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Autore: Marguerite Tyreen    12/02/2012    1 recensioni
[Sam Peckinpah]
Si svegliò. Era troppo tempo che sentiva quel senso di compressione sul petto per continuare a dormire. Tentò di allontanare le coperte: nella stanza si era fatto troppo caldo, troppo odore di provvisorietà, quello che accompagna sempre le camere d'albergo.
Con la mano cercò sul tavolino da notte l'orologio, riuscendo solo a rovesciare la bottiglia e a sfiorare pericolosamente la lampada.
Fu allora che lo vide davanti a sé: due occhi rossi fiammeggianti nel buio, una sagoma animalesca e un'inconsistenza inspiegabilmente pesante, massiccia, sul suo sterno.
Distolse lo sguardo, concentrandosi sullo spiraglio di luna che trafiggeva le imposte, ma quando si voltò il bagliore era ancora lì.
Genere: Introspettivo, Mistero, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Pianosequenza'
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Premessa:

Sam Peckinpah (1925/1984 – la sua biografia qui) è stato uno dei registi che maggiormente nei suoi film è stato ossessionato dal tema della violenza nelle sue più svariate forme e dalla sua rappresentazione, nel tentativo di esorcizzarla.
Rappresentazione che, spesso, è stata letta come spettacolarizzazione, fraintesa, censurata, ma che a me non ha mai mancato di far riflettere.
Nasce così questo omaggio, che risulterà il peggior delirio che abbia mai scritto, temo.
Perdonatemi ^^'
Non ne sono del tutto soddisfatta, oltretutto si discosta molto da quello che scrivo abitualmente. Ma lo pubblico lo stesso, perchè so che la maggior parte della mia insoddisfazione è dovuta al genio del personaggio a cui è dedicata.
E sì, ho l'impressione di aver sbagliato sezione, ma la categoria “registi” ancora non c'è ^^
Grazie mille a chi è arrivato fin qui e doppiamente a chi vorrà proseguire.
Un bacione,

Marguerite

Con questa mia storia, pubblicata senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere delle persone citate, né offenderle in alcun modo. Al contrario, il mio vuole essere solo un modesto e deferente omaggio.



A M. e L.
perchè col vostro entusiasmo
anche le chimere sembrano meno lontane.


« Quando la gente impreca contro il mio modo di trattare la violenza,
in pratica dice:
"Non mostratemela, non voglio sapere,
e prendetemi un'altra birra dal frigorifero...".
Credo che sia sbagliato, e pericoloso, rifiutare di riconoscere
la natura animale dell'uomo »
(Sam Peckinpah)


