Anime & Manga > Lady Oscar
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Autore: GaiaTon    23/02/2012    12 recensioni
Parigi, estate 2006. Oscar è una ragazza androgina, vitale interessante da sempre innamorata senza essere corrisposta del suo migliore amico Hans. Trascinata in una vita sempre uguale, brillante in superficie, ma frustrante nella realtà, Oscar incontrerà per caso un ragazzo moro dall'aria fine, che riuscirà a sorprenderla e farla cambiare punto di vista sull'amore e sulla vita.
Tratto da una storia vera. La mia.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Alain de Soisson, André Grandier, Axel von Fersen, Marie Antoinette, Oscar François de Jarjayes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia aspetta nel mio computer da quasi sei anni, quando l'ho scritta di getto senza averla pensare, solo con l'urgenza di dare forma alle mie forti emozioni di quell'estate. C'è dentro una grande parte di me di quel periodo. Aspetto con ansia commenti ed opinioni. E' la mia prima fic!

A te che esisti veramente e non ti chiami Hans.

 
 
 
Non sono nessuno altro che me. Una giovane donna che avrebbe voluto nascere maschio perché da sempre la vita delle donne è più dura. Perché la vita di una donna deve per forza appartenere a qualcun altro per avere senso, perché non può esistere da sola. Anche se non sono sola ma solo libera e indipendente, fiera, ambiziosa. Mi è sempre piaciuto stare con i maschi e sentirmi come loro. Non sopporto quelle donnette che si abbaiano l’un l’altra contendendosi la loro attenzione. Ma solidarizzo con le donne. Non mi ci ritrovo mai completamente. Neanche con i maschi se è per questo. Non sono lesbica però, se lo pensate. Niente in contrario, nessun problema. Ma non lo sono. Confesso mi piacciono gli uomini. Anzi, diciamola tutta: me ne è sempre piaciuto uno solo per il quale sono la più cara amica. Non ricordo più neanche da quando mi piace. Considerate che abbiamo fatto tutte le scuole insieme dalle elementari. E fate i vostri conti. Ricordo ancora quando la prima volta andai a casa sua ad un festicciola di compleanno. Avevo nove anni e mi ricordo ancora come mia madre mi aveva fatto vestire. Avevo le scarpe della prima comunione ma tinte di nero perché bianche mi rifiutavo di portarle. Mi ricordo che mi ero bevuta con gli occhi la sua casa e la sua stanza con il poster delle costellazioni, che dopo venti anni è ancora lì. Sono ancora lì anche io. Ma non voglio pensarci sempre e la mia vita è andata avanti comunque. Con o senza di lui. Perché tanto lo so ormai, quello che pensa di me. Ed è inutile tornarci sopra. Del resto poi la sua donna lui ora ce l’ha. Dopo anni di sfarfallamenti pare che abbia trovato colei che lo ha stregato. È riuscita a fare in un minuto quello che io ho fallito per una vita intera. Non vuole che si rida quando racconta della vacanza che ha fatto di recente con la sua famiglia e lei…i di leisuoceri, la nuora e tutto il resto.... Lascia che rida caro Hans, almeno questo… ho visto la mia fine sul tuo viso[1] quando mi hai parlato di lei, quando vi ho visti insieme…lascia che rida…
Io sono Oscar e sono una donna. Il perché di questo nome bizzarro chiedetelo a mio padre che lo ha ripescato da non so dove. Aveva deciso che suonava bene anche per una femmina e visto che mia madre aveva già scelto i nomi delle mie sorelle lui si è riservato il capriccio. Per ripicca. Non so.
Ho ventinove anni, vivo a Parigi e sono francese. Mi sono girate le palle che la Francia ha da poco perso il Mondiale di calcio, ma a differenza dei miei connazionali riconosco la sconfitta e condanno le scorrettezze in campo senza riserve.
Amo lo sport.
I miei avrebbero voluto che proseguissi con la scherma o l’equitazione fino a diventare una professionista. Ho preferito studiare, ma non ho mai perso una gara. C’erano pomeriggi però, anche al liceo, in cui preferivo andare a sfidare i ragazzi a calcio o a basket nel campo della scuola- e vincevo sempre io - o a sbucciarmi le ginocchia sullo skate, tanto a parte quella blu della prima comunione, non ho più indossato una gonna. Ora la mia vita scorre lenta e certe volte mi chiedo che cosa ho davvero fatto e cosa davvero voglio. Bramare un bacio e almeno una notte con Hans sono cose talmente scontate che mi riservo di non considerarle, tanto lo so che basta scostare quel poco di cenere per far divampare di nuovo la fiamma. È che io devo vivere.
