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Autore: Mushroom    22/02/2012    6 recensioni
"Sospirò. Uno squillo e mezzo, e lo scrittore le aveva già risposto «Sono sotto il tuo palazzo»
«Ma non mi dire» borbottò ironicamente. Ecco, Castle era l’unico che poteva piombare a casa sua, senza preavviso, dopo le dieci. Sentì un nuovo squillo del citofono. E altri due subito di seguito, prepotenti, mentre Richard Castle continuava a lamentarsi. «Detective, su, apri» disse «Suvvia, ho portato la pizza».
Quella era corruzione. Corruzione bella e buona. Il suo stomaco emise un borbottio all’idea della pizza – quella era la risposta definitiva."
Genere: Commedia, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Kate Beckett, Richard Castle | Coppie: Kate Beckett/Richard Castel
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
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Titolo: Pezzi di Pizza
Fandom: Castle
Personaggi: Richard Castle, Kate Beckett
Rating: Verde
Wordcount: 3460
Note: E dopo un delirio impressionante, eccomi finalmente a pubblicare D: ammetto che avrei potuto dedicare un po' più di tempo alla revisione (errori di battitura del cavolo, un giorno vi beccherò tutti!) ma si arriva a un certo punto dove non si puo' dire che "basta" xD
Dopo aver perso più volte pezzi e stralci per via di Word, che mi boiccottava bloccandosi, e del pc, che si spegneva come e quando voleva lui, ho impiegato davvero tanto tempo a scrivere questa one-shot.
Titolo: Pezzi di Pizza
Fandom: Castle
Personaggi: Richard Castle, Kate Beckett
Rating: Verde
Avvertimenti: Nonsense, One-shot, Twt (Time line? What Time line?)
Wordcount: 3460
Note: E dopo un delirio impressionante, eccomi finalmente a pubblicare D: ammetto che avrei potuto dedicare un po' più di tempo alla revisione (errori di battitura del cavolo, un giorno vi beccherò tutti!) ma si arriva a un certo punto dove non si puo' dire che "basta" xD
Dopo aver perso più volte pezzi e stralci per via di Word, che mi boiccottava bloccandosi, e del pc, che si spegneva come e quando voleva lui, ho impiegato davvero tanto tempo a scrivere questa one-shot. 
In ogni caso, eccomi qui. E' stato più facile del previsto tornare a scrivere su questo fandom, sebbene Richard e Kate siano IC solo nella mia testa ç_ç  
Disclaimer: Tutto questo è puro fangirling, e il materiale di riferimento (personaggi e Serie) è proprietà della Abc. 
 
{prompt 05. Notte}

 

 


