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Autore: Pichichi    18/02/2012    2 recensioni
Paloma non riesce a togliersi dalla testa l'idea che quello che le è capitato sia assolutamente eccezionale. Per questo racconta sempre la sua storia, anche se nessuno ci trova poi niente di speciale.
«Senti, scusa, io veramente dov-»
«Oh andiamo! Resti a colazione, no?»
Paloma non era preparata a respingere l’assalto di un paio di occhi pietosi.
«La colazione. Per favore.»
La condusse dunque in cucina, dove trovarono la tavola già abbigliata con tanto di tazze, cucchiai e biscotti. Fecero il loro ingresso tenendosi ancora per mano e Paloma ebbe l’impressione che a Bruno, di quel colloquio, non fosse sfuggita una sola mossa. Sedettero. In quello stesso momento capì di essere stata incastrata.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Annotazioni: il titolo è preso da un verso di una poesia di Pascoli, L'assiuolo.


ALBA DI PERLA




La luce rosata a metà fra notte e giorno parlava chiaro: era giunta l’ora di alzarsi e tagliare la corda. La prima cosa cui pensò Paloma fu che per l’ennesima volta si era ritrovata con un braccio indolenzito; approfittò dei pochi spiragli di luce per mettere a fuoco la stanza e, mossa audace e preventiva, disinnescò la sveglia digitale: non era il caso che si mettesse a suonare e svegliasse la ragazza accanto a lei, non dopo tutta la premura che stava usando per scivolare via dalle lenzuola. Poggiò i piedi nudi sulle mattonelle fredde e andò alla ricerca dei suoi vestiti; recuperò i jeans acquattati sul pavimento, prese i calzini appallottolati e li svolse per infilarli; compì tutte quelle operazioni di abbigliamento con molta cura, nel tentativo di minimizzare il fruscio degli abiti. Mentre s’infilava le scarpe le diede un’occhiata. La tizia stava dormendo e il suo respiro non tradiva alcuno stato cosciente. Non sapeva un bel niente di lei e non aveva alcun motivo valido per restare in quella stanza.

«Un incidente di percorso?» le aveva domandato la sera prima.

Era meglio mettere le cose in chiaro e capire quanto sarebbe stata difficile la ritirata il mattino seguente.

«Non lo so» aveva risposto lei.

A Paloma era sembrato che non volesse approfondire il discorso e un po’ se n’era sorpresa. Certo rendeva le cose molto più facili, ma non vi era abituata; non c’era stato nemmeno il patetico tentativo di abbraccio! L’aveva lasciata in pace e se n’era stata per  i fatti suoi.

Si prese qualche secondo in più per osservarla, con la lucidità della mattina. Non era davvero niente di speciale, pensò, la si sarebbe detta la più normale delle ragazze.

Infilato anche l’altro braccio nella manica della camicia, Paloma si sentì autorizzata ad uscire; richiuse la porta con grande attenzione. Quando si sentì abbastanza al sicuro si abbandonò ad un sospiro di sollievo e accese la luce del corridoio, onde prevenire sfortunati capitomboli. Si stupiva sempre di essere in grado di percorrere interni di appartamenti di cui, la mattina dopo, non ricordava nulla. Eppure era andata così: le aveva gironzolato attorno con aria allegra per stemperare almeno un po’ della tensione accumulata a suon di sguardi e frasi allusive; aveva lasciato le sue cose all’ingresso per non perdere altro tempo la mattina dopo e, con le mani finalmente libere, le si era avventata contro con l’impazienza di chi non ha aspettato altro per tutta la sera.

Le venne in mente che aveva bisogno di andare in bagno e non si fece troppi scrupoli ad approfittare dell’ospitalità. La ragazza doveva aver dimenticato di abbassare la serranda e dalla finestra già entrava luce sufficiente ad illuminare l’intero ambiente. Paloma si calò i pantaloni. Sedette, assorta nei suoi pensieri.