Me lo ripeto spesso.
È per vivere che non ho voluto studiare con lui legge all’università, con tutto che mio padre caldeggiava. Laurea in storia orientale e la scuola di giornalismo, con il sogno di fare la cronista di guerra, per raccontare come vanno davvero le cose. Ma nessuno mi prende davvero sul serio, e la storia la studio ancora sui libri dentro il dipartimento dell’università. Tutti mi vedono lanciata verso una sfolgorante carriera accademica, sulle orme di mio padre. Invece dovrei prendere su di mia iniziativa e buttarmi come free lance, oppure partire con una ONG o la croce Rossa e volare in Libano o ad Haifa, o in Cecenia o in regioni sperdute della Cina. Rimango qui, nella bella Parigi, con un disco nuovo in mano, un vino nella borsa per andare a una di quelle cene, dove ognuno se la racconta e gli altri aspettano il loro turno per potersela contare pure loro. Tutti si gloriano di avere avuto l’inferno di fronte e di esserne usciti. Tutti hanno fatto i corrispondenti di guerra e hanno scritto su grandi testate. Tutti, compreso mio padre, tranne me. C’è un tale Orleans che ogni volta racconta di quella volta in Vietnam, un altro dell’Iraq, un'altra ancora dei miliziani serbi in Bosnia… Se mi chiedono cosa mi inventerò? Potrei dire di quella volta che ho preso la Bastiglia, chissà…
Alla cena ci sono tutti i giornalisti guasconi della cricca di mio padre. In parata. Bouillè e signora i padroni di casa. Lui siederà a capotavola e declamerà ogni nuova bottiglia di vino delle sue terre in Borgogna. Ogni vino delle sue terre ha il nome di un personaggio della Rivoluzione. Alla sua destra siederanno mio padre e mia madre. Alla sinistra il signor Girodel, sempre più impomatato, poi forse i signori Fersen, genitori del giovane di cui sopra – non giornalisti ma diplomatici svedesi -  e Chatelet Bernard assistente del padrone di casa, nonché nipote della moglie di lui.
Saremo tutti e cosa c’entro io in questa parata che sembra la cena che precede il delitto di un giallo di Agatha Christie? Non sono Poirot e neanche miss Marple, ma forse la vittima, penso a volte. Semplice: il caro signor Bouillè, ora potente editore, sembra intenzionato a pubblicare una nuova collana di saggi di storia scritti da giovani studiosi. Ecco che ci sono dentro fino al collo. Forse a questa cena ci saranno altri autori di saggi da pubblicare.
Bah. Io non ho voglia mezza di andare. Mia madre ha sempre detto che a me la tigna mi volta[2]. E infatti sono convinta di non avere bisogno del loro aiuto per pubblicare il mio lavoro. E in questo modo di fronte a mamma e papà e suoceri mancati, tutti ad applaudire e dire e ridire, fare e disfare su cose che non conoscono. Da una vita così. Solo perché Bouillè è stato per anni l’editore di mio padre che adesso lo deve essere anche per me, come fosse scontato!
Tutto troppo scontato qui. E anche se all’Università mi fanno incazzare quando dicono che sono una raccomandata anche se non è vero, però in fondo posso capire che dall’esterno può sembrare. Dovrei farcela da sola, trovarmi la mia strada. Qui sembra già tutto fatto. Non dovrei vantarmi tanto di essere indipendente. La mia ribellione è solo una fuga a volte, o forse lo è sempre stata. Boh…
Alla cena ci sono proprio tutti. Tutti quelli nominati più altri giovani come me… mi guardano in cagnesco, soprattutto una mora con gli occhi di brace e un altro omaccione che sta in disparte. Non sembra un topo da università, quanto un cantante rock. Niente cravatta, camicia aperta di un colore improbabile, jeans sdruciti sotto la giacca, basettoni e, ciliegina sulla torta, bandana rosso al collo. Il tipo che parla con lui ha un’aria fine: gli occhiali con montantura rettangolare scura e un po’ spessa gli danno l’aria da giovane intellettuale. Dovrebbe avere gli occhi chiari. Capelli lunghi sì ma legati bene. Sembra un po’ a disagio mentre parla con il tipone, un po’ impacciato nel completo grigio con cravatta, nera e sottile. Chi sarà?