Era ormai notte quando Kate Beckett decise di aver lavorato abbastanza. Inclinò il capo circospetta, osservando le solite – immancabili – scartoffie che seguivano il vittorioso arresto di un assassino, di un pazzo o di un sociopatico – la classificazione variava da caso a caso.
Castle preferiva sempre quando si trattava di pazzi assassini psicopatici: l’idea, in quell’uomo, che qualcuno fosse così astuto, abile (e folle) per commettere un omicidio utilizzando antichi riti voodò o processi mentali particolari, provocava in lui un delirante senso di eccitazione. La cosa era alquanto adorabile, così come estremamente spaventosa.
Kate, invece, preferiva gli omicidi casuali, non seriali e semplici: non per la linearità del caso, quanto per l’umanità di chi li attuava. Non aveva bisogno di ritenersi una Detective di “Criminal Minds” per fare bene il suo lavoro. E in ogni caso, anche una lite domestica poteva essere ostica quanto un pirata spaziale cannibale proveniente dal pianeta gamma.
L’orologio segnava solamente le dieci, costatò Kate, rimuginando sul fascicolo aperto. Ridacchiò appena ricordando grande tuffo che Esposito e Castle avevano fatto cercando di inseguire l’assassino, pescatore di sessant’anni amareggiato dalle continue delusioni arrecategli dal figlio omossessuale; come ultimo d’atto d’intolleranza, l’aveva ucciso, e per qualche strana ragione (non era suggestione, la Detective Beckett era quasi certa di averlo letto nel suo sguardo) sembrava anche contento dell’atto compiuto. 
Probabilmente – no, certamente – in tutto questo c’era poco da ridere.
Ma quella scivolata era stata così clamorosa da fermare l’assassino in fuga, il quale non aveva smesso di ridere fino al commissariato. Decisamente un tipo particolare.
Scritto sulla lavagna del distretto “Polizia 1 – Cattivi 0”, salutato Castle (che probabilmente era ancora lì a ciarlare, da solo, sulle sue grandissime abilità da inseguitore) e spente le ultime luci, tutto ciò che le era rimasto da fare – come sempre, d’altronde - era finire il rapporto. Cosa che, al contrario di quanto molti pensassero, era quasi rilassante. Concentrava Beckett fino a un livello di totale estraneazione, perché quel resoconto, quella carta e quell’inchiostro, erano il documento ufficiale che rispondeva a tutte le domande di chi conosceva la vittima, di chi le voleva bene.
Come, dove, quando, perché, da chi. Ogni punto veniva chiarito.
E adesso quelle domande aspettavano solo di essere pazientemente riempite.
Dieci e cinque, ribatté l’orologio. La sua mente era troppo stanca per continuare, nonché per svolgere diligentemente quel lavoro. Sentiva semplicemente di aver bisogno di un po’ di riposo, così depose il fascicolo sul tavolo – reso invivibile dalla presenza di carte, bollette, un pc in disuso e una buona quantità di panni sporchi.
Qualche passo e fu in cucina, per valutare il contenuto alquanto deludente del frigorifero. Una patata ammuffita, i rimasugli di quello che doveva essere un pezzo di formaggio, qualcosa di verde (Che la Detective si rifiutò di identificare) e… oh, quello assomigliava al suo vecchio telecomando.
Scosse la testa e richiuse il frigo.
Promemoria: fare qualche pulizia. Più la spesa, ovviamente.
Qualche passo per raggiungere il telefono e chiamare il Take away cinese: occupato. Biascicò un imprecazione e riprovò un paio di volte, senza successo. Accese la tv servendosi del telecomando nuovo, quello comprato due settimane prima. Fece zapping, riprovò a chiamare al cinese. Sempre occupato. Provò alla pizzeria, dietro al take away appena chiamato: quel giorno non facevano consegne; thailandese, troppo lontano; Idiano, non aveva voglia. Il cibo d’asporto si divertiva a boicottarla.
Alla fine, l’opzione più sensata iniziava a sembrarle il digiuno.
Aggirò il tavolo della cucina, con il telegiornale che annunciava un furto d’auto e denunciava l’alto livello di criminalità della città. Frottole, pensò. New York non era così pericolosa, e un furto d’auto non le appariva come qualcosa di incredibilmente fenomenale. Era sicura succedesse in tutte le parti del mondo, che qualche macchina fosse rubata.
Tolse via le scarpe e cercò le pantofole nella stanza da letto.
Al diavolo il cibo.
Ciò di cui aveva veramente bisogno era un pigiama, un film e il divano. Assoluto riposo.
Kate Beckett era fermamente convinta che l’autocontrollo potesse contenere tutto, anche la fame. Si legò i capelli dietro la nuca con un vecchio elastico scuro.
Privata dei Jeans e del maglione, la sua pelle si rilassò a contatto con il tessuto morbido del pigiama.
Tornò in cucina con passo più certo, decisa a farsi un thè e riprovare con il take away qualche minuto dopo.
