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Autore: DontMindMe    12/02/2012    3 recensioni
Le avventure di Tintin [Haddock/Tintin]
Tintin aveva preso un'abitudine insolita...
Genere: Azione, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Tintin aveva preso un'abitudine insolita: ogni volta che si trovava in una situazione difficile, fra la vita e la morte (e gli capitava di frequente, suo malgrado ormai), nella sua mente iniziava a raccogliere le parole giuste, quelle che avrebbe rivolto al capitano se avesse avuto modo di dichiarargli i suoi sentimenti.

Il più delle volte non avevano molto senso, ma al contrario di quel che si potrebbe immaginare, l'aiutavano a mantenersi lucido e ad uscire vivo dai suoi guai. Che il capitano fosse al suo fianco a spronarlo lui stesso oppure no, averlo anche solo nei pensieri gli dava un motivo per cercare di tornare a casa sano e salvo.

Non era neanche sicuro di cosa fossero quelli che lui definiva sentimenti, poi: per comodità aveva preso a chiamarli così. Lui era un ragazzo indipendente, colto, maturo e decisamente all'altezza di una vita da adulto, nonostante la sua giovane età (del resto era stato costretto a crescere in fretta), eppure su certi argomenti era del tutto ignorante. L'amore, ad esempio, quello romantico, non era mai riuscito veramente a capirlo né si era mai concentrato a studiarlo per bene: le sue priorità erano sempre state altre e fra una cosa ed un'altra era sempre finito col circondarsi di individui singoli (e singolari), così che neanche dall'ambiente esterno era riuscito ad assorbire le dinamiche delle coppie innamorate.

Certo di quello parlavano tutte le canzoni alla radio, ma se l'amore era davvero così, era qualcosa di dolciastro, empirico e decisamente svolazzante e non riusciva a paragonarlo a quelle cose più terrene, istintive, tangibili che sentiva per il capitano!

Era ovvio che come tutti anche lui fosse nato da una coppia, da una donna ed un uomo, perché così funzionava la riproduzione, ma in realtà lui i suoi genitori non li aveva mai conosciuti: erano morti come tanti nella grande guerra.

 I suoi primi ricordi di infanzia erano legati all'istituto religioso di provincia in cui era cresciuto, dove era circondato da maschietti come lui, con per tutori e insegnanti uomini di Chiesa che ben poco ne sapevano loro stessi dell'amore, se non di quello per Dio (anche se spesso si sentivano in diritto di insegnarlo alle coppie di futuri sposi, ma questa era un'altra storia!) o per Tintin e gli altri come lui... amore, questo, che spesso aveva del morboso. Infatti, quando una notte all'improvviso Tintin si svegliò da un sogno che non ricordava più, turbato, affannato e bagnato, d'istinto non fu con uno di loro che si confidò, ma col suo migliore amico di allora, Gontrand, che aveva qualche anno più di lui.  

Un pomeriggio, chiusi in uno stanzino pieno di scope, secchi e stracci, lui gli diede una mano a capire come liberarsi di quei problemini un po' duri da risolvere lì, fra le gambe, che l'avrebbero accompagnato poi per il resto della sua vita e fu interessante e piacevole condividere quel momento con lui.

Tintin non si era mai sentito in colpa, fra l'altro: i preti non erano riusciti a inculcargli più del dovuto, nella testa. Lui era sempre stato in grado di discernere le informazioni utili da quelle inutili ed elaborarle secondo la sua propria logica. Doveva essere un dono per davvero perché l'aveva aiutato a liberarsi presto da quella prigione spirituale e poi in seguito nello svolgimento del suo lavoro.

Il lavoro, già. Era stato tutta la sua vita, in pratica, fino all'incontro col capitano Haddock.

Aveva lavorato qua e là già dai suoi undici anni, il più delle volte ovviamente in nero e di nascosto dai preti, infilandosi in giri poco puliti o per niente sicuri (forse già allora imparò ad usare una pistola!). Sopportò in silenzio i soprusi, immagazzinando informazioni, intascando misere paghe (che, va bene, forse non avrebbe dovuto intascare, a conti fatti! Ma i soldi gli servivano per scappare via da lì!) e buttando giù reportage che spediva a Bruxelles sotto falso nome (Tintin, appunto, che poi divenne il suo nome, tanto che quello vero forse non lo ricordava neanche più), nel perfetto francese che i preti gli avevano insegnato, nello stile tecnico dei migliori giornalisti che aveva letto sui quotidiani; perché ne leggeva più di qualunque adulto, questo era certo!

Quando dalla capitale iniziarono a prenderlo sul serio, indagando sul posto, sgominando col suo aiuto bande di contrabbandieri, sfruttatori minorili, borseggiatori e quant'altro era riuscito a notare nelle strade del suo paese, i grandi quotidiani increduli fecero a gara per accaparrarselo e lui scelse l'offerta media di Le Petit Vingtième perché in fin dei conti era un ragazzino di tredici anni (anche se lo chiamavano già enfant prodige del giornalismo o cose del genere e avrebbe potuto puntare molto più in alto) e quello era ancora il suo quotidiano preferito.