I giovani mi guardano come un marziano quando il padrone di casa in persona mi viene incontro e mi abbraccia paterno. Avrebbe potuto essere più discreto, sono sicura che agli altri invece sudavano le mani quando si sono presentati e invece lui, chiamandomi bambina mi parla di questo e quello. A volte sì vorrei sprofondare. A volte davvero dovrei partire per il Libano a fare la persona seria, in mezzo a cose serie.
Però non mi piace stare qui a parlare di cortesie, ma nessuno mi presenta gli altri per così dire colleghi… Bouillè è tronfio e gentile, sua moglie non la finisce con le risatine isteriche e intanto guarda mia madre e parlano degli ospiti, altra gente comincia ad arrivare.
A fine serata ho le idee chiare e posso fare un riassunto. Ho bevuto però e parecchio. Ha ragione il vecchio Bouillè, il suo Robespierre è davvero eccezionale e truffaldino…. Il mio vicino a tavola, il tipo fine col codino era più brillo di me, il suo amico Alain di fronte a noi, aveva preso la sbornia allegra e cercava invano di mantenere un’aria professionale quando invece piangeva dal ridere solo a dire A. Sono archeologi i due, e hanno studiato insieme. Alain dirige scavi preistorici in Francia, l’altro, Andrè, studia l’idraulica dei romani; pare abbia scoperto un ponte romano in Albania, andando a fare pipì nel bosco[3], così ha raccontato Alain tra le risate soffocate. A dispetto della sbornia sono tutti dei mezzi geni. Hanno fatto scoperte sensazionali nei loro campi e Bouille ci vuole pubblicare tutti nella sua nuova collana “nova studia”.
Non sopporto i titoli in latino. Sanno di sagrestia.
Sono tornata a casa di un umore strano. Ho trovato in segreteria un messaggio di Hans che mi invita a ballare per domani. Non so se ne ho voglia, se c’è anche lei? A volte preferisco sprofondare nell’autocommiserazione, ma no, questa volta non ce la faccio. Non ce la faccio quando c’è anche lei. Preferisco illudermi che ci siano speranze quando usciamo e lei non c’è. Quando sono l’unica ragazza della compagnia e allora lui mi offre da bere. Non capisco poi perché gli uomini si sentano in dovere di farlo. Non lo permetto che a lui, qualche volta.
Certe volte mi chiedo cos’abbia io di diverso da tutte quelle donnette che ogni tanto si fa[4]. Non so se è una questione di rispetto e se non sono sessuata ai suoi occhi. In ogni caso è frustrante. Non mi piace essere donna fino in fondo. Ne sento il peso ed i limiti, ma non mi piace che lui, l’unico a cui tengo, non lo veda. A volte lo odio per questo. A volte proprio per questo riesco a fingere ancora, a portare avanti con pazienza il nostro rapporto sperando che prima o poi cambierà. Che la prossima ragazza possa essere io. Quelle storie che ho avuto, sono finite esattamente nel momento in cui ho avuto la consapevolezza che quello che provavo non era che l’ombra dei miei sentimenti per Hans, che non potevo continuare a illudermi né ad illudere.
Dopo la fine dell’ultima, straziante perché lui mi amava davvero, sono andata a vivere da sola. E sto bene da sola. In casa e anche senza uomo. Tanto l’unico che voglio non mi vuole. Inutile perdere del tempo con altri. Non voglio essere il senso della vita di nessuno se lui non lo è per me. Ammesso che possa essere possibile essere il senso della vita di qualcuno e che ciò sia giusto. Sono troppo peculiare forse per riuscire a stare bene con qualcuno o che qualcuno stia bene con me. La combinazione di questi fattori poi, è assurda. Henry mi amava davvero ma io non amavo lui. Non era dentro la mia vita, nei miei passi, nel mio cuore, nei sensi. E la sua tenerezza assomigliava ad una prigione. Sono scappata spezzandogli il cuore ma ho imparato la lezione. La lezione che probabilmente c’è qualcosa in me che avvicina – o allontana, dipende- ma sempre facendo del male, sempre a danno di qualcuno. C’è qualcosa in me di insano e incompatibile con gli altri, con le persone. I rapporti con me vanno tenuti a distanza. Sono capace di ferire molto più che di essere ferita, credo. In ogni caso fa male a tutti.
 
 
Oggi non ho voglia di scrivere. Devo preparare un articolo per un convegno. Zero voglia. Zero impegno. Il dipartimento è vuoto e anche io ho voglia di uscire. Potrei anche accettare di uscire con Hans. So già la serata. Indosserò il mio sorriso migliore e sarò in smania dalle otto. Poi ritrovo a casa sua, pizza, film, grappino per incominciare l’allegria e tutti in pista. Quando torneremo, alle cinque passate, avrò bevuto più del dovuto e avrò riso davvero tanto. Ma mi sentirò triste dentro. Perché ancora una volta sarò delusa. Ma mi divertirò, mi illuderò, mi svagherò. Telefono alla mano confermo la mia presenza. Con o senza di lei, se ci sarà.
