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Autore: nobbyna    12/02/2012    2 recensioni
Tanto tanto tempo fa, quando ancora la civiltà non era nata e non c’era nulla di ciò che conosciamo oggi, nel mondo non esisteva il silenzio.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tanto tanto tempo fa, quando ancora la civiltà non era nata e non c’era nulla di ciò che conosciamo oggi, nel mondo non esisteva il silenzio. Tutte le terre, tutti i paesi, tutte le case erano sommerse dal caos e dal rumore, tutti i momenti della vita dell’universo erano circondati da suoni, da chiasso, da voci, da botti, grida, schiamazzi, tintinnii; nemmeno la natura era immune al frastuono. Gli alberi non stavano mai fermi, le foglie continuavano a frusciare e a frusciare, i rami sbattevano tra loro, i tronchi cigolavano e gemevano, mentre all’ombra degli arbusti zampettavano i topi, squittendo e inciampando l’uno contro l’altro per la troppa frenesia, inseguiti da grossi rospi, a loro volta inseguiti dai gatti, a loro volta inseguiti da cani, a loro volta inseguiti dai coccodrilli, a loro volta inseguiti da un orango tango, a sua volta inseguito dagli elefanti, a loro volta inseguiti da serpenti, a loro volta inseguiti da un’aquila reale, che non era seguita da nessuno perché i liocorni erano spariti e nessuno sapeva dov’erano.
Ma nessuno era peggiore dell’uomo.
Nei loro numerosi e confusi villaggi, gli esseri umani non conoscevano il silenzio. Non vi era un attimo di pausa in tutto ciò che facevano: nemmeno durante la notte vi era silenzio, no, anzi: c’era chi urlava nel sonno, chi gridava, chi russava, chi grugniva. Durante il giorno la gente gridava- ma per motivi opposti a quelli della notte -, si chiamava, si sgridava, piangeva, rideva; le voci e le grida si sovrapponevano e nessuno capiva il proprio interlocutore, il quale in ogni caso non sentiva nemmeno la voce che gli apparteneva.
E così l’uomo non sapeva ascoltare, ed era triste.
Nonostante questo, credeva di dover portare avanti lo stesso la propria specie: l’istinto di sopravvivenza prevaleva e lo portava a riprodursi, forzando l’amore tra l’uomo e la donna.
E così l’uomo non sapeva amare, ed era triste.
Un giorno, una bella mattina di sole, in una casa di un paesello sperduto in mezzo alla Grecia, nacque, urlando a squarciagola, una bellissima bambina. La madre, non appena la vide, iniziò a singhiozzare a più non posso e a strapparsi i capelli per la gioia, perché mai si era vista tra gli umani una creatura più splendida e perfetta di quella dolce neonata: i capelli erano un soffice e vellutato manto castano, delicatamente posato sulla cima della testolina; sulla pelle bianca e morbida spiccavano due affusolati smeraldi circondati di lacrime argentee, che scorrevano una dopo l’altra sulle paffute guance arrossate; dalla boccuccia a fragola della nascitura fuoriuscivano, a ripetizione, strilli che annunciavano al mondo quanto la piccola fosse in salute e in sintonia con le abitudini materne. Miriàldea, questo era il nome della madre della bambina, capì subito che ciò che le era stato concesso era un miracolo divino e decise di chiamare sua figlia Anthéia (‘fiorita’) in onore della dea dell’amore e della bellezza Afrodite: quello era infatti uno dei suoi numerosi soprannomi.
La bambina, con il corso del tempo, crebbe e divenne la donna più bella non solo di tutta la Grecia, ma di tutto il mondo: ovunque era conosciuta per la sua straordinaria bellezza, che si diceva provenisse direttamente dalle mani di Afrodite.
Anthéia però aveva un unico, terribile difetto: una voce stridula e fastidiosa, come una ruota in pietra rotta che continua a girare su se stessa: le venne presto affibbiato dalla gente pettegola e ciarlona il soprannome di ‘Trochòs’ (ruota). Miriàldea non riusciva a capacitarsi che la sua piccola e perfetta figliola avesse un difetto così orribile, e passava giorni e giorni a singhiozzare e disperarsi chiusa in casa; quando scoprì il soprannome che avevano dato ad Anthéia, si uccise, preda del dolore, gettandosi da una rupe.
Afrodite, furiosa per il trattamento riservato alla sua protetta e dispiaciuta per la sofferenza che provava in quel momento Anthéia, privata della madre, decise di portare la gioia di vivere nella vita della giovane, e lanciò un incantesimo su di lei: la prima persona di cui si sarebbe innamorata sarebbe stata quella che avrebbe messo fine al suo difetto per sempre.
Quel pomeriggio, un pomeriggio di primavera, Anthéia vide passare di fronte a sé la più bella creatura che avesse mai visto: un’aggraziata giovane dai lunghi capelli bruni, agghindata con una veste turchese degna di una principessa, che cantava con voce melodiosa: la ragazza se ne innamorò perdutamente all’istante, e tanto rimase sconvolta da quell’emozione incredibile esplosale nel petto, che gridò. A quel suono, la giovane bruna si girò, e vide Anthéia, i delicati occhi verdi che brillavano, la mano sul cuore, la bocca spalancata in un suono tanto orribile quanto era magnifico il bianco collo da cui ne veniva fuori. La vide, e se ne innamorò: ma non poteva sopportare quella voce gracchiante, le pareva quasi un insulto alla sua bellezza. Con un balzo fu vicino a lei e, nell’attimo di un battito di ciglia, le tappò la bocca con un bacio.
Il mondo si fermò. Tutto si fermò. I fiori, le farfalle, i colori del cielo e del mare, tutto sfumò, investito dalla potenza di un amore dolce e spontaneo quanto lo sbocciare di una rosa, di un amore senza secondi fini, senza doppi scopi e non costruito per essere la frenetica cornice di un mondo senza controllo, ma un amore nato solo per il piacere di essere vissuto.
Quando Làidana si scostò da Anthéia, entrambe erano rimaste senza voce: l’una l’aveva rubata all’altra e il loro amore ne aveva annullato ogni traccia.
Anthéia si accorse di non riuscire più a parlare solo in quel momento e non si mosse: guardò la sua salvatrice negli occhi e fu silenzio.  
   
 
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