Fu esattamente tra il secondo in cui reperì il pentolino e quello in cui lo poggiò sul lavabo che il citofono suonò; con quel suo rumore metallico, artificiale e poco famigliare. Erano in pochi a suonare alla sua porta, in realtà, e quando questo accadeva non erano mai buone notizie.
Le dieci e trentacinque, le ricordava l’orologio. E Kate non capiva chi potesse essere a quell’ora.
Il primo impulso fu quello di impugnare la pistola e accostarsi alla porta. Meditò in pochi secondi di raggiungere il letto, in cui aveva irresponsabilmente lasciato la propria fondina, e minacciare chiunque fosse al di là della porta.
Il secondo impulso, fu quello di alzare il citofono e dire “Dimmi che sei quello del ristorante cinese”.
Il terzo, che invece le sembrò più plausibile e razionale, fu quello di prendere il telefono e selezionare “Castle” dalle chiamate rapide. Sospirò. Uno squillo e mezzo, e lo scrittore le aveva già risposto «Sono sotto il tuo palazzo»
«Ma non mi dire» borbottò ironicamente. Ecco, Caste era l’unico che poteva piombare a casa sua, senza preavviso, dopo le dieci. Sentì un nuovo squillo del citofono. E altri due subito di seguito, prepotenti, mentre Richard Castle continuava a lamentarsi. «Detective, su, apri» disse «Suvvia, ho portato la pizza».
Quella era corruzione. Corruzione bella e buona. Il suo stomaco emise un borbottio all’idea della pizza – quella era la risposta definitiva. Attaccò il telefono e aprì il portone al momentaneo fattorino Richard Castle, portatore di pizza e scocciatore dell’ultimo minuto.
Kate rimase un secondo a meditare sull’ultimo punto, decidendo che, finché aveva la pizza, poteva arrivare lì anche alle tre di notte. Mandò a quel paese anche il proprio orgoglio (sebbene con uno sforzo assai maggiore) quando si accorse di essere semplicemente in pigiama. In realtà non considerava l’essere il pigiama un problema, quanto più l’allegro pinguino che vi era raffigurato in tutto il suo roseo splendore. Sì, aveva un pigiama con un pinguino rosa: la cosa stupiva anche lei, qualche volta.
Scosse la testa e lanciò uno sguardo all’inagibile tavolo del salotto e al più modesto, ma ugualmente devastato, tavolino che aveva in cucina. Forse non erano esattamente adatti a ospitare qualcuno.
Castle bussò leggermente, fissandola dallo spioncino con un grande sorriso leggermente beota. Aprendo la porta, la Detective fu disarmata, per la prima volta, dal profumo di una pizza.
Perché era sempre convinta che il cervello dominasse la fame, ma sapeva che esso cedeva di fronte a un pasto fumante.
Kate borbottò un “ciao” di saluto, senza entusiasmo, che sembrò far dissipare leggermente il sorrisino di Castle. Chiuse la porta senza neanche accorgersene, con una spinta decisa e sicura.
«Pizza» rispose lui a mo’ di saluto, guardandosi, ansioso e circospetto, intorno. Kate osservò il suo sguardo blu posarsi su ogni dettaglio della stanza; studiare, senza il minimo ritegno, ogni mobile, ogni intaglio; soffermarsi, curioso, sul terremotato tavolo del salotto e sorridere appena alle foto che Kate teneva in una mensola poco lontana. Lo vide analizzare, con la stessa concentrazione di quando fissava la lavagna del distretto, il luogo in cui Kate Beckett viveva. Ed era quello sguardo particolarmente acceso di quando Castle aveva un’idea, una di quelle coerenti, dove smettevano di esistere complotti e organizzazioni spaziali, ma rimanevano solo i fatti e le persone, la vittima e la sua storia. Gli stessi occhi che formulavano teorie valide, che spesso Kate completava, inconsapevolmente, mentre si scambiavano frasi che completavano l’uno con l’altra.
Vide l’espressione sul viso di Castle cambiare man mano che scopriva qualche dettaglio nuovo – bastava anche solo un libro di suo interesse per scaturire – benché Richard cercasse di nasconderlo – un improvviso e insensato moto di gioia.
Kate rimase ad osservare il viso dello scrittore mutare, lì, appena sulla soglia, per un tempo che lei stessa definì eccessivo. C’era qualcosa di allarmane in quello sguardo curioso, da bambino, che Kate percepì in modo precipitosamente brusco.
Si schiarì la gola, impacciata, e finalmente Castle smise di esaminare la stanza. Rivolse il suo sguardo su di lei, e il sorriso si accese di nuovo, trasformandosi, presto, in una risata senza ritegno. Tra un riso e l’altro borbottava  un «Pinguino» e «Rosa» e «Pigiama».
Quello era l’esatto motivo per cui Kate avrebbe voluto avere qualcos’altro addosso. Lo fissò adirata, alzando uno sguardo che ammetteva ben poche repliche e che annunciava morte imminente nel caso lo scrittore avesse continuato a ridere. Probabilmente il messaggio non fu abbastanza chiaro, perché, dopo aver cercato di tornare serio per pochi secondi, Richard riprese a sghignazzare.