Invece lei stasera non c’è! È all’estero per un po’. E lui ha l’aria di un cane bastonato. Caro mio, non mi fai pena. Io ho più dignità nel soffrire. Ci sono talmente abituata che mi sento più viva quando soffro per te e mi godo ogni momento del nostro stare insieme. Anche se non mi guardi e fai apprezzamenti sulle altre. Allora io fingo di ridere, tu fai finta di scusarti per avere detto che stasera è pieno di gnocca – come se mi avessi offesa, perché?- e io ridendo, splendida, ti dico che mi ci conto anche io. Al che ridi anche tu. Faccio proprio ridere. Ma stasera non è così e hai la sbornia triste. Neanche tutte le gnocche in questa discoteca ultra fighetta – come piace a te- riescono a distrarti. Forse… Si vede però che hai la testa a mille chilometri. Potrei approfittare di te o consolarti. Ma stasera io non mi sento di alleviare le tue sofferenze, perché di sicuro non farei che peggiorare le mie consolandoti. Devo forse rinfrancarti, dicendoti che lei ti pensa quanto la pensi tu? Che ti ama quanto la ami tu? Che anche lei starà piangendo sulla spalla di qualche amica? Andiamo, lo sai già. E le mie parole non farebbero differenza. Sentirle uscire dalla mia bocca, però mi farebbe male, Perché tu, poi, non potresti mai ricambiarle. Che amicizia è mai la nostra? Se io sono il tuo migliore amico, sono sicura che tu non lo sei per me. Forse sono anche falsa. Va là, Pure falsa! Tuo fratello mi viene incontro con un rhum e pera. L’amico Stephan ha abbordato due bionde vertiginose. Il tuo sguardo ha un guizzo. Guarderesti così anche me se portassi anche io una cravatta per coprirmi le chiappe?
Va! Alla salute! Rhum di qua, pera di là! Altro giro altra corsa! Offro io!
Poi, chi ti vedo? I nostri amici archeologi! L’omaccione vestito che sembra il tipo della febbre del sabato sera, l’altro che ha la faccia di un cavolo a merenda. Non si sente bene qui. Eppure le donne lo squadrano. Dignità, fanciulle dignità! Mi sto ubriacando. Stephan mi dice qualcosa… e le due bionde? Sparite? Una sì, l’altra beve con Hans…che novità… morto un papa…
Ma anche io davvero vorrei essere del tipo? Dico… cotta e mangiata, come quella bionda lì? Tra poco usciranno insieme dal locale e il resto si sa. L’ho visto milioni di volte. Voglio davvero essere anche io così? Non credo ai principi azzurri ma so che solo quello in fondo non mi basterebbe. O se mi bastasse sarebbe diverso…perché in fondo io lo so da prima cosa era lui per me… io lo so da sempre… da quando eravamo piccoli io vedevo in lui quel fascino… ero una bambina, ma io lo sentivo già. L’attrazione per te, quella cosa irresistibile che io non sapevo come chiamare ma che mi perseguita è in me da sempre e tu non eri il dongiovanni di ora. Forse è questa la differenza tra me e quella bionda là…ma forse la sfigata sono io che mi sono lasciata irretire da te e non ne sono ancora uscita.
Tant’è…Alain mi riconosce e mi saluta, Andrè timido mi stringe la mano; ieri sera era più allegro e poi non credevo che loro frequentassero certi posti tipo discoteche…pregiudizi miei…per carità…
Alain conosce pure di vista Stephan e iniziano a parlare. Andrè si guarda intorno. Ha ancora l’aria del pesce fuor d’acqua. Un pesce d’acqua fine, con gli occhi chiari. Non ho ancora capito di che colore.
