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Autore: snail    14/02/2012    1 recensioni
Silvia aspetta questo momento da anni. Terminare gli studi il giorno prima di San Valentino le sembra qualcosa di così perfetto che aspetta solo la classica ciliegina sulla torta: una proposta di matrimonio dopo sei anni di fidanzamento con l’unico uomo che abbia mai amato, Giuseppe.
Non immagina nemmeno che la sorpresa che lui le preannuncia con quel suo solito sorriso allegro e pieno di vita, si trasformerà in un incubo.
Enjoy!
Genere: Horror, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sei anni di niente

 
 
 
 

Quattordici Febbraio. Sei anni e mezzo insieme compiuti il giorno di San Valentino. Cosa c’era di meglio?
Silvia quella mattina aveva guardato fuori dalla finestra della sua stanza e, col senno di poi, avrebbe potuto descrivere quel momento come l’inizio della fine, anche se non c’era alcun segno evidente. Niente “Era una mattinata cupa, grigia e piovosa” ne’ “Intorno a lei arieggiava un sentore di pericolo imminente”. Era una mattina serena, con la neve caduta la sera prima accumulata ai lati della strada dai camion spazzaneve e il signor Ferro che portava a passeggio Rallo, il suo volpino color nocciola, armato di tutina rossa con stampe nere di palline, cuccioli e varie altre sciocchezze a cui il caro Rallo non aveva mai posto attenzione in tutti i suoi cinque anni di vita. Voci allegre di ragazzini interrompevano il silenzio della mattina e coloravano il panorama con zaini, cappotti, cappelli e sciarpe in una gara a tempo con lo scuolabus che stava per ripartire. Da qualche parte, una televisione accesa dava le notizie fresche di giornata e la signora Lucia al piano superiore accendeva l’aspirapolvere per la sua dose di pulizia giornaliera con quel fervore tipico di chi non ha molto altro da fare nella vita. Ogni giorno stessa storia. Cara routine che non lasciava presagire alcun pericolo.
Il giorno prima aveva passato l’ultimo esame della sua carriera universitaria con un magnifico e strabenedetto ventotto e quella sera avrebbe finalmente festeggiato voto e festa degli innamorati, con la notizia propiziatoria di una sorpresa. Il suo dolce Giuseppe non aveva fatto altro che avvertirla per giorni che quello sarebbe stato un San Valentino speciale. Aveva una sorpresa, aveva detto. Una sorpresa grandissima, da festeggiare in un posto speciale.
Silvia saltellò felice al pensiero della sorpresa. Proposta di matrimonio, ne era sicura! Ne parlavano da mesi, ormai. Lui diceva sempre Pensa a finire gli studi, poi finalmente staremo sempre insieme. Non ci staccheremo più, gioia! E lei – innamorata com’era – gli credeva ciecamente.
La suoneria del cellulare la tirò fuori dai suoi sogni di ristoranti di lusso con violinisti accompagnati da camerieri e champagne che facevano da coro al suo fidanzato inginocchiato con un fantastico solitario posto all’interno di un altrettanto fantastico cofanetto in velluto rosso. «Pronto?» rispose, con un sorriso.
«Amore mio, buon giorno e tanti auguri di San Valentino!» rispose la voce squillante e sempre allegra di Giuseppe.
Silvia rise. Era la persona più felice dell’intero universo quando sentiva la sua voce. «Gioia, grazie! Anche a te».
«Volevo dirti che fino a stasera non potremo sentirci molto, mi sto facendo il culo per riuscire ad essere tutto tuo senza avere rogne di lavoro e sarò impegnato tutta la giornata. Mi perdoni?»
«Vedrò di resistere fino a stasera, ma non so se ce la farò!» rispose Silvia ridendo. Si salutarono e quando Silvia poggiò il cellulare sul comodino per andare al bagno, non sospettava nemmeno lontanamente che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe risposto a una chiamata da parte di quel numero. Perché avrebbe dovuto, poi? Giuseppe era l’uomo perfetto. Dolce al punto giusto, sempre allegro, sempre pronto a esaudire ogni suo desiderio. In più, era stato l’unico maschio sulla faccia della terra a non fare pressioni di alcun tipo sull’andare a letto insieme. Perché sì, alla veneranda età di ventiquattro anni, Silvia era ancora vergine e intenzionata a rimanerci fino al matrimonio. E se ne fregava di tutti quelli che ridevano di lei e del suo modo limpido di parlarne, perché accanto aveva il suo uomo che difendeva il suo modo di pensare a spada tratta. Un cavaliere d’altri tempi, insomma.
Quindi, con nessuna pressione in sei anni, il cuore leggero e l’anima in pace, Silvia si preparava a quella che sapeva già che sarebbe stata la serata più bella della sua vita, tra occasionali rivisitazioni della tesi, cerette e simposi con la sua migliore amica sul loro telefilm preferito.
 