Le pareti bianche e i sanitari lucidi la frastornavano un po’, con tutta quella luce. Sulla vasca da bagno che le stava di fronte erano allineati diversi flaconi di bagnoschiuma, shampoo e creme, ognuno di un colore diverso e di una forma particolare. Paloma afferrò una confezione di colore viola e la esaminò sul davanti e sul retro, leggendo l’etichetta e saggiandone l’odore. Spese qualche secondo per cercare di ricordare se la ragazza avesse un profumo particolare, ma non le venne in mente niente, a parte una camicia color vinaccia.

«Che ne dici se ci spostiamo di là?» aveva suggerito lei.

Paloma l’aveva diligentemente seguita, attaccandosi alla sua schiena e beandosi di quel contatto.

«Aiutami a slacciarla.»

La ragazza si era seduta sul letto ed aveva armeggiato con la chiusura della sua camicia-body.

«Se non ti imbarazza troppo» aveva aggiunto, maliziosa.

«Assolutamente.»

No, non le veniva in mente proprio nulla che avesse a che fare con un profumo. Staccò della carta igienica dal rotolo, si asciugò e tirò su mutande e pantaloni prima che i ricordi della sera precedente le provocassero reazioni che, in quel momento, sarebbero state solo d’impiccio. Abbassò il coperchio della tazza e tirò lo scarico.

Si domandò che marca di dentifricio usasse. Senza star troppo a riflettere sulle curiosità insane e sul tempo che stava perdendo, diede un’occhiata al lavandino. Trovò una caramella alla menta. Allungò una mano, la scartò e cominciò a succhiarla, spostando la sua attenzione su un set per la manicure.

Accanto al tagliaunghie e alla limetta c’era la boccetta di uno smalto grigio perla; quello lo ricordava, sì.

«Ahia, mi fai male!» le aveva fatto notare con voce flebile, dopo essere stata trafitta fra le scapole.

«Scusa, hai ragione... » lei aveva smorzato la presa.

Sì, doveva essere un colore scuro e le sue unghie dovevano essere ben curate, ma lunghe; ricordava ancora meglio quando lei le aveva stretto il collo torcendo il braccio all’indietro, cercando un qualsiasi sollievo.

«F-fortuna che è la prima volta» aveva balbettato Paloma, sorpresa dalla disponibilità a variare.

La sua risposta non era stata altro che un gemito soffocato, subito seguito da un movimento convergente delle gambe, impazienti di stringersi attorno alle sue dita. Non era stato un problema per lei vedersi voltata di schiena e intrappolata fra il corpo di Paloma e la sua mano.

Il ricordo degli ansiti riecheggianti nella camera da letto le provocò un po’ di rossore, dal quale tentò di distrarsi esaminando anche il resto dei cosmetici: mascara, ombretti, fondotinta, deodoranti. Non le andava proprio giù che fosse stato tutto così freddo, no. Le dispiaceva ammetterlo, ma avrebbe voluto saperne qualcosa di più; non che la ragazza avesse dimostrato di essere più intraprendente di altre, la notte precedente – Paloma aveva avuto le più varie esperienze in tal senso, che spaziavano da appassionate di sadomasochismo a inquietanti feticiste affette dalle più strane manie – ma quell’atteggiamento tranquillo e sereno, l’augurio della buonanotte senza una dichiarazione avventata, non tornava.

Fece schioccare la lingua contro il palato, godendosi l’aroma fresco della caramella, poi avvicinò al viso un lucidalabbra ed estrasse il pennellino dal cappuccio, provando a passarselo sulla bocca. Uno spaesato e androgino pagliaccio. Si pulì con un altro pezzo di carta, rimuginando ancora su quel che si erano dette la sera prima in cerca del passaggio che doveva esserle sfuggito.

«Non sarò brava come te,» le era giunto alle orecchie come un sussurro, appena percettibile. «Ma posso imparare in fretta.»

Mentre s’interrogava su quali potessero essere le proprietà nascoste del lucidalabbra e si abbandonava ai ricordi della serata precedente, accadde qualcosa di molto stupido la riportò bruscamente nel presente e le fece intendere quanto tempo avesse speso a ciondolare in quel bagno: suonò il citofono.

Il trillo forte e secco fu come un colpo di frusta; Paloma lasciò subito andare il cosmetico che aveva in mano e spezzò a metà la caramella che aveva in bocca. Si irrigidì, in ascolto, sperando con tutto il cuore che l’importuno visitatore decidesse di passare più tardi, ma soprattutto che la ragazza non si svegliasse.