Mi propone di uscire e in tre minuti sono nel giardino seduta ad un tavolo a sorseggiare qualche altro pericoloso intruglio. Sono un po’ brilla. E lui mi parla cordiale e mi fa ridere. È simpatico e cortese. Ha negli occhi qualcosa di profondo. E sono verdi, neanche molto chiari. Stasera è senza occhiali. Qualcuno lo saluta e s’intrattiene un secondo con lui. Alle sue spalle tu, Hans esci mano nella mano con la bionda, mi strizzi l’occhio. Vaffanculo e ti sorrido. Davvero ti vorrei? Perché sei così? E come potrei cambiarti? Bello, brillante, elegante, ricco, gentile, colto. Ce le hai tutte le doti e tutte le donne. E ora hai anche una che ti ama e che ami, ma non più di te stesso. Domani piangerai sulla mia spalla sentendoti in colpa per averla tradita. Non so se avrò voglia di compiangerti. Non sarebbe la prima volta che mi rifiuto di farlo - Assomiglio alla volpe con l’uva-, ma c’è poi una volta in cui cedo di nuovo. Andrè si scusa per l’interruzione e rompe i miei cattivi pensieri. Ha un che di buono lui, e di bello. Dov’è la fregatura? Sei anche tu un Hans coi capelli scuri? Ma non ti sbilanci. Mi chiedi della mia vita e mi parli della tua. Sei appassionato però, e hai un bel sorriso. Qui in giardino hanno attaccato con una bachata. Mi chiedi se so ballare. Io, ballare? Sì, so ballare. Mia madre ha voluto che imparassi “ perché andare ai corsi di ballo è così….popolare, ma saper ballare è tanto fine!” non credo che in casa mia si sia mai fatto qualcosa di poco fine.
I miei ometti mi guardano, Stephan mi fa i versi da lontano con quello sguardo blu a contrasto sulla carnagione chiara, sogghigna e confabula col compare.
Che palle.
Io ballo.
Andrè è bravo, divertente. E io sono brilla. Ma lucida, allegra. Potrei anche pungere se voglio. Quei due coglioni dei miei amici mi continuano a guadare e ridere. Cretini. Mi fanno incazzare da bestia. Se mi prendo un piccolo spazio la gente ride di me, sono così goffa? Non ho ancora imparato a non farlo. Che rabbia mi fate, siete ridicoli!
Si vede che ho fatto una faccia strana perché Andrè mi chiede se qualcosa non va. No, va tutto bene mento, ma non lo guardo negli occhi e mi sento un po’ a disagio. Allora lui non mi lascia il tempo, un altro ballo ricomincia, lui mi riprende e non mi lascia più per un tempo infinito. Mi ritrovo al tavolo in un angolo del giardino sfinita e lui arriva con non so cosa. Basta. Basta bere, questo sarà il bicchiere della staffa e lui ci ride su. Ha un’aria complice, trascinante. Effetto strano. Devo stare attenta. Beviamo ancora. E lui mi racconta che davvero ha scoperto un acquedotto romano - non un ponte- facendo pipì nel bosco. Da tempo era convinto che ci fosse qualcosa da quelle parti, ma nessuno ci credeva. In realtà quella pipì non gli scappava poi tanto, voleva solo verificare certe ipotesi. Cocciuto e sicuro, il ragazzo.
Poi succede il finimondo sento urla, botte, casino alle mie spalle. Andrè impallidisce. Mi volto e vedo Alain che, trattenuto a stento da un buttafuori grande come un gorilla, urla come un ossesso indicando uno con la faccia spaccata. Quello che le ha prese gli risponde ritrattenuto da una altro gorilla. In un angolo una ragazzina con dei gran boccoli biondi piange spaventata Andrè si scusa e accorre. Io rimango lì come un salame, non capisco niente. Sono tanto, tanto brilla. Forse ubriaca. Fanno sgomberare il giardino. Finita la serata. Son già le cinque.
 
La domenica di solito comincia con il brunch. Abitudine nordica importata da Hans prima ancora che se ne conoscesse il significato da noi. Ho sempre adorato quel momento. Un po’ storditi dalla serata brava con calma a mangiare in terrazza. Musica di sottofondo, parole vere. Uno spazio privilegiato, solo per gli amici. Dopo le sbornie, le conquiste, le notti con le sconosciute, le litigate con i morosi di turno. La quiete dopo la tempesta. Ho sempre sperato che un giorno il mio rapporto con lui potesse diventare placido e vero come quello delle domeniche passate a spiluccare. Stephan dorme ancora, suo fratello non c’è. Siamo soli, con un vecchio film in bianco e nero e il mio stomaco in subbuglio. Non so come ho fatto a guidare fino a casa ieri. Nuvole basse e aria di tempesta, anche Hans non è dell’umore giusto. Perché? È andata male con la bionda?
Ma parla, parla, parla di tutto e mi ripete cose che mi ha già detto mille volte. Non mi parla della bionda, ma di quanto gli manchi lei. Fa il triste e beve caffè, cosa si aspetta che gli dica? Io oggi non ho parole per lui, è come se le avessi finite.
