Serie TV > Merlin
Ricorda la storia  |      
Autore: Quainquie    17/02/2012    5 recensioni
I pensieri di Sir Percival durante una confusa e chiassosa serata al "Rising Sun" con Merlin e l'immancabile Gwaine.
Il mio piccolo tentativo di dare un background al personaggio di Percival, che è stato poco indagato nella serie tv ma che, considerate le avvincenti vicende del ciclo arturiano che lo vedono protagonista, permette secondo me qualche bel volo di fantasia: ho preso spunti da vari elementi noti della leggenda di Sir Percival e che dire, spero che la one-shot suoni perlomeno plausibile nell'economia della serie.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Quarta stagione
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
È il mio primo tentativo di scrivere una fanfiction su Merlin, nato di getto e senza particolari pretese: ogni critica è benaccetta! Mi scuso per eventuali errori ortografici o di coerenza con lo svolgimento cronologico della serie.
Spero di ottenere qualche recensione, soprattutto qualcuna che mi permetta di migliorare la mia capacità di descrivere l'universo di "Merlin"!
Grazie per il tempo che mi concederete per un'eventuale lettura!
Quainquie




Your enemies are my enemies

«Your enemies are my enemies.»
– Percival, The coming of Arthur, Part II

 
Percival inclinò leggermente la testa di lato, osservando con quieta apprensione i gesti sconnessi ed euforici di un Gwaine già pesantemente ubriaco. Con una pinta di birra scura in una mano e il posteriore – purtroppo non più giovane – della procace cameriera del Rising sun nell’altra, Gwaine certo non corrispondeva al ritratto del perfetto cavaliere. Anzi, rifletté Percival osservando l’amico intonare a squarciagola una di quelle canzonacce su scappatelle e porcherie che le donne tradite cantavano ai lavatoi, Gwaine possedeva doti non proprio catalogabili come cavalleresche: ubriaco per la maggior parte del giorno e per la totalità della notte, privo di qualsiasi nozione di buone maniere comunemente intese, più propenso a sguainare la spada per un tafferuglio da osteria che per un offesa all’ideale cortese, Gwaine era l’antieroe per eccellenza.
«Una volta che hai visto un nobile, li hai visti tutti» avrebbe commentato Gwaine se qualcuno gli avesse fatto notare che il suo comportamento non era proprio degno del suo titolo, di solito detenuto da personaggi di alto lignaggio. Anzi, avrebbe accompagnato la risposta con uno dei suoi sorrisi affascinanti, buttando indietro la chioma corvina con quella disinvolta movenza che era diventata ormai il suo tratto distintivo, e trangugiando un sorso consistente di birra scura.
Percival non era un uomo di molte parole e certo non ne avrebbe spese per commentare l’affermazione di Gwaine. Nonostante le baruffe fuori dalla taverna, le damigiane fracassate in testa a qualche malcapitato avventore, le fughe rocambolesche da qualche letto coniugale al sopravvenire del consorte gabbato, Gwaine era un vero cavaliere: generoso, altruista, devoto, valoroso. Lo sarebbe stato anche se non avesse posseduto un titolo nobiliare.
Eppure Percival, il taciturno Gigante di Camelot, sapeva che quando l’amico giudicava così aspramente la nobiltà non lo faceva da spettatore esterno, di bassa estrazione sociale e perciò ostile al ceto aristocratico per natura, ma da membro di quel mondo antico e ormai corrotto. Gwaine in realtà esprimeva una paura personalissima e viscerale: la paura di non essere all’altezza di suo padre, che era stato un cavaliere degno di ogni onore e gloria, caso raro in quei tempi dove onore e gloria appunto avevano abbandonato del tutto i palazzi dei signori. Naturalmente Percival non avrebbe mai rivelato all’amico di essere a conoscenza dei suoi nobili natali e della sua triste storia. Una tale rivelazione l’avrebbe messo in posizione di confessare, seppur parzialmente, la propria triste storia, e Percival ne faceva senza dubbio a meno.
Il Gigante sorrise al di sopra del suo boccale. L’attempata cameriera ricambiò il sorriso, improvvisamente molto meno infastidita dal fatto che Gwaine avesse rivolto le sue attenzioni da sbronzo ad una donna più giovane. Percival smise subito di sorridere quando la donna ammiccò nella sua direzione e prese a fissare con determinazione le tarlature del bancone.