Night in Red Satin




Messico, 1968

Si svegliò.
Era troppo tempo che sentiva quel senso di compressione sul petto per continuare a dormire. Era come se gli mancasse l'aria.
Tentò di allontanare le coperte: nella stanza si era fatto troppo caldo, troppo odore di provvisorietà, quello che accompagna sempre le camere d'albergo.
Con la mano cercò sul tavolino da notte l'orologio, riuscendo solo a rovesciare la bottiglia e a sfiorare pericolosamente la lampada.
Fu allora che lo vide davanti a sé: due occhi rossi fiammeggianti nel buio, una sagoma animalesca e un'inconsistenza inspiegabilmente pesante, massiccia, sul suo sterno.
Dannato whisky. Si disse, scrollando la testa.
Distolse lo sguardo, concentrandosi sullo spiraglio di luna che trafiggeva le imposte, ma quando si voltò il bagliore era ancora lì.
Chi sei?
Ebbe in risposta soltanto uno sbuffo biancastro, assieme a un ringhio.
Chi sei? Perché sei venuto qui?
Un brivido gli attraversò la schiena, nonostante il tepore eccessivamente umido che gli impediva di respirare. Sapeva che era lì per lui.
Gli giunse una risata breve, aspra, dal fondo della stanza.
Si affannò a trovare l'abat-jour, direzionandola verso la poltroncina di vimini su cui, la sera prima, aveva lasciato i copioni.
Solo in quel momento si accorse a cosa appartenevano davvero quei carboni ardenti che continuavano a fissarlo con così poca benevolenza. Un cane. Un cane di paglia, narici dilatate e denti scoperti, leggero, lieve, eppure pressante come una condanna.
Solo in quel momento si accorse che era stata Lei a ridere. Che era Lei, seduta su quella poltrona, avvolta in un abito di seta scarlatta: uno scarlatto assoluto che, da solo, riusciva a catturare ogni particella di luce presente ed oscurare tutto il resto. Persino la profondità fatta del nulla dei suoi occhi, persino il livore del grugno della bestia.
-Ah, sei tu. Avrei dovuto aspettarmelo.
Lei schioccò le dita e il cane, docile, andò ad accomodarsi ai suoi piedi, ma senza smettere di sbuffare un alito denso e bianco.
Poi accavallò le gambe, facendo frusciare la stoffa e lasciando intravvedere l'inquietante richiamo della  coscia.
-Perchè sei qui? - chiese il regista, infilandosi in una veste da camera a righe.
-Perchè io sono ovunque. Anche dentro di te, nonostante tu non voglia ammetterlo.
-Illusa! Io non ti appartengo.
-Ah no? E allora mi temi. Oh sì che mi temi.
-Io non ti temo. Non ho paura né di te né di quella tua dannata bestia.
Il cane, accucciato sul pavimento, scattò a sedere, con un ringhio lungo e basso.
-Poniamo che sia vero, Sam. Perchè dunque mi dipingi in ogni tuo film? Non è forse per esorcizzarmi? Per tentare di fuggire da me? - lo afferrò per un polso con una forza che non poteva appartenere ad una creatura tanto fragile, a meno che non provenisse da lontano, troppo lontano per le dimensioni umane.
Abbassò la testa. Lei aveva sempre ragione. Se la prendeva, la ragione, facendogli male, sopraffacendolo senza rimorsi. E non c'era verso di farla riflettere, perchè Lei non rifletteva mai: distruggeva e basta. Era tutta una vita che non faceva altro se non distruggere.
Era da quando il mondo aveva cominciato ad esistere che si insinuava tra le persone, forzando ogni legame di umanità, ogni barriera di civiltà e che demoliva la speranza di vederli in pace fra loro. Alle volte arrivava sotto forma della guerra di Secessione, altre come una follia omicida per le strade di una città americana qualsiasi, altre ancora come una fiamma che montava dentro l'anima, alimentata da un vento proveniente chissà da dove.
-Eppure, - continuò lei, come seguendo un pensiero solo suo – non mi hai mai chiamata per nome.
-Ti si può dare qualsiasi nome, non trovi? Guerra, vendetta, crudeltà umana...
-Violenza? Già, sarebbe quello più generico. Più appropriato. - rise di nuovo, questa volta con un tono talmente acuto da far vibrare i vetri alle sue spalle. - E come speri di combattermi? Povero sciocco illuso. Con un film? Mostrando alla gente che io esisto? Lo sanno tutti che esisto e, credo, parecchi di loro mi amano, nonostante tutto.
-Mostrando quello che puoi fare! - si accese una sigaretta, prima di avvicinarsi a lei. Non aveva alcun odore, profumo, nulla. Nulla che gli confermasse che ella era viva e non uno dei visitatori notturni che affollano la stanza di un animo inquieto. Tuttavia non aveva neppure l'inconsistenza irreale degli incubi. L'inconsistenza capace di assicurargli che, al risveglio, non sarebbe più stata lì.
-Certo! Il nobile intento pedagogico del grande Peckinpah! - lo schernì, carezzando mollemente la bestia ai suoi piedi -  Tutti vedranno le tue pellicole e all'improvviso – puff! - capiranno di avere sbagliato. Scusate tanto, siamo stati tutti cattivi ma adesso le cose cambieranno: il mondo sarà un posto meraviglioso in cui i bambini cresceranno sereni e felici.
-I bambini non sono ancora stati profanati da quello che noi siamo.
-Cazzate, Sam. Tutte cazzate! Non ci credeva nemmeno Dickens. Ti mostro una cosa. - gli tese la mano – Vieni. Non mordo mica.
Quando lo ebbe accanto, gli passò sinuosamente le dita sul petto, aderendo col fianco alla sua schiena. Spalancò la finestra. Fuori, anziché la trafficata strada del centro che ricordava dalla sera precedente, si apriva un cortile sterrato: poteva essere l'aia di una casa messicana, uno scenario ottocentesco, qualunque cosa.
-Guarda attentamente, Sam Peckinpah e dimmi cosa vedi.