Kate gli prese via le pizze con un gesto brusco, dandogli un calcio leggero sulla caviglia.
«Smettila» sibilò «È un pigiama con pinguino, ed è un gran bel pigiama».
Dominò con forza il suo istinto, che le suggeriva di dargli un pugno in mezzo al naso, e fece segno allo scrittore di seguirla fino alla cucina.
«Non ti facevo tipo da pigiama con i pinguini» osservò Castle, entrando nella piccola cucina, la quale non aveva nessuna reale separazione dalla sala comune. «Sono solo sorpreso. Credevo fossi più tipo da camicia da notte rossa, trasparente, stile Detective sexy…» Castle non completò la frase. Forse qualcosa, nella propria mente, gli aveva suggerito a ragione di sapere.
Kate appellò quell’improvviso atto di buon senso con il nome di “Coscienza”. A quanto pareva, pure lo scrittore era dotato di un primordiale istinto di sopravvivenza.
La Detective alzò un sopracciglio «Avresti preferito una camicia da notte sexy?» domandò, ironica, mentre poggiava le pizze nell’unico angolo del tavolo ancora agibile. Diede momentaneamente le spalle al proprio ospite, frugando tra i cassetti alla ricerca di un paio di posate e due tovaglioli.
«Ti prego» borbottò Castle «Non farmi rispondere».
, pensò la Detective, forse tiene davvero alla vita. Anche se lasciarsi sfuggire battutine simili, servite su un piatto d’argento, non era sicuramene da lui.
Kate increspò le labbra «Mi spiace per il disordine»
«Niente di che» rispose, alzando le spalle «L’ultimo mese hai praticamente vissuto in commissariato; tornavi solo per dormire, a quanto ricordo, per cui… beh, in ogni caso, ho immaginato che non avessi da mangiare» si fermò un attimo «Il frigo vuoto è un must di Nikki Heat».
«Se è il tuo modo di scusarti per aver fatto irruzione a casa mia, alle dieci e mezza di notte, puoi risparmiartelo – indicò la pizza – quella basta e avanza»
Un attimo di silenzio. Alla tv trasmettevano un servizio sulla nuova moda dei cappelli inglesi. Kate fece spazio sul tavolo, cercando di liberare un paio di posti dove sedersi. Sparecchiò ciò che era rimasto delle cene delle ultime settimane, sbarazzò alcune tazze di caffè vuote e passò un panno, cercando di rendere più ospitale la superficie. Indicò a Castle dove poggiare il cappotto e gli suggerì di apparecchiare –la pizza si sfreddava.
Quando, infine, riuscirono a sedersi, l’orologio segnava le undici e cinque. La pizza era fredda e Kate, nonostante tutto, si rifiutò di riscaldarla. Il profumo l’aveva già devastata abbastanza.
Lo stomaco prese a borbottare sempre più costantemente e man mano che mangiava sembrava richiedere sempre più cibo. Probabilmente – e questo doveva ammetterlo amaramente – il cervello non poteva controllare proprio ogni cosa; e una di queste cose indomabili era, forse, il bisogno di cibo dopo un certo orario o in certi momenti.
Cervello 0 – Stomaco 1
Kate si dichiarò sconfitta su tutta la linea. Al diavolo il thè e il digiuno.
Il silenzio artificiale che si era venuto a creare veniva di tanto in tanto interrotto dal rumore della televisione, il cui volume sembrava aumentare in base alle notizie o a un determinato spot pubblicitario. C’erano dei momenti in cui la Detective Beckett desiderava avere una radio al posto del televisore: lei non guardava veramente lo schermo, ma si limitava ad accenderla per avere qualche rumore in casa; per avere compagnia. La radio, quantomeno, avrebbe trasmesso qualcosa di più profondo dello spot di Mastrolindo – sempre che si sintonizzasse sulla giusta stazione. In caso contrario, non aveva un idea esatta di cosa fosse meno profondo tra uno spot di quart’ordine e una canzone di Lady Gaga.
«La prossima volta» fu Castle a rompere il silenzio, alzando gli occhi dal proprio cartone di pizza – ormai semivuoto – e rivolgendole un altro sguardo. «Prima di piombarti in casa, chiamerò. Almeno saprò che tipo di pizza ti piace e eviterò di ricadere su una banalissima Margherita»
«La Margherita non è banale. La Margherita è okay» rispose, di slancio «E’ la mia preferita»
Richard Castle smise di tagliare la propria pizza, aggrottando le sopracciglia in modo pericolosamente espressivo «La Margherita è banale. Credevo che fossi più tipo da quattro stagioni»
«Sì, e credevi che indossassi camicie da notte sexy mentre stavo in casa da sola» disse ironicamente.
«Perché, ti capita di indossare camicie da notte sexy
Il modo con cui calcò l’ultima parte della frase, sottolineando l’abito intimo, le fece intuire che avrebbe potuto divertirsi un mondo, se solo avesse trovato la battuta giusta.
«Dipende dall’occasione» .