Il rumore di una porta che veniva spalancata e un paio di pantofole che si trascinavano sul pavimento la strinsero lo stomaco; quando i passi si fecero più rapidi e lontani, non ebbe dubbi: si era svegliata.

«Sì, sali pure» la sentì rispondere.

Si rese conto con orrore di essere bloccata nel bagno e, a meno di non voler dare spettacolo avventurandosi fuori dalla finestra, non vedeva altra soluzione che non fosse restare lì in silenzio e sperare che la ragazza lasciasse perdere la toeletta per quella mattina. Tese l’orecchio, in ascolto, sentendosi sempre più stupida.

La conferma l’ebbe quando la porta del bagno si spalancò – nella sua ingenuità aveva perfino dimenticato di chiuderla a chiave – e se la ritrovò davanti. Tutta la sua persona le urlava: sì, sei ridicola. Dopo un’iniziale sorpresa, la ragazza domandò:

«Sei ancora qui?»

«Eh, avevo bisogno del bagno.»

Sembrava quasi dispiaciuta. Paloma venne quindi cacciata via e relegata nel corridoio, dove rimase, non sapendo che fare, ad ascoltare il rumore dell’acqua che correva. Dovevano essere ormai quasi le otto; che stupida era stata a non essersene andata subito: ora non aveva idea di che cosa dirle, quale scusa inventare per congedarsi; l’unica cosa sensata che le venne in mente fu di scappare vigliaccamente, senza dare spiegazioni.

Con l’eco dei rumori provenienti dal bagno nelle orecchie si avviò verso la porta e si mise in spalla la borsa; non aveva però fatto in tempo a raccogliere il giubbino fra le mani e posare la mano sulla maniglia del portone che suonò il campanello.

Paloma imprecò fra i denti. Non poteva né uscire fuori come se nulla fosse e né rimanere lì inerte. Tuttavia fu proprio quello che fece, nell’ingenua speranza che il visitatore scegliesse di andarsene. Al secondo trillo del campanello la ragazza che era in bagno le intimò di aprire e lei, posando le sue cose sul divanetto dell’ingresso, obbedì.

«Ciao!»

Si trovò di fronte un ragazzo con un grande sorriso sulle labbra, le mani impegnate a reggere un vassoio proveniente dalla pasticceria e tutta l’aria di esser venuto lì per incontrare e corteggiare la ragazza che aveva passato la notte con lei. Trovarsi davanti la faccia imbarazzata e confusa di Paloma lo raggelò.

«Stavo cercando Francesca.»

«Ah, Francesca. È in bagno» si affrettò a rispondere lei.

Entrambi intuivano che c’era qualcuno di troppo. Dopo il primo momento di silenzio imbarazzato lui domandò:

«Tu sei...?»

«Paloma.»

«Piacere, Bruno.»

Nessuno dei due aveva l’aria di essere contento; Paloma pensò che dovesse sentirsi molto ridicolo con quel vassoio in mano. Fece un passo indietro, con l’intenzione di farsi da parte, ma a risolvere le cose pensò la padrona di casa, che uscì di corsa dal bagno per andare incontro al nuovo arrivato.

«Ciao Bruno! Come stai?»

Lo baciò sulle guance. Prese i pasticcini e lo invitò ad entrare.

«No no, non volevo disturbare... pensavo che fossi da sola» fece subito lui.

Il modo in cui guardava Paloma non lasciava dubbi su chi fosse l’intruso. Lei, nel frattempo, aveva recuperato borsa e giubbino e aspettava solo il momento migliore per congedarsi; non le piaceva per niente la piega che stava prendendo la situazione: non sapeva chi fosse quel Bruno, non sapeva quali fossero le complicazioni sentimentali intercorrenti fra loro ed era certa di non volerci avere niente a che fare. Non era pronta a reggere una scenata di prima mattina.

«No, non ti preoccupare, entra pure!»