Oggi sono sei mesi esatti che ho lasciato Henry, mi fa notare ad un certo punto. Ma io lo so già. Non mi rende orgogliosa il fatto, che –adesso lo dico- non me ne importava niente. Mi ricordo che gli ho detto di dimenticarmi e in fretta. Glaciale e spietata, lui piangeva. Mi si è stretto il cuore per la vergogna che ho avuto per lui. A volte so essere così tagliente, ma non era cattiveria, anche se è stata colpa mia illuderlo. È stato Hans a farmelo conoscere, ma non mi ha mai chiesto da quel giorno come mi sentissi, né perché lo avessi fatto. Non un come stai. Adesso per la prima volta ci ho pensato. Lui non mi ha mai chiesto come stai. Parla lui, sempre lui. Io lo ascolto. Per questo lo odio e mi fa rabbia, e anche perché mi fa notare che sono sei mesi. Glielo dico, che non mi ha mai chiesto come stavo. E lui mi sorprende.
Scusa, ma non è facile chiederti certe cose.
Ma io lo faccio con lui.
Ma tu… quando si tratta di te diventi rigida, io non voglio metterti a disagio. Sembra che tu non ne vuoi parlare.
È vero, è vero anche questo. Lui è la persona meno adatta…io come potrei dirti la verità, Hans? Che è te che invece amo e non mi vedi? Non mi hai mai visto e non mi vedrai? Poi sorridi e mi chiedi del tipo con cui ho ballato tutta la sera.
Ci provava di brutto, eh?
Non ci ho ballato tutta la sera e non ci ha provato, tanto meno di brutto, non ho neanche il suo numero! Non ho il suo numero. È vero…peccato…penso ma non lo dico, tanto sarebbe un’altra chimera.
Che hai, hai fatto una faccia triste, ti dispiace che non ci ha provato?
Chi?
Ma lui no? Il codino moro!
Boh no, sì, non lo so, ma anche se fosse non importa, tanto andrebbe comunque a finire male, lo so già.
Ma che dici, perché? Ti siedi sul pouf di fronte a me e ti metteresti ad ascoltarmi sul serio, come forse non hai mai fatto se non squillasse il telefono e non fosse lei dall’altra parte. Fai la voce da bietola e mi lasci da sola. Ecco perché andrebbe male…ecco perché…
Improvvisamente mi viene voglia di piangere e queste nuvole basse e l’aria elettrica non mi aiutano a sentirmi meno oppressa. Avrei fatto bene a seguire mio padre al maneggio una volta tanto. La tua telefonata è lunga e io vorrei andarmene. Potrei lavorare, dovrei lavorare. Almeno…almeno…come mi sento vuota.
Ciao Hans, ti lascio un biglietto. Non sono dell’umore giusto. Scusami vado a casa e grazie di tutto.
Saluta lei da parte mia. Ci sentiamo i prossimi giorni. O.
 
Città vuota, casa vuota, mente vuota. Bella domenica. Meno ti cerca e più ci stai a pensare, e questo tu lo chiami amore[5]. E ieri ho bevuto troppo e ci ho pure mangiato troppo sopra. Sono idiota. Amaro o citrosodina o the? Pianoforte magari. A palla, spianando i pedali. Da non sentire nulla, nemmeno il telefono. Squilla però, squilla. Chi è? Vi prego, pace, pace! Con quell’altro che fa bau bau micio micio al telefono con la tipa! Cosa volete da me? È domenica, cazzo!
Dico un pronto che sembra un ruggito e dall’altra parte una vocina da topolino fa timidamente …Oscar?
Sì, sospiro. Ah, Andrè, no non disturbi, figurati! No, che non facevo nulla…tormentavo il piano, niente di che…sì, so suonare, sai da bambini in casa mia…So ballare, so suonare…no, non sono una soubrette – una soubrette, io? Ma sei scemo?! Ti sembra?!- cosa, stasera?…stasera….stasera….stasera…. cena con i parents&sisters… ehm… sì, sono libera, liberissima. Mi mordo la lingua e… Hans? Oddio, magari era libero…sì era libero, porca trota! Mannaggia a me quando non penso prima di parlare! Mi maledico e non so come prendere tempo, in quel momento il cellulare richiama la mia attenzione: vibra pericolosamente sul tavolo e non so come afferarlo. Un presentimento come una certezza: Hans. Vorrei buttare il telefono in faccia ad Andrè, ma per fortuna è solo un sms. Non mollo la cornetta – ho ancora quelle col filo- mi allungo come un gatto e con un piede afferro il cell. Non resisto, la raggiungo a sorpresa. Stasera volo per Amsterdam alle nove. Prega per me. Arivaffanculo. Certo, Andrè a dopo… sì, no, cioè…ok, passa tu… ti spiego la strada.