Aveva comprato un bel vestitino per occasioni speciali come quella. Non era niente di ché, non una griffe ne’ una marca troppo conosciuta. Un semplice abitino fucsia stile anni cinquanta a maniche lunghe e scollatura abbastanza generosa da costringerla ad abbinare una bella sciarpa rosa per contrastare il freddo gelido modenese. Per completare la fase di preparazione, aveva usato un trucco sobrio ma ben architettato: correttore, matita per enfatizzare i suoi grandi occhi neri e una spolveratina appena accennata di ombretto rosa. I capelli li aveva lasciati sciolti, perché per una volta erano perfetti. Erano lunghi e mossi, scuri e in contrasto con la sua pelle chiara e totalmente refrattaria all’abbronzatura. Sorrise soddisfatta del risultato ottenuto, anche se lo specchio le diceva quella triste verità che lei, scocciata, spazzava via con un cenno della mano. Aveva i fianchi larghi e non tutti i vestiti le stavano a pennello. Quell’abitino fucsia, infatti, era sulla lama di un coltello. A seconda del lato in cui si specchiava, passava dal sentirsi uno splendore al volersi cambiare per passare al certamente più confortevole jeans e maglioncino. Ma no, doveva soffrire per una sera! Soffrire per sentirsi dire il tanto agognato Madonna come sei bella, gio’! che lei tanto amava. Sì, era una vanitosa romantica ventiquattrenne con la testa tra le nuvole, ma le andava bene così.
Il suono del citofono la fece correre via dalla stanza, cappottino in una mano e scarpe nell’altra. I suoi genitori la guardavano dalla cucina con un sorriso divertito e le avevano fatto un cenno di saluto e dato la solita raccomandazione Stai attenta, prima che Silvia uscisse.
In ascensore, Silvia controllò per l’ennesima volta che fosse tutto al suo posto e rise tra sé dell’avvertimento del padre. Come se quelle due parole bastassero a scongiurare possibili incidenti provocati da ubriachi alla guida di automobili o poveracci a cui l’auto sbandava per la strada ghiacciata. Ma fu un elucubro di breve durata il suo, che si spense quando si trovò davanti a quegli occhi verdi che amava da più di sei anni.
Abbracciò Giuseppe al collo e gli stampò un grosso bacio sulle labbra, prima che lui l’allontanasse per guardarla e fare un fischio di approvazione.
«Allora, dove andiamo?» domandò Silvia, impaziente, appena entrata in auto. Giuseppe non era ancora salito e lei si guardò intorno. «Amo’?»
Giuseppe aprì la portiera ed entrò in macchina con due grossi bicchieri a calice. «Per cominciare la serata», rispose alla domanda muta di Silvia, la quale sorrideva e scuoteva la testa.
«Cos’è?» domandò lei, prendendo il bicchiere in mano, il naso arricciato nonostante il sorriso sorpreso sulle labbra. Non amava particolarmente gli alcolici.
«Te l’ho detto: è il modo perfetto per cominciare la serata. Dobbiamo iniziare al meglio, non credi?» Toccò il suo bicchiere con quello di Silvia, facendolo tintinnare, e bevve. Silvia lo seguì, con tanto di smorfie e brivido di ribrezzo. Era spumante, ma aveva un retrogusto pessimo, un amaro che non aveva mai avvertito le poche altre volte che lo aveva bevuto.
«Amo non ti offendere, ma era davvero orribile», commentò Silvia poco dopo. Erano appena usciti dal parcheggio. Giuseppe guidava con calma, non superava limiti di velocità ne’ faceva le solite manovre brusche che tanto amava fare solo per sentirle dire Gio’, smettila se no vomito!
«Un po’, vero? Lo immaginavo».
Silvia non riuscì a registrare bene la risposta del fidanzato. Le stava venendo uno strano capogiro, accompagnato da un’improvvisa stanchezza. La gola era di colpo arida, la vista oscurata e la lingua sembrava essersi addormentata. «Gio’, non mi sento bene», riuscì a dire con un tono spento, appena percepibile.
«Lo so, ti ho appena sedata», rispose Giuseppe, sorriso splendente sulle labbra, parlando tra un fischiettio e l’altro.
«No, Giuse, davvero. Sto male davvero», ribatté Silvia, dopo un respiro profondo alla ricerca di altre forze per far uscire la voce.
Giuseppe rallentò e si fermò a un semaforo rosso. La guardò. Si fissarono per un po’, poi Giuseppe parlò. «Lo so», ripeté, questa volta senza alcuna ironia. «Ti ho appena sedata».
Silvia non colse la risposta. Tutto divenne nero e lei si spense di colpo.
 