Mentre parlava così, la ragazza afferrò un lembo della maglietta di Paloma e la trasse indietro con decisione, come a dire: tu da qui non ti muovi. Allo stesso modo prese Bruno per una mano e lo trascinò nell’appartamento. Si trovarono tutti e tre nell’ingresso. Pareva che Francesca non avesse aspettato altro.

«Vieni, andiamo in cucina» fece, invogliando Bruno a precederla.

Paloma pensò che fosse il momento buono per comunicarle sottovoce la sua volontà di abbandonare la situazione al più presto; non aveva nemmeno iniziato ad accennarle di certi impegni urgenti, della promessa di chiamarla non più tardi dell’indomani, ma fu tutto inutile: la ragazza la prese per mano con sicurezza e se la tirò dietro.

«Senti, scusa, io veramente dov-»

«Oh andiamo! Resti a colazione, no?»

Paloma non era preparata a respingere l’assalto di un paio di occhi pietosi.

«La colazione. Per favore.»

La condusse dunque in cucina, dove trovarono la tavola già abbigliata con tanto di tazze, cucchiai e biscotti. Fecero il loro ingresso tenendosi ancora per mano e Paloma ebbe l’impressione che a Bruno, di quel colloquio, non fosse sfuggita una sola mossa. Sedettero. In quello stesso momento capì di essere stata incastrata.

Francesca teneva molto a introdurre i due ospiti. Paloma capì soltanto che lei e Bruno erano amici d’infanzia e che lui le faceva visita ogni qualvolta gli era possibile; ogni tanto nel suo racconto veniva fuori la vena compassionevole per quell’amico così chiaramente innamorato e privo di speranze.

«Così Bruno è vittima della sindrome migratoria» diceva la ragazza.

«Sindrome migratoria?»

«I miei amici studiano tutti a Pescara, Chieti, Campobasso e così via. Nei weekend scendono tutti in massa. Vero, Bruno?»

«Sì, è vero. Una volta sul treno ho incontrato del tutto casualmente quattro ragazzi che abitano qui vicino.»

«In pratica l’Adriatica è una sezione staccata del Gargano.»

Nel frattempo Francesca la guardava in modo strano: ci metteva più che qualche secondo per distogliere lo sguardo da lei.

«Sai, non pensavo che avessi ospiti. A saperlo, sarei passato più tardi.»

Bruno non provava nemmeno più a mostrarsi gentile, ma nessuna di queste esplicite ostilità l’impensieriva.

«Hai ragione, hai ragione. È solo che anche lei è scesa ieri e si è fermata qui a Foggia per farmi un saluto. Visto che non ci vedevamo da un sacco di tempo... vero?»

Aveva mentito con una naturalezza che stupì Paloma; sembrava un’abitudine e forse lo era. Essere sua complice nella bugia non era nei piani. Ecco, le stava proprio bene, così imparava a perdere tempo a cincischiare nel bagno delle sue ragazze. Una vocina le suggerì che dopotutto non era poi una bugia così grossa e assentì col capo.

«Capisco» fece lui.

Francesca le rivolse un bel sorriso e Paloma vacillò. Qualcosa le tremò nello stomaco, forse un campanello che l’avvertiva di essere prudente, ma non se ne accorse: era troppo occupata a ricambiare.

*

Quando Paloma terminò il suo racconto le uniche luci rimaste ad illuminare la strada erano quelle dei lampioni: la luna era sparita dietro un grosso nuvolone scuro e la città se ne stava in silenzio. Le piaceva sempre raccontare quella storia, ogni volta che trovava qualcuno disposto ad ascoltarla non perdeva occasione per rifilargli quelle teorie ampiamente – a sua detta – dimostrate. Nonostante il passare del tempo, continuava a sembrarle la cosa più assurda del mondo e s’indispettiva quando gli altri non capivano. Il tonfo di una bottiglia di birra contro il marciapiede la fece sussultare: non aveva la visuale molto ferma e fece fatica a rinsavire. Batté più volte le palpebre e mise a fuoco una, due, tre ragazze.

«Che storia.»

«Un’esperienza interessante.»

Paloma era seduta sulla panchina nel mezzo del corso a gambe larghe. Intorno a lei si era radunata una piccola folla – non sapeva nemmeno lei quando e come si fosse creata – di ragazze che, alla chiusura del locale l’avevano seguita ed avevano ascoltato la sua storia per filo e per segno.