I bambini tormentavano lo scorpione con i rami.
L'animale, molle e giallastro, si agitava rovesciato sul dorso senza riuscire a sfuggir loro. Sentiva, lo sentiva l'avvicinarsi delle formiche rosse: erano un nugolo fitto e danzante come un girotondo macabro. Ogni loro passo frenetico scandiva l'avvicinarsi della sua fine.
Lo sentiva, col suo intuito animale, con l'istinto di sopravvivenza.
E loro le ricacciavano indietro, illudendolo che forse avrebbe scampato il pericolo. Poi, dopo un attimo, spingevano lo scorpione nel mucchio, ghignando - tra il divertito e l'inorridito - nel vederlo dibattersi disperatamente.
Tennero sospeso il gioco fino al limite, fino al momento in cui le formiche, esasperate, si avventarono sullo scorpione, risucchiandolo nel vortice scuro della distruzione, della morte.
La bambina voltò la testa. Forse aveva capito cosa stava avvenendo. Forse. O era solo disgustata da ciò che restava di quella che prima era una creatura vivente.
I suoi compagni, alle sue spalle, ridevano. E lei, allora, si unì alla risata, osservando la fila rossa di formiche ritornare sulla propria strada.



-Dunque? Cosa ne dici, Sam? Non pensi a questo punto che la crudeltà sia innata nell'uomo? Che non ci sia più nulla da salvare?
Lui si sedette sul davanzale, a debita distanza dal cane che continuava a ringhiare.
Fuori cominciava a farsi l'alba.
-Non penso nulla. Penso solo che per questa volta abbiamo concluso. Torna da dove sei venuta.
Gli si sedette sulle ginocchia, sfiorandogli il petto con la mano aperta: - Da qui, allora.
Cercò di reggere il suo sguardo, ma gli parve ancora vuoto come il nulla, illuminato soltanto dal bagliore di una fiamma spaventosa e lontana.
-Per questa volta, già. Ma non passerà molto tempo prima che ci rincontreremo.
Gli tolse la sigaretta dalle labbra e si sporse in avanti per baciargliele. La sensazione che ne ebbe fu quella di baciare il vento, ma il gusto – quello – era lo stesso, amaro, della sconfitta.
La donna in rosso fece scivolare contro il mozzicone un lembo del proprio abito, che s'incendiò immediatamente, avvolgendo in un'unica vampata il suo corpo bianco e il cane.
Vi fu solo una nube di fumo e due occhi rossi che, lentamente, si restrinsero fino a svanire.
Quando Sam riaprì le palpebre, era tutto finito. Dalla finestra vedeva la solita strada affollata di quella città messicana qualunque.
Aveva sognato.
Ma sulla sedia era rimasto un mucchietto di cenere. E un filo di paglia, sul pavimento.
Lo raccolse con le mani che gli tremavano.
Che diavolo sta succedendo? I sogni non lasciano tracce. I sogni non...
Un brivido gli attraversò la schiena.
Si lasciò cadere sulla poltroncina. La donna vestita di seta aveva vinto di nuovo.
Ma lui sarebbe andato avanti.
Sarebbe andato avanti perchè lei si era voltata. No, non per il disgusto della formiche, ma per il disgusto della crudeltà.
Si era voltata. Non era tutto perduto.




 

Credits:

Per l'idea in generale, l'ispirazione è dovuta al dipinto di Fussli, “L'incubo” (lo trovate qui).
La visione delle formiche e dello scorpione è effettivamente la scena di apertura del film di Peckinpah “Il mucchio selvaggio” (1968-9): sinceramente non so proprio né se sia merito del regista l'averla inserita né come - in tal caso - egli ne abbia avuto l'ispirazione. Ad ogni modo mi piace immaginare che sia avvenuto così, anche se naturalmente non è vero ^^
“Cane di paglia” è la metafora che Peckinpah usa per identificare della violenza improvvisa e insospettata nel suo omonimo film; mentre il titolo è ripreso da quello di una canzone dei Moody Blues (“Night in white satin”) che con questa ff non c'entra proprio nulla, ma mi piaceva l'atmosfera che creava. ^^

   
 
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