C’erano canti macabri, uno scimmiottamento perverso di voci simil-gregoriane dalle parole incomprensibili. C’era freddo e una brutta puzza d’incenso che copriva altri odori appena accennati. Odore di sangue, di sudore, di umori umani. Odore di perversione. Odore di morte.
Silvia aprì gli occhi lentamente. Voleva muoversi ma il corpo non le obbediva. Riusciva a malapena a percepire gli arti. Era legata, mani e piedi. Davanti a lui, un uomo vestito con una tunica e un cappuccio neri la osservava in silenzio.
«Giuseppe…» mormorò in tono di domanda, appena cosciente che stava succedendo qualcosa. Non si rendeva nemmeno conto di quanto fosse stata drogata.
«Amore mio», bisbigliò l’uomo incappucciato con la voce del suo fidanzato.
«Che succede? Che cos’è?» chiese. Tremava, non solo per il freddo.
«È la serata, amore mio», rispose l’uomo. Le accarezzò un braccio nudo. L’aveva cambiata in quell’ora che era passata da quando l’aveva sedata. Aveva un abito nero, leggero e corto. Era più una tunica che un abito, ma aveva delle belle scollature.
Arrivò un altro uomo incappucciato. Aveva un coltello in una mano e una ciotola nell’altra. Nella ciotola c’erano una dozzina di ostie, certamente non abbastanza per la gente lì all’interno, ma certamente meglio che niente. Avevano avuto raccolti peggiori.
«Amo’, ho paura. Ho paura gio’, portami a casa», riprese Silvia. Stava piangendo.
«Non devi avere paura, questa è una notte importante, amore mio. Importantissima». Se Silvia l’avesse potuto vedere da sotto quel cappuccio, avrebbe visto i suoi occhi scintillare e un ghigno animale soppiantare la sua solita risata allegra.
Silvia sentì il suo corpo – lontano miglia e miglia dalla sua mente – irrigidirsi. Il suo cuore si frantumò in mille pezzi e la paura la spinse contro il talamo in pietra su cui era posta. Era un’offerta. Lei era un’offerta. Era un’offerta a qualcosa che non poteva essere nominata, a qualcosa con cui Giuseppe non aveva mai avuto a che fare perché lo conosceva da sei anni, lo conosceva così bene, così approfonditamente che non poteva, non poteva assolutamente trovarsi lì in quel momento. «Non è vero», realizzò allora. «Sto sognando, è un incubo, sì».
«Non è un incubo, ma un sogno. Un sogno fantastico, amore mio». Giuseppe si avvicinò alle sue gambe aperte. Dall’alto, Silvia sembrava un’approssimazione dell’Uomo vitruviano di Leonardo da Vinci, immobile e con la testa rivolta al soffitto in pietra, illuminato da candele, impuzzolito da incensi e popolato da uomini incappucciati che aspettavano con ansia il sacrificio. Impugnava il coltello che gli era stato dato, un oggetto antico, con un’elsa completamente nera e al centro, su entrambi i lati, una croce rovesciata.
Silvia cercò di muoversi, ma droga e corde le impedivano qualsiasi movimento. «Ti prego, gio’, basta. Ti prego, non puoi fare così, non puoi…» sorrise, un sorriso supplichevole che spuntava dai suoi occhi arrossati, dalle sue labbra violacee per il freddo, dalle sue guance bagnate. «…tu sei l’amore mio, sì? Sei l’amore mio, non puoi farmi questo. Non è vero, non è vero niente». La sua mente, nella poca lucidità rimasta, non faceva altro che trasmettere e ritrasmettere a rotazione, come in uno screen saver, le immagini di quei sei anni passati insieme. Niente, nessun segno del mostro che aveva davanti. Sei anni di impalcature grandi come grattacieli, sei anni di recite, di bugie. Sei anni di niente. «Amore mio… tu sei… tu sei l’amore mio, sono sei anni che stiamo insieme», ripeté Silvia.
«Sei anni e sei mesi», precisò lui, alzandole lentamente la gonna.
«Perché? Perché?»
Giuseppe le mostrò il pugnale. «Perché?» rise, la sua risata rimbombò sul coro grottesco e si espanse come un grido dall’oltretomba. C’era un orologio nelle vicinanze. Quell’orologio cominciò a suonare e Giuseppe colpì Silvia con un singolo colpo, deciso, tra le gambe. Le urla della sua fidanzata erano irritanti spunti di inizio per una potenziale emicrania, niente di più. Tutta la sua premura era nel far colare il sangue nella ciotola con le ostie. «Perché sono sei anni, Silvia». Rise di nuovo e le urla di Silvia sfumarono, lasciando singhiozzii e lacrime. Spesso, quando guardava i telegiornali, venendo a conoscenza di persone omicidi o rapimenti, si chiedeva come dovevano sentirsi le povere vittime prima di venire attaccate. La risposta l’aveva avuta davanti agli occhi per sei anni. Non si sente proprio niente, nessuna sensazione di pericolo, nessun brivido. Niente.
«Gius…» dolore, lacrime e sangue si mescolavano dentro di lei in un vortice che l’avrebbero annientata da lì a poco. In quel vortice, si ostinava ancora nell’incoscienza dell’accaduto. «Dopo… sei… anni».
Giuseppe allontanò la ciotola dal suo corpo. «Sì. Sei anni, sei mesi e sei giorni», rispose esaltato. La voce era stridula e gli occhi sotto il cappuccio erano iniettati di sangue. Alzò la ciotola, ormai piena, e la rivolse al coro di voci che avevano smesso di cantare. «Hail Satan. Ti offro questo sacrificio chiedendo in cambio Potere, Ricchezze, Gloria…»

 
 
   
 
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