Cos’avrebbe detto sua madre vedendolo lì, in una bettola a Camelot, oggetto delle attenzioni di una matura cameriera, zitella ma mai sazia? Sapeva che avrebbe voluto un destino diverso per lui, diverso da quello di suo padre e dei suoi fratelli.
Quando aveva conosciuto Lancelot, non molto tempo prima, non era stato difficile persuaderlo di essere di umili origini. Il suo viaggio da Listenoise, la Terra dei Laghi, fino ai territori di Camelot l’aveva decisamente provato. Inzaccherato da capo a piedi, stravolto dalla lunghezza del viaggio e ormai a corto di qualsiasi sussistenza, Percival aveva tutta l’aria di essere un qualsiasi errante, abile di spada, ma povero in canna. La sua stazza fuori dalla norma, così come il colorito troppo chiaro della sua pelle – certo non caratteristico di un figlio di contadini dalla pelle riarsa dal sole cocente – non parevano avere instillato il dubbio in Lancelot, che vedeva in lui un omone leale e coraggioso, benché taciturno, in fuga dalle truppe di Cenred che avevano sterminato la sua famiglia.
Non erano bugie, non del tutto, rifletté Percival, ormai intravedendo il fondo opaco del suo bicchiere di vetro scadente, attraverso il quale era impossibile persino indovinare la superficie del bancone su cui era posato. Cenred aveva ucciso personalmente suo padre Pellinore e i suoi fratelli, Aglovale e Lamorak, mentre aveva incaricato i suoi mercenari di scovare e liberarsi di lui e di sua madre. Per dieci, lunghi anni era stato davvero costretto a vivere in uno stato di semi-povertà, lontano da ogni luogo abitato – particolare che certo non l’aveva aiutato a sviluppare un carattere socievole e loquace. Sua madre, così autoritaria nell’impedirgli di uscire dalla foresta per spiare i contadini che seminavano il raccolto, eppure così incline, anche dopo anni, a lasciarsi prendere da sconforto e disperazione al pensiero del marito e dei suoi figli più grandi, aveva tentato in ogni modo di impedirgli di compiere il suo destino. Non gli aveva mai spiegato nel dettaglio perché il resto della loro famiglia era stato massacrato, e perché la moglie del Re di Listenoise si era ridotta a vivere come un’accattona nei boschi, impedendo all’unico erede maschio di reclamare il regno. Non che Percival allora fosse consapevole del proprio ruolo nel complicato equilibrio dinastico di Listenoise. Anche ora, seduto al bancone del Rising sun, non poteva curarsi meno di quel titolo, ormai svanito con la distruzione delle sue terre; ciò di cui si curava, erano le responsabilità che ne derivavano.
La sua famiglia, da secoli, era stata custode del Graal, o della Coppa della Vita, come tutti, da Cenred a Gaius, amavano romanticamente definirlo. Personalmente il cavaliere non vedeva nel Calice alcun legame con la vita, soltanto con la morte: quella di suo padre, dei suoi fratelli, di sua madre, della regina Igraine, di Cenred e indirettamente anche di Lancelot. Le loro vite spezzate erano tutte indissolubilmente legate alle sorti del Calice, così come la sua.
Dal giorno in cui era stato forgiato, i signori della Terra dei Laghi avevano vegliato sul Calice e sull’Isola dei Beati, il sacro luogo contenuto nelle loro terre in cui quel potente oggetto era custodito. Le sacerdotesse dell’Antica Religione, tra cui sua sorella Dindrane, custodivano la Coppa, e soltanto molto raramente, in cambio di un prezzo altissimo, ne facevano uso: le sorti del Calice rimasero tali finché quella situazione di ancestrale e rassicurante equilibrio era stata spezzata.