La vita a Bruxelles era del tutto nuova per lui, a quel tempo, e l'appartamento in cui viveva da solo così silenzioso che decise presto di prendere un cucciolo, il suo Milou, che col suo amore incondizionato gli aveva insegnato più di chiunque altro sui sentimenti.

Tintin non aveva mai davvero provato niente per nessun altro, forse neanche per sé stesso, fino ad allora, ma gli era stato impossibile non affezionarsi così tanto a quella pallina di pelo bianca che aveva visto crescere di fronte ai suoi occhi e che sembrava costantemente voler dare la vita per lui.

Tutti hanno bisogno di un amico, del resto.

Poi la capitale gli era diventata stretta in pochi mesi: non gli bastava più neanche indagare in città, né tanto meno nello Stato, e le aveva provate tutte per fare in modo che dal giornale lo mandassero all'estero a scrivere qualcosa di più grosso. Per qualche motivo sembravano tutti così protettivi dinnanzi alla sua giovane età che dovette autofinanziare i suoi primi viaggi in piena indipendenza per dimostrare a tutti che da solo se la poteva cavare egregiamente (anche se il più delle volte ringraziava la fortuna più che sé stesso, ma a loro non l'aveva mai detto!) e ne tornò con dei pezzi che portarono al giornale nuova fama e decisamente molti soldi, così nessuno mise più in dubbio le sue capacità ed ottenne carta bianca.

Tintin non era che un adulto con la faccia da bambino che non aveva ancora trovato un posto nella sua stessa vita e continuava a cercarlo in giro per il mondo, scappando continuamente per non dover fronteggiare la solitudine che aveva provato costantemente, ogni singolo giorno, fino ad allora.

Certo di amici leali ne aveva trovati, lungo la strada, pochi ma buoni, ed era sicuro di voler loro un gran bene, ma nessuno di loro aveva mai placato quella sua voglia di fuggire; da nessuna parte si era mai sentito a casa come al fianco del capitano, al castello di Moulinsart; non aveva mai desiderato niente quanto stare al fianco di quell'uomo scorbutico eppure così premuroso e che sembrava dipendere da Tintin almeno quanto il giovane reporter stesso dipendeva da lui. Voleva smettere con le avventure, se finalmente l'avessero lasciato in pace, e passare le mattine nel parco a passeggiare al suo fianco, a farsi raccontare storie di mare e porti davanti al camino, a farsi cantare canzoni in quel bell'Inglese che il capitano sapeva ancora parlare alla perfezione, a sentire l'odore del suo tabacco da pipa... e sì, a tenerlo lontano dalla bottiglia, dato che sembrava riuscirci, il più delle volte. E voleva tante altre cose che a lui non aveva ancora mai chiesto. Il contatto, quello fisico: come con Gontrand in quello stanzino. Ma forse non avrebbe avuto più niente di tutto questo, non quando alla fine della canna della sua pistola, oltre che al boss Carofiglio, c'era anche colui che considerava la sua famiglia con una pistola puntata sotto al mento.

“CHE ASPETTI, RAGAZZO MIO! NON FARE CASO A ME! FAI FUORI QUESTO MISERABILE CANE MELMOSO!” gli urlava il capitano Haddock con cui il boss ormai alle strette si stava facendo scudo. C'era solo un punto in cui poteva colpirlo senza ucciderlo e senza ferire il capitano: un piccolo punto, la spalla destra, che avrebbe impedito al boss pure di sparare a sua volta e che continuava a non voler stare ferma. Se fosse riuscito a colpirlo, però, quello avrebbe finalmente mollato la presa e il capitano Haddock sarebbe tornato da lui. Sano e salvo.

“Capitano, io sono innamorato di lei. Volevo solo dirglielo.” formulò d'un fiato e premette il grilletto.

Quando il colpo fu partito, il dado ormai tratto, Tintin chiuse forte gli occhi e quell'istante sembrò eterno. Sentì Milou guaire per lo spavento, poi il boss imprecare e piagnucolare cadendo al suolo; il tonfo della sua pistola che toccava terra. Poi più niente.

Riaprì gli occhi in uno spiraglio e vide lo stupore sul volto del suo capitano. Si era avvicinato di qualche passo, instabile, con le braccia protese verso di lui e non si capiva bene se voleva piangere o ridere perché un po' gli sfuggivano dei sorrisi, un po' gli cascavano le lacrime.

“Anche io.” farfugliò confuso. “Come un vecchio pervertito.”

Tintin arrossì appena un po' di più.

“L'ho detto ad alta voce, quindi...” si sincerò, poi gli si infilò fra le braccia stringendolo forte e ricevette in cambio un abbraccio ugualmente forte, o forse di più, carico di sentimenti che non volevano essere espressi, sommersi dai sensi di colpa, ma che non riuscivano più a tenersi nascosti. L'imbarazzo di quell'abbraccio così dolce si sciolse presto in un balletto di gioia al quale si unì pure Milou quando il capitano sollevò da terra Tintin e prese a piroettare tenendolo ancora stretto per la vita, il viso ancora ficcato nell'incavo della sua spalla per nascondere le lacrime mentre sullo sfondo i ritardatari Dupond e Dupont raccoglievano quello che restava di dignitoso del boss, in attesa di spiegazioni.

 

  
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