Fu a quel punto che Castle si zittì. No, “zittire” era un termine grosso per Richard Castle. Lui non smetteva mai di parlare – anche quando, effettivamente, la sua bocca non emetteva fiato. Rimaneva semplicemente lì, a fissarti, con una mimica facciale invidiabile dai migliori attori e quegli occhi incapaci di nascondere qualsiasi pensiero. Era un po’ come se Richard Castle pensasse a volume più alto rispetto alla media, cosicché – anche quando stava fermo a non far niente – sembrava di udire le sue parole, le sue congetture, e si potevano percepire, chiare, le emozioni. Tuttavia queste erano spesso paragonabili a quelle di un bambino di otto anni che gioca felice al parco.
In quel momento fu esattamente come se lo scrittore avesse continuato a parlare, sebbene si fosse preso una pausa per decidere che cosa dire.  
«Deve essere una grande occasione» affermò  infine, sogghignando «Ma inizio a pensare che il pigiama con i pinguini sia molto meglio».
Kate Beckett si sorprese a sorridere contro la propria volontà.
«E’ un sorriso, quello, Detective?» la canzonò, puntandole un dito contro «Ero convinto che questa sera non te ne avrei strappato neanche uno. Devo rivalutare le mie grandi doti attrattive»
«La modestia sempre al primo posto – è bello sapere che certe cose non cambiano mai»
«Non parlare come se non ci vedessimo da anni» piagnucolò, sempre scherzando «Mette tristezza»
«Non prenderla così. La tua modestia dovrebbe essere un postulato di un teorema matematico».
Richard Castle alzò un sopracciglio, forse lusingato, forse – più probabilmente – perplesso.
L’orologio aveva improvvisamente smesso di essere importante, la tv trasmetteva un servizio sui Queen.
We are the Champions” risuonò chiara in mezzo a quel dialogo sconclusionato. Il classico discorso di chi non aveva realmente qualcosa da dirsi.
«Se la mia modestia fosse un postulato matematico, mi studierebbero a scuola. Beh, un giorno mi studieranno comunque sulle antologie di lingua inglese»
«Per l’appunto»
I've made a few / I've had my share of sand kicked in my face
«But I've come through» canticchiò senza pensarci. Aveva ascoltato così tanto quella canzone da essersi totalmente dimenticata della sua piccola mania di canticchiarla sempre. Ops.
Castle la fissò ancora più accigliato «…We are the champions my friends?» continuò.
I Queen gli fecero eco subito dopo, dal volume improvvisamente più alto dell’apparecchio televisivo.
«Canticchi I Queen, Beckett?»
«Scherzi? Solo quando indosso un pigiama con i pinguini»
Rimasero a fissarsi per qualche secondo. La tv che alzava e abbassava il volume a suo piacimento e i Queen in sottofondo. Scoppiarono a ridere senza neanche sapere perché.
Kate trovava ridicola la situazione – la casa distrutta, i pinguini nel pigiama, la pizza e i Queen. Per un momento, valutò la situazione come possibilmente pericolosa. Finché si limitava alle chiacchiere al distretto, Kate era sicura che Castle non avrebbe mai invaso il suo spazio personale. Ovviamente qualcosa l’uno dell’altro la sapevano e, chissà per quale motivo, erano riusciti a diventare qualcosa di simile a due amici.
Nonostante questo, Kate Beckett aveva paura di mangiare una pizza a casa sua.
And we'll keep on fighting till the end
«Diavolo, amo questa canzone» Richard Castle continuava a ridacchiare come un idiota, canticchiando tra se e sé. Si alzò in piedi con fare teatrale, porgendole la mano con altrettanta drammaticità.
«Cosa diamine fai?»
«Ti invito a ballare. Su, Detective. We are the Champions è una canzone che va vissuta» enfatizzò l’ultima parola come se ne andasse della sua vita. Ancor prima di ascoltare una risposta – sarcastica e carica di buone motivazioni per le quali non avrebbero dovuto ballare quella cavolo di canzone – Castle l’aveva già afferrata e trascinata su, attirandola a sé come una cavolo di bambola.
Ci furono due secondi, in tutto quello, in cui Kate trovò la cosa piacevole; il resto del minuto fu dedicato a piani assassini per far pentire amaramente lo scrittore di quel gesto.
«Ti prego» sbottò, alzando gli occhi al cielo e divincolandosi dalla stretta di Castle. «Smettila di comportarti come un bambino»
«Hai iniziato tu» ribatté lo scrittore, aumentando la presa su di lei «Colpa tua che ti sei messa a cantare. Adesso balli»
«Oppure?»
«Oppure farò indossare un pigiama con i pinguini rosa a Nikki Heat. E i Fan – lo sai meglio di me – fanno tante domande sulla provenienza di bizzarre minuzie. Le adorano»
La Detective Beckett borbottò un imprecazione. Che scrivesse ciò che voleva, su Nikki Heat. Tanto, a dispetto di quanto credessero i fan, Beckett e Heat erano due persone diverse.
Ballare con Richard Castle, per esempio, era una cosa che Kate Beckett non avrebbe mai fatto; su Nikki Heat, invece, aveva qualche dubbio.
Castle continuò a canticchiare.

