davvero molto ricco, aveva un
pessimo senso dell'umorismo ed era disposto a fare carte false pur di
comprarsi l'affetto della figlia. Da quel momento, lei aveva deciso che
non gli avrebbe chiesto mai più soldi che non fossero per i
libri o la retta dell'università, perché era
davvero troppo avvilente avere un rapporto del genere con colui che
aveva contribuito a metterla al mondo.
Era qualcosa che non la faceva
dormire di notte e ci stava pensando anche quella mattina, mentre
camminava a passo svelto su via Ponte Aleardi, osservando l'Adige che
scorreva tranquillo qualche decina di metri sotto i suoi piedi. Un
lembo della sciarpa bianca che aveva attorno al collo stava svolazzando
nell'aria, insieme alle due piccole ciocche di capelli chiari che erano
sfuggite dalla coda di cavallo. Poche centinaia di metri e sarebbe
arrivata alla facoltà di lettere per seguire le lezioni
mattutine insieme a Lisa, l'unica vera persona fidata in un branco di
compagni di corso arrivisti e pronti a vendersi la madre pur di
prendere il voto più alto agli esami.
Cecilia preferiva di gran lunga
uscire con gli amici del liceo, soprattutto Carlo e Gianluca, due
idioti patentati che però erano sempre in grado di
strapparle un sorriso. Uno aveva miracolosamente passato il test di
medicina – e c'era da credere che suo padre, primario di
ginecologia all'Ospedale Civile Maggiore "Borgo Trento", ci avesse
messo lo zampino –, l'altro, invece, si era iscritto a
ingegneria edile e architettura, ma Cecilia mai si sarebbe fidata a
farsi progettare la casa da lui. Finché giocava con i Lego
non c'erano problemi, ma quando si trattava di vivere nelle bat-caverne e abitare nella sua personalissima visione
di Metropolis, beh, le cose cambiavano decisamente.
L'aspettavano tutti e tre al L'attimo caffè per una colazione veloce, come ogni mercoledì. Lisa era all'entrata e fumava una sigaretta, i ricci scuri
ben definiti ad incorniciarle il volto e un paio di occhiali neri, come
sempre pieni di ditate. Indossava dei jeans stretti che le fasciavano
le gambe magrissime e una giacca di pelle color cuoio, perfetta per il
clima ancora quasi estivo che stava riservando l'inizio di ottobre.
- Alla buon'ora, – si
limitò a dire e lanciò il mozzicone qualche metro
più avanti a sé. L'altra sorrise, abituata al
malumore mattutino dell'amica, e la raggiunse al tavolino dove i due
maschi si erano già accomodati ed avevano ordinato per tutti.
- Ciao decerebrato. –
Lisa riservò come al solito un'accoglienza molto calorosa a
Carlo, con il quale era guerra aperta praticamente dal primo giorno in
cui c'erano state le presentazioni. Gli altri due ragazzi cominciarono
a blaterare tra loro, lasciandoli ai loro battibecchi.
- Oh, è arrivata la
festaiola. La madre superiora ti ha concesso di uscire stasera? – la
sfidò lui in risposta.
- Rastrelli, te l'ho
già detto mille volte che devi smetterla di scriverti le
battute a casa. È abbastanza patetica come cosa, sai? – lo
prese in giro, per poi girarsi verso gli altri due. – Di
che parlavate?
- Stasera c'è una festa
da Franzoni, – esclamò
entusiasta Gianluca, divorando in pochi bocconi una brioche al
cioccolato.
- Bene, – intervenne Cecilia, senza staccare gli
occhi dal giornale. – Allora
film da me? Shutter Island?
I tre ragazzi la guardarono
rassegnati. Che l'amica non fosse particolarmente socievole non era
certo una novità, ma quando si trattava di ex compagni del
liceo diventava addirittura sorda, muta e cieca. Li evitava in tutto e
per tutto, soprattutto le ragazze, con cui non era mai andata
d'accordo. C'era stato una specie di tacito accordo nel gruppetto di
donne della terza liceo sezione B del Maffei: rapporti civili e
collaborativi fino all'esame di Stato, dopodiché tanti cari
saluti e ognuno per la propria strada. Tutte si erano attenute al patto
e ora ignoravano qualsiasi dettaglio delle reciproche esistenze che
andasse al di là del nome e cognome.
A Cecilia erano rimasti solo
Rastrelli e Lamberti, e soltanto perché lei, Molinari, era
restata incastrata – alfabeticamente
parlando – tra
di loro il primo giorno di scuola, quando la professoressa Vallanzano
aveva avuto la grandiosa idea di far sistemare i nuovi ragazzi secondo
l'ordine del registro.
Filippo Franzoni, per quanto non
fosse così distante da loro nella piantina dell'aula, era
molto lontano dal modo di pensare del resto della classe. Era uno
spocchioso figlio di papà con un bel caschetto nero e il
naso a patata che pensava di essere il re del mondo, dal momento che il
padre era uno degli avvocati più in vista della
città. Era solito guardare gli altri dall'alto in basso, ma
non disdegnava la plebe – come
la chiamava lui – quando
si trattava di organizzare feste e riempire casa per dimostrare ai soci
del Rotary Club di non essere uno sfigato senza amici, quale invece era.