«Ma poi era vero che eri passata a trovarla?» domandò una delle ragazze che le stavano più vicine.

«No, era una scusa, non hai capito niente!» spiegò un’altra ragazza, infervorandosi. «Era un modo per far capire a Bruno che non aveva proprio nulla da fare, lì!»

«Chi è Bruno?»

Tutta la compagnia appariva molto distante e in evidente stato di ubriachezza; l’unica ad aver ascoltato il suo racconto con attenzione sembrava essere la ragazza alla sua sinistra, dotata di un grazioso giubbotto beige e di un paio di lunghe ciglia.

Paloma era un po’ confusa. Sbadigliò e, poggiando un gomito contro lo schienale, si resse la testa che le ciondolava di lato. Lo scenario della città notturna e deserta le piaceva molto e al contempo la rattristava grandemente: era bello andare in giro per il corso privato del rombo delle auto e della moltitudine di passanti, ma al contempo quel vagare senza meta le generava un senso di solitudine a tratti spaventosa. Se ricordava bene, era uscita quando mancava poco alla mezzanotte e si era stabilizzata in un locale qualsiasi, provando un inspiegabile desiderio di lasciare la sua casa e il suo letto. Se n’era stata per i fatti suoi, col mento poggiato sul bancone e tutta l’aria di non aver voglia di parlare con nessuno, quando le si era avvicinata una ragazza – o forse due, chissà – che le aveva domandato cos’avesse.

Lì aveva cominciato a raccontare e raccontare, snocciolare nomi e cognomi a casaccio, straparlare di una relazione che non le piaceva per niente e che tutto sommato le faceva comodo, di una serie di coincidenze, di un vassoio di pasticcini e di un citofono che aveva suonato troppo presto.

Una volta giunta a nominare il profumo di albicocche dello shampoo della sua ragazza la folla attorno a lei si era fatta tanto numerosa da costringerla a voltarsi totalmente dalla loro parte. Ancora una volta nessuno voleva capire che era qualcosa di eccezionale.

«Insomma, in fondo chi l’aveva detto che doveva andare così? Non c’era stato nessuno sfarfallio la sera prima, nessuna scintilla... voglio dire, niente di speciale! Doveva essere una cosa tranquilla, una serata come migliaia di altre!»

«E invece...»

«Invece... non so, è stata tutta sfortuna!»

«Sfortuna?»

«Sfortuna sì! Se quel campanello non avesse suonato proprio in quel momento, io me ne sarei andata via subito e non l’avrei probabilmente mai più rivista. Mai più...»

«Be’, nessuno t’impediva di andartene.»

«Tu cosa le avresti detto? Dovevi vedere con che occhi mi guardava!»

«Ma che c’entra, se sei rimasta è perché qualcosa è scattato, no?»

«No.»

«E allora cosa?»

«Io... non so, ho scelto per convenienza. Sì, per convenienza!» affermò, felice di aver trovato il giusto termine. «Lei non aveva niente di speciale, lei non ha niente di speciale!»

«E allora lasciala, cosa vuoi?»

«Lasciarla?»

Paloma avvertì qualcosa dentro di sé tremare mentre ripensava all’effetto che le aveva fatto quella domanda.

«Come sarebbe a dire lasciarla?»

«Lasciarla. Se non c’è motivo perché stiate insieme...»

Quei passaggi li ricordava distintamente ed anzi le sembrava che fossero stati gli unici momenti veramente significativi di quella notte; sforzando di più la memoria, anche se con la testa ovattata e pesante, riusciva a riprodurre il balbettio che le era salito alle labbra di fronte a parecchie paia d’occhi in attesa di risposta.

«C-che cosa? No-non... che cambierebbe?» aveva risposto, facendo seguire uno sbuffo divertito, in cerca di consenso.

Si stropicciò un occhio, estraniandosi dal ricordo, e notò che gran parte delle ragazze che prima le stavano attorno erano svanite nel nulla. Una ragazza però le era rimasta accanto, quella con il giubbino beige. Si accorse che la stava guardando con molta attenzione e che si era spostata in modo da farsi più vicina; chiedendosi fra sé da quanto tempo la stesse fissando a quel modo, domandò:

«Che ore sono?»