Pianoforte, un libro, Something dei Beatles che mi ricorda lui, quando in gran segreto e a me sola confessò di essersi imboscato con una compagna di classe la sera prima…il problema era che non sapeva come fare perché in realtà gli piaceva la mia compagna di banco. Per la prima volta piansi da sola nella camera d’albergo durante la gita in Belgio. Sedici anni e già ridotta così. Ne sono passati tredici e ancora ridotta così. Che merda. E stasera esco pure con uno che non è male, però…però…però tanto non è lui ed è inutile che faccio finta. Quanto starai da lei? Quando torni? Che farai?
Ancora pianoforte poi doccia e telefonata per comunicare il bidone alla sacra famiglia. Del resto ci vedremo a cena mercoledì, come ogni mercoledì, e a pranzo il venerdì, come ogni venerdì, se non mi chiama mia mamma per il thè del martedì, con le sorelle, solo donne. A parlare nell’ordine di: 1) male di persone di comune conoscenza 2) figli delle sorelle 3) vestiti e shopping (inclusi ristoranti, alberghi, viaggi e beauty farm) 4) io, l’argomento più succulento dell’adunata e che sono la vergogna della famiglia, e perché vesto da maschio, e perché mi comporto da maschio,  e perché non sono sposata,  e perché non sono fidanzata, non sono pettegola, non vado a fare shopping, né in beauty farm, e non sembro avere voglia di cambiare.
Vabbè jeans e camicia questa sera andranno benissimo. Niente trucco niente gioielli, niente tacchi. Non li uso e non li possiedo. Non credo andremo a ballare e mi sembra che Andrè mi abbia parlato di una pizza, ma era arrivato il messaggio di Hans. E comunque o va bene o va bene. Ma sono sicura che voglio uscirci? Lo chiamo e mando all’aria tutto. Ho voglia di stare da sola, film e cocacola sul divano e domani sveglia presto, corsa e lavoro. Tutta settimana.
Poi tuona il campanello. Manca un’ora all’appuntamento, chi è? Hans. Hans?! Ma che vuole? Sale volando i quattro piani di scale. Arriva come un turbine e mi abbraccia.
Tu non sai.
No, non so. E non so se voglio. Gli luccicano gli occhi. Ogni volta che è così so che anche i miei luccicheranno, in privato, però. Mi guarda e tira fuori qualcosa da una tasca. Oddio. Oddio, lo so, ho capito. Per favore non parlare. Vattene, sparisci, scompari, lasciami sola. Non mi coinvolgere. Un anello. Per lei. Bellissimo, antico. Oddio! È quello famoso, quello della nonna! Mi sento svenire. Ho voglia di piangere; lui mi abbraccia, mi parla, mi dice, che ha deciso, che questo momento è arrivato, che ha capito tante cose, bla bla bla…
La bionda di ieri? domando.
Ma no! Quella? Quella niente, non è successo nulla perché comunque pensava a lei, lei, la donna della sua vita, lei, lei, lei…e io? Scoppio a piangere e lui mi abbraccia e crede che pianga di gioia. Ma no non fare così, ti prego, non piangere, mica vado via per sempre! Guarda che la porterò qua, vivremo a Parigi e poi mi farai da testimone, no? No? Sei l’amica più cara che ho, no?
Pure.
Scoppio, piango, rido, fingo? Cosa?
Vattene Hans, gli dico e glielo dico davvero. Vattene e sparisci. Non sono l’amica più cara che hai e non sarò il tuo testimone. Vattene per la tua strada e lasciami sola. Va’, per favore e fa’ come se fossi morta oggi. In un attimo lo spingo, ho il furore addosso:  fuori di casa, lui e il suo anello! Serro la porta. Scoppio a piangere qui davanti sul pavimento. Lui dall’altra parte bussa, mi chiede sorpreso che ho, cosa c’è, come sto. Gli urlo di andarsene, lo mando a cagare. Lui continua.