- No, Ceci, non ci guardiamo un
film a casa tua; andiamo alla festa, – s'impose
Gianluca. La ragazza lo squadrò con finto disprezzo e
rispose stizzita.
- Se non ti piace Leondardo
DiCaprio basta dirlo, eh! V for Vendetta?
Lisa roteò gli occhi e
non riuscì a trattenere un sonoro sbuffo.
- Ce lo hai fatto vedere fino alla
nausea, – brontolò. – Stavolta
ti prepari in tempo e vieni. Discussione terminata.
- Non ci vengo da Filippo, non ci
penso nemmeno. Saranno anni che non lo vedo e sono stata
così dannatamente bene! Perché rovinare questo
mio equilibrio interiore? – provò
a protestare, ma l'intervento deciso di Carlo stroncò sul
nascere ogni tentativo.
- Molinari, non rompere il cazzo,
dai. Ogni volta è la stessa solfa. Stasera ti metti una
parrucca in testa, ti metti l'ombretto, la cipria e quel cavolo che ti
pare e ci divertiamo.
La biondina spalancò
gli occhi incredula: se c'era qualcosa che odiava ancor più
di Franzoni e la sua cricca erano sicuramente le feste in maschera.
Halloween e Carnevale erano solo due stupidi giorni come gli altri, con
la differenza che la gente si sentiva autorizzava a truccarsi in modo
orribile per farsi ridere dietro. Piuttosto stupido, no?
- Dopo che ho saputo che mi dovrei
pure travestire, dite addio alla mia presenza. Ma voi andate, io
starò a casa con Van Gogh.
Il suo pesce rosso, unico
sopravvissuto su cinque alla moria avvenuta nell'acquario, non era
certo un abile conversatore e le rare volte in cui si approssimava al
pelo dell'acqua per boccheggiare sulla superficie era per farle capire
che aveva fame. Aveva la testa e la lunga coda arancioni e lungo il
corpicino, di un bianco opalescente, si estendeva una striscia dorata
piena di riflessi che le aveva sin da subito ricordato il giallo dei
campi di grano di Van Gogh. Purtroppo la dura legge di Darwin non aveva
lasciato scampo a Matisse, Monet, Rénoir e, per ultimo,
Raffaello, deceduto in circostanze misteriose il giorno di Pasqua. Voci
di corridoio davano per maggior sospettato Lillo, il figlio di quattro
anni del vicino, colpevole di averlo riempito di cioccolato dell'uovo
appena scartato.
- Mi offende il fatto che tu
preferisca restare tutta sera a fissare l'acquario, piuttosto che
uscire a divertirti con noi, – esclamò
Carlo, con l'intenzione di farla sentire in colpa.
- Non si tratta di voi. E lo
sapete! – Cecilia
si bruciò la lingua nel goffo tentativo di bere d'un sorso
l'intera tazza di cappuccino. – 'Azzarola,
quanto scotta!
- Giustizia divina, – sentenziò
Lisa, godendosi intelligentemente piano il suo caffè al
ginseng. – Ce',
da cosa ci vestiamo?
I visi di Gianluca e del compare
s'illuminarono in un sorriso d'intesa.
- Noi da Teletubbies.
- Non avevo dubbi, – riprese
la ragazza, – i
coglioni si muovono sempre in coppia.
Lamberti ridacchiò
della battuta, mentre Rastrelli le regalò la sua solita
espressione da idiota alla disperata ricerca di una frecciatina
altrettanto efficace da pronunciare all'istante. Tentativo vano.
- Mi avete sentita? Non ci vengo! – urlò
Cecilia. – Non
ho nessuna intenzione di farmi vedere da Franzoni; cinque anni in sua
presenza sono più che sufficienti, no?!
Lisa, seduta accanto a lei, si
stava chiedendo quando realmente la ragazza sarebbe riuscita a dire
quale fosse l'ulteriore e principale motivo per cui preferisse la
compagnia di un pesce a quella dei suoi amici.
- Non c'entra niente il fatto che
ci potrebbe essere anche Niccolò stasera, vero?
Gianluca calamitò su di
sé tutti gli occhi dei presenti: aveva, sì, dato
voce ai pensieri degli amici – tranne
quelli di Carlo, che da quando era uscito di casa non riusciva a
ricordare se avesse chiuso o meno la finestra di YouPorn sul computer
della sorella –, ma nominando colui-che-non-doveva-essere-nominato aveva infranto numerose regole.
Niccolò Mannino era il Voldemort di Verona, almeno per loro quattro.
Cecilia aveva la strana mania di saltare al collo di chiunque osasse
pronunciare anche solo le iniziali del suddetto soggetto in sua
presenza e diventava particolarmente manesca con il primo che le
capitasse a tiro.