Lo sguardo di Percival frugò la grande sala fumosa. Individuò Merlin in un angolo, che tentava di rendersi invisibile il più possibile ai tentativi di Gwaine di convincerlo a dare una palpatina – «Un gesto di puro e innocente apprezzamento!» come lo definiva il cavaliere in tono festoso – alla compiacente donzella che ora rideva in modo stridulo. Merlin era stato l’ultimo a vedere la Coppa sull’Isola dei Beati, Percival lo sapeva. Dindrane era stata esplicita nel narrargli le vicende del Calice: dopo lo scontro tra Nimueh, una delle più potenti sacerdotesse dell’Antica Religione, e Emrys, il leggendario stregone atteso dai Druidi, il calice non si trovava più nelle mani immortali delle sacerdotesse, poiché  l’Isola dei Beati non era più pura e forze oscure incombevano sugli antichi luoghi sacri. Il destino della Coppa era stato affidato ai Druidi, in attesa del riequilibrio tra mondo magico e terreno e dell’avvento dei suoi fautori, Emrys stesso e il Re della stirpe della Testa del Drago.
Non era stato difficile per Percival rintracciare il sovrano della Testa del Drago. Re Uther aveva dichiaratamente adottato il nome di Pendragon dopo aver visto una cometa a forma di testa di drago agli albori del suo regno. La sua avversità fobica verso l’Antica Religione aveva tuttavia convinto Percival che Uther non poteva essere il sovrano della profezia. Doveva essere suo figlio Arthur, nato attraverso la magia per la magia, grazie alla stessa Coppa che la famiglia di Percival aveva protetto fino ad allora.
Ma doveva ammetterlo, non sarebbe mai stato in grado di riconoscere il potente stregone Emrys nello smilzo servitore dagli occhi azzurri e scintillanti e dalle incredibili orecchie a sventola. Indubbiamente Merlin era coraggioso e leale, molto più di quanto Arthur fosse disposto ad ammettere (probabilmente per via di qualche attrazione non ancora ben definita che il sovrano si ostinava ad affogare nei suoi modi scorbutici e nella sua lunatica quanto improbabile relazione con la dolce Gwen), ma se sua sorella non glielo avesse dato per certo, mai Percival l’avrebbe additato come Emrys, colui che aveva sconfitto Nimueh e la potenza del Calice. Non era nella natura di Percival dare un giudizio sul rapporto alquanto bizzarro tra il giovane Pendragon e il suo servitore ma, una volta che Dindrane lo aveva messo al corrente dell’identità di Merlin e del suo enorme potere, non aveva potuto fare a meno di notare quanto profondamente e indissolubilmente fossero legati quei due, un sentimento di dipendenza talmente forte da far impallidire l’amore puro e semplice che Arthur dichiarava di nutrire per Guinevere.
Accidenti, pensò, leggermente frastornato dai rumori della taverna, sto pensando troppo e senza ordine. Gwaine, i nobili, la vita strappata dalla quotidianità, sua madre, il Calice, Merlin, Emrys, Arthur. Tentò di riprendere il filo dei pensieri, nonostante la nebbia indotta da sonnolenza e alcol gli stesse calando sugli occhi in modo alquanto fastidioso.
Dopo molto tempo trascorso nella foresta con sua madre, lontani da ogni forma di vita comunitaria, gli uomini di Cenred li avevano sorpresi. Certo, erano trascorsi dieci anni di febbrile ricerca, ma cos’erano rispetto alla possibilità d’immortalità che il Calice offriva? Ricordava le lacrime di sua madre, ingoiate nella concitazione di spingerlo a scappare, a raggiungere l’Isola dei Beati, dove sua sorella gli avrebbe spiegato ogni cosa. Non c’era stato tempo di chiederle spiegazioni. Nella sua mente, per anni, Percival aveva sperato che sua madre fosse morta in fretta e senza che le fossero inflitte umiliazione e torture fisiche.
Dindrane non era stata enigmatica quanto la loro madre, non aveva tentato di proteggerlo dalla verità e dal fardello che da generazioni gravava sulla loro famiglia. A dire la verità, era stata dura considerare quella donna dalla bellezza diafana quanto irreale un membro della sua famiglia, tanto più una sorella. Dindrane era stata allontanata dal loro nucleo famigliare il giorno della sua nascita e come ogni figlia maggiore della casa reale di Listenoise era divenuta una Custode del Graal. Era un grande onore, gli aveva assicurato lei con voce monocorde, ma Percival aveva scorto nei suoi occhi il peso ancestrale che nasceva dall’obbligo di proteggere un oggetto tanto potente: la sua vita era soltanto un’altra manciata di esistenza distrutta dalla Coppa.