«Le quattro e qualcosa.»

Tirando un sospiro e reggendosi coi gomiti sulle ginocchia, Paloma si sentì inquieta e a disagio. Si domandò che cosa stesse facendo lì e comprese l’inutilità di quella nottata passata in bianco. Ebbe voglia di tornare a casa.

«Non hai sonno?»

Vide la mano della ragazza poggiarsi sulla sua gamba e provò l’impulso di ritrarsi, disgustata. Per sfuggirle si poggiò contro lo schienale, alzando il capo verso il cielo a controllare la presenza di qualche nuova stella.

«Di’, non hai sonno?» riprovò quella.

«No, non tanto.»

«Come no, ti si chiudono gli occhi.»

Era vero, doveva fare una gran fatica per tenerli aperti. Per fortuna c’era qualcos’altro, un pensiero più urgente, a tenerle occupata la mente.

La ragazza allungò una mano oltre la schiena di Paloma e le spostò qualche capello dalla fronte, incoraggiata dalla sua aria catatonica.

«Se ti va ce ne andiamo a casa mia.»

Le tornò in mente l’ultimo frammento della sua arringa tenuta alla folla.

«In che senso cosa cambierebbe? Che vuol dire, che le ragazze sono tutte uguali?» le avevano domandato.

«No...» aveva replicato lei a fatica, confondendosi. «Che andare con un’altra ragazza significherebbe ripetere tutto daccapo, non ci sarebbe niente di particolare! Il senso è che... dunque, non è che sono tutte uguali...»

«Ma va’ che è ubriaca, non capisce nemmeno quello che dice.»

S’innervosiva a ripensarci; non avevano capito. A un tratto si divincolò dalla presa della sua aspirante seduttrice e decise che ne aveva abbastanza di stare seduta su quella panchina.

«Dove te ne vai?» domandò la ragazza, allungando una mano per trattenerla.

Paloma le voltò le spalle e iniziò a camminare a passo sostenuto in una direzione qualsiasi. Le sembrava di udire qualche cosa nell’aria, probabilmente richiami misti ad insulti, ma non vi badò. Fu molto lesta a ritornare sui suoi passi, le sembrò che le strade conosciute le si presentassero davanti, invogliandola a seguire quel percorso; mano a mano che camminava accelerava il passo e non vedeva l’ora di giungere a destinazione.

Finalmente comparve il portone del suo palazzo, il familiare marciapiede ai piedi del quale era parcheggiata la sua macchina. Infilare le chiavi nella serratura, spingere il portone e salire di corsa i due piani di scale fu semplicissimo, quasi quanto fiondarsi nell’appartamento con il fiatone e un mal di testa crescente.

A quel punto, tranquillizzata dal silenzio della casa, dal calore e dalla familiarità dell’ambiente, Paloma avanzò a tentoni verso la camera da letto; la guidò la debole luce dell’abat-jour, che lasciavano sempre accesa. Corse verso il letto, salendovi vestita di tutto punto e stringendo a sé la vita della ragazza addormentata fra le coperte.

Il contrasto fra le sue mani fredde e il corpo caldo, unito al profumo dei capelli su cui posò un bacio, la rassicurò a tal punto da indurla a chiudere gli occhi e dimenticare tutto quello che le era capitato quella notte; non uno solo dei pensieri e delle domande che si era posta tornò a farle visita.

Il fiatone che aveva accumulato nella sua frenetica corsa si placò piano piano, finché Paloma non regolarizzò il respiro secondo quello della sua fidanzata e si addormentò, vinta dalla stanchezza.

Francesca, a quell’abbraccio inaspettato, ebbe un sussulto che la ridestò da un sonno leggerissimo: per tutta la notte si era rigirata nel letto, conscia dell’assenza di Paloma; si era concessa solo qualche sprazzo di sonno, dal quale si era risvegliata con sempre maggiore inquietudine. Quella volta poggiò una mano sulle sue e richiuse le palpebre. Anche se l’angoscia la tormentava ogni volta, lo sapeva: tornava sempre.

   
 
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