Nico era il ragazzo con cui aveva condiviso la sua prima volta, a
diciassette anni, a casa sua, quando ancora viveva con sua madre e lei
era 'fuori città per lavoro' – un
modo carino per dirle che se la stava spassando con qualche giovanotto
venticinquenne. Lui era stato gentile e premuroso, in quell'occasione e
nei nove mesi successivi, mesi durante i quali tutti al Maffei sapevano
che facevano coppia fissa. O forse non proprio tutti, perché
Clara Orpella – che
da quel momento in poi sarebbe diventata Clarabella – avrebbe
giurato e spergiurato di non esserne a conoscenza, perché
altrimenti mai, mai!, avrebbe osato fare da concubina a Mannino. Eh
certo, agli altri ragazzi della scuola sì, ma a lui proprio
no: questione di onore, e che diamine!
Cecilia non ci voleva credere: si era fidata completamente e ciecamente
di lui, che l'aveva pure presentata alla famiglia e che, cosa che
più le faceva ribollire il sangue, l'aveva tradita per
chissà quanto con una che non valeva nemmeno un millesimo di
lei. Quello era un chiaro esempio del grande potere delle gambe aperte
di una donna e
Cecilia l'aveva imparato a proprie spese.
Dopo una decina di giorni passati in un profondo sconforto, con la
rabbia che si mescolava allo sdegno e ad un briciolo di nostalgia, si
era imposta di smettere di pensare al viso squadrato di
Niccolò, ai suoi occhi scuri, alle sue labbra... aveva
cercato disperatamente di trovare un difetto, una falla in
quell'ammasso di ricordi che l'aveva inondata come un fiume in piena:
un atteggiamento che l'aveva sempre infastidita, una parola fuori
luogo, quella volta che proprio l'aveva trattata male... In quel
momento non aveva trovato nulla. Per quanto si fosse sforzata, non ci
era riuscita. Forse era troppo presto, forse era ancora nella fase in
cui tutto era ancora troppo doloroso per essere analizzato con
razionalità. Poi Gianluca e Carlo avevano preso in mano la
situazione e avevano fatto ciò che ogni vero amico
è tenuto a fare in casi come questi: avevano trovato il modo
di demolire e demitizzare – con
calma, passo dopo passo – la
figura perfetta di Mannino che esisteva solo nella testa di Cecilia ed
ora, a distanza di quattro anni, la sola cosa che ancora la disturbasse
era la consapevolezza di non poter cancellare il ricordo di Nico, che
l'aveva portata ad un grado di felicità mai toccato prima,
salvo poi farla sprofondare in una triste solitudine.
- Certo che c'entra Niccolò! – ammise,
senza paura di apparire vulnerabile. – Non
voglio frequentare gli stessi posti in cui va lui. Ho già
depennato quattro anni fa la voce umiliazione pubblica dalla
lista di cose che mi ha fatto.
I tre ragazzi seduti di fronte a lei trassero un respiro di sollievo.
- Non è detto che ci sia... – tentò
Carlo, conscio che le probabilità di non trovare il ragazzo
alla festa di Franzoni erano le stesse per cui lui fosse candidato al
Nobel per la fisica.
Lisa parve assorta nei meandri della sua mente per qualche istante, poi
si riscosse.
- Ce', non esiste che tu ti faccia ancora condizionare da quello. E comunque non ti rivolge la parola da
quando è accaduto quel casino, mica ricomincerà
proprio stasera!
Il cinismo freddo e drammaticamente realistico dell'amica
colpì Cecilia come una secchiata d'acqua gelida in faccia;
Lisa sapeva essere cruda e diretta fino al punto di ferire le persone,
senza averne l'intenzione. Ma aveva ragione: Niccolò non
aveva più avuto il coraggio di chiamarla o di cercarla,
quando la notizia del suo doppio gioco era diventata pubblica. Si era
limitato a scomparire dalla sua vita, dandole una dolorosa conferma
della fondatezza della pulce che le era stata messa nell'orecchio.
- Andiamo, – si
ritrovò a dire, quasi non raccapezzandosi che fosse stata
proprio la sua voce a pronunciare quella parola.
Si stava scavando la fossa da sola e l'unica speranza che aveva per
quella serata era di non dover mettere una crocetta accanto ad un punto
già cancellato di una vecchia lista.
Okay,
ho pubblicato. Non so nemmeno io cosa aspettarmi da questa storia, al
momento mi è solo chiaro che sarà sotto i sei
capitoli e che la stesura è quasi ultimata. È
diversa da C'eral'acca,
non solo in quanto ad impegno (praticamente sei volte meno lunga), ma
anche riguardo allo stile. Ho voluto provare qualcosa di diverso, a
partire dalla narrazione in terza persona che è un po'
più 'riflessiva', meno istintiva di quella in prima.
Credo che la pubblicazione sarà puntuale, ogni due
settimane.
Non mi sono dimenticata dell'ultimo capitolo di C'eral'acca, ma
voglio prendermi del tempo perché voglio che riesca
esattamente come progettato; è l'ultimo, perciò
ci tengo. Comunque, è mia intenzione pubblicare verso la
fine di febbraio, quando gli esami sono finiti e ho
voglia/tempo/energie per concentrarmi sull'epilogo.
Voglio ringraziare SunshinePol
e nes_sie
per consulti vari e betaggio.
Per quel che concerne questa di storia, prendiamola tutte come un
esperimento, nulla di più.
S.