Il compito di Percival era lo stesso di Dindrane e dei suoi antenati: vegliare sulle sorti del Calice. Quando aveva appreso che Lancelot era in viaggio per aiutare un certo Merlin e il principe Arthur a riconquistare il trono usurpato di Camelot, Percival non aveva avuto esitazioni: se il destino della Coppa era legato a Emrys e se davvero Arthur era il Sovrano della stirpe della Testa di Drago, allora il suo posto era con lui. Naturalmente non aveva potuto dichiarare la sua identità: non tanto per segretezza o prudenza, quando per il timore di fallire in una missione così delicata, che era costata alla vita ad un re coraggioso e generoso come suo padre, ad una madre dolce e protettiva, a dei fratelli pieni di entusiasmo e iniziativa.
In fondo, pensò Percival con un velo di amarezza, osservando Gwaine baciare con trasporto un orecchio della sua povera conquista con la convinzione di star offrendo il suo miglior approccio amatorio, lui e Gwaine condividevano le stesse paure, così come lui e Arthur condividevano gli stessi nemici. Quando Arthur senza nemmeno conoscerlo l’aveva nominato cavaliere della Tavola Rotonda, Percival aveva affermato con voce sicura: «I tuoi nemici sono i miei nemici». Dopo la vittoria su Morgana, Gwaine l’aveva preso in giro fino a quando era crollato inerte sulla sua branda, russando sonoramente: un campagnolo gigantesco dal vocabolario così altisonante e raffinato!
Se solo avesse saputo, sospirò Percival tra sé. Dopo la disfatta dell’esercito immortale, la Coppa era andata apparentemente perduta, con ogni probabilità nei meandri della città fortificata. La frustrazione provata per aver perduto quell’oggetto così prezioso e fondamentale l’aveva sopraffatto. Era rimasto a Camelot, con tutta l’intenzione di frugarne ogni anfratto per scoprire il luogo in cui era finita. Aveva assecondato ogni bravata di Gwaine – arpionare il cibo dalle cucine, per esempio – per esplorare il castello. Tuttavia la ricerca era diventata sempre meno importante per lui, mano a mano che il tempo trascorreva, senza portare risultati degni di nota. Avrebbe dovuto crogiolarsi nella disperazione ma, senza una precisa ragione, si era dato pace.
Alzò lo sguardo e incrociò quello di Merlin. Era certo di aver intravisto un bagliore, quasi un cenno d’intesa, ma era impossibile dire se fosse dovuto alla confusione della stanza, se se lo fosse solo immaginato o se fosse accaduto realmente.
Ricorda, Percival, soltanto Emrys e il Re della stirpe della Testa del Drago possono restaurare l’equilibrio che è stato spezzato e riportare la pace ad Albion.
Le parole di Dindrane risuonarono chiare nella sua mente. In quel momento seppe che la Coppa della Vita, di fronte all’unione tra Merlin e Arthur, valeva meno del suo boccale di birra. Soltanto l’instaurarsi di un regno in cui magia e umanità fossero state finalmente in armonia avrebbe dato un senso all’esistenza e al potere del Calice, la suprema sintesi tra sovrannaturale e terreno…
«Ehi, Perce. Perce! Smettila di fare quelle facce. Pensare ti fa male. Dobbiamo andare a dormire, o la Principessa all’allenamento di domani ci massacrerà» declamò Gwaine, incespicando, mentre Merlin lo tirava per una manica con fare disperato, nel tentativo di rendere la sua scenata meno plateale.
Percival non si prese il disturbo di dire a Gwaine che con i postumi di quella sbornia Arthur non avrebbe avuto nemmeno bisogno di sfoderare la spada per massacrarlo. Sarebbe stato sufficiente urlargli qualche imprecazione nell’orecchio per mandarlo a gambe per aria.
Non si prese il disturbo di dirlo perché, in fondo, Percival era un uomo di poche parole.
 
  
Leggi le 5 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Merlin / Vai alla pagina dell'autore: Quainquie