We are the champions
We are the champions

 

Beckett, senza rendersi esattamente conto del perché, prese a farlo con lui. Stavano fermi nello stesso punto, in mezzo alla sala, ondeggiando sul posto e ridacchiando.

No time for losers
'Cause we are the champions of the world
 


Si stavano comportando come due adolescenti. Oh, col cavolo! Si comportavano sempre come due adolescenti!
E questa era la classica pera mentale tipica della donna adulta che fa qualcosa di totalmente assurdo e privo di senso.
In quel momento, sentì una parte della propria anima sussurrarle, con tono sardonico, qualcosa come “Cervello 0 – Stomaco 2”.
Perché sapeva – e non poteva impedire alla coscienza di ribadirglielo, sempre più forte – di non poter negare che, in quel momento, qualsiasi cosa avrebbe fatto sarebbe stata del tutto sbagliata.
Kate sapeva come finivano quel genere di serate. Nei suoi occhi passarono immagini di film di quart’ordine, canzoni strimpellate e abiti lasciati cadere sul pavimento; e allo stesso modo, ciò che non voleva vedere stava al di là di quelle immagini del tutto irreali. Sapeva che non poteva semplicemente far vincere la pancia, per così dire. E ciò che faceva in compagnia di Richard Castle era sempre venir meno alla propria parte razionale.
Talvolta la Detective odiava quell’uomo e quel suo modo di guardarla e di assordarla anche stando in silenzio.
In quel momento, però, sentiva il bisogno (o qualcosa di molto simile) di ridere con lui, stonando sulle povere note di Freddie Mercury. Mentre, un altro lato della propria testa, la allarmava, respingendo ogni parte di quella specie di gioco.
La canzone finì e il volume della televisione sembrò abbassarsi all’improvviso.
Kate Beckett pensò seriamente di doverla portare in assistenza.
Rimasero immobili, in un silenzio improprio, implicito di natura. Kate sorrise appena, scostandosi da lui; dalle sue mani, che la cingevano lungo i fianchi e l’attiravano, come se fosse la cosa più semplice del mondo.
Oltre a sentirsi un’adolescente, si sentì anche una stupida.
Perché sapeva come finivano le serate così, pigiama con i pinguini a parte.
L’orologio tornò ad essere importante.
Mezzanotte.
Richard Castle la guardò leggermente incantato. Scosse la testa e guardò a sua volta l’orologio.
«Io direi che adesso…»
«Dovresti andare» rispose la Detective.
«Sì, esatto. Domani… nuovo giorno, nuovo caso. Speriamo in qualcosa di sanguinolento»
«E sociopatico» completò Beckett, canzonandolo e accompagnandolo verso la porta.
Richard esitò un attimo, cercando di sistemarsi – forse più lentamente del dovuto – il cappotto. Come nell’esatto momento in cui era arrivato, si lasciò andare sui dettagli dell’appartamento. Più velocemente ma in modo abbastanza accurato.
«A domani, Detective» era un saluto impacciato.
La porta si chiuse con un tonfo leggero e la mente di Kate Beckett tornò a funzionare a dovere, così come la televisione. Adesso quei pochi decibel di volume non sembravano né più alti né più bassi di quel che fossero.
Non c’era più quell’assordante silenzio, che le graffiava le orecchie e esigeva di essere ascoltato, movimento dopo movimento, nota dopo nota.
E la coscienza, in quella sua vocina subdola, le suggeriva, ancora una volta, che era mezzanotte e cinque e lo stomaco, almeno quella sera, aveva vinto sulla parte razionale.
Castle 1 – Beckett 0

   
 
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