Per favore cosa c’è Oscar, cosa c’è! E alla fine scoppio e glielo dico, glielo urlo dall’altra parte della porta che lo amo, che ho sempre amato solo lui. Che ho sempre finto, che mai in un solo momento della mia vita gli sono stata amica. E che ho finto di esserlo aspettando di poter essere qualcosa di più. Che ho amato solo lui da tutta la vita, da quando eravamo bambini. Che è sempre stato il metro di giudizio per giudicare tutti gli altri uomini. Che non mi sono mai interessati. Perché per nessuno, per nessuno ho provato l’ombra di tutto quello che ho sempre provato per lui. Che ho sempre aspettato e sperato che lui si accorgesse di me, che un giorno potesse ricambiarmi. E che se ne vada al diavolo e si sposi, ma senza di me, perché io…io basta…
Sento il vuoto, dentro di me e fuori dalla porta.
Mi dispiace, sento balbettare dall’altra parte. Lui dice qualcosa. Non so cosa farfuglia, non lo sento. Mi chiede di aprire. Mi dice di calmarmi. Alla fine riesplodo e piangendo gli chiedo se la ama. Lei, la ama davvero? E lui risponde di sì.
Allora vattene, gli rispondo, qui non c’è più posto per te. Suona ancora, bussa. Ma io mi alzo, vado in bagno, chiudo le porte e mi ricaccio sotto la doccia. Un messaggio per Andrè, non è il caso di vedersi. Ti richiamo io più in là. Punto. Addio. Stop. Adesso ho voglia di piangere.
 
Stamattina sento che è iniziato il periodo più nero della mia vita. Mi sono alzata presto con l’idea di andare a correre. Ma sono già stanca e vorrei dormire e dimenticare. C’è stato per la verità un momento in cui svegliandomi ero ancora normale, ma poi in un momento mi sono ricordata di quello che è successo ieri ed è stato come un macigno in testa e sulla pancia. Non ho fame. E corro al lavoro. È presto: il dipartimento è grigio e buio come un ospedale di notte. Fuori piove a vento. E sembra tutto fatto su misura per la mia angoscia. Sono inadeguata e fragile. Non so se ho buttato via la mia vita, ma non ho le forze per iniziarne un’altra. Vorrei essere stata diversa. Vorrei avere avuto la forza di staccarmi da te o di affrontarti. Ti ho sempre assecondato fino a distruggermi, e invece ti ho solo amato. Sono così sbagliata. Ed è questo l’amore di cui si parla nei romanzi e nei film. Se davvero è questo l’amore allora no grazie.
Mi siedo al computer e inizio a scrivere. Ho poca concentrazione e mi attacco a internet. Non trovo tuoi messaggi. Mi scriverai qualcosa? Imploro la tua considerazione e tu ieri sera sei andato a dichiarare il tuo amore ad una donna che vuoi sposare. Dovrei essere felice per te. Ma non lo sono. Non riesco a condividere la tua gioia. Non vedi che è immediato il fatto che non ti sono amica? Avrei dovuto gioire con te. Ho pianto per te. Sii felice. Oggi sarei capace anche ti aspettarti. Non invitarmi al matrimonio. Non farlo neanche per cortesia, non cambierò idea.
Poi arrivano tutti in ufficio e si comincia il lavoro. Il professore, i dottorandi, gli studenti. Oggi è giorno di esami. Sarò implacabile. Ma almeno arriverò a sera senza pensare fino a che il dolore mi ripiomberà addosso come un altro macigno. Non controllerò la posta, cercherò di non farlo. Chiudo il computer e ascolterò questi ragazzi tesi che mi aspettano seduti dall’altra parte del tavolo, firmerò libretti. Ragazzi, mi dispiace avrò bisogno di essere dura. Voglio rispetto oggi, considerazione e prontezza perché devo assorbirne da fuori, io non ne ho più.
Ore tredici, i miei colleghi vanno a pranzo. Io vado avanti con gli esami. Non ho fame. Arriva un tale con un enorme mazzo di fiori. Per me. Incredibile. Sono orchidee. Probabilmente rare. Probabilmente care. So già da chi. Eppure mi ero concentrata finora e non ti avevo pensato nell’ultima mezzora. Hai bisogno di questo per metterti la coscienza in pace, Hans? C’è pure un biglietto. Magari stasera, eh? Da sola.
Un’altra ora. C’è chi sbuffa, chi ha paura, chi ha fame. Ho cacciato gli ultimi tre e vado avanti. Non sono stanca e non ho fame. Il gruppo avanti a me si assottiglia, forse alcuni mi hanno vista e hanno rinunciato. Non li biasimo. Per come sono io oggi non so chi passerà. Sono vigliacca, anche. Ma non potrei essere diversa, e non potrei neanche rimandare. Forza, tu ragazzo con i dreads e l’aria di chi si stromba di canne, dimmi un po’ di date precise precise…
Le tre, un altro bussare. Non vola una mosca qui dentro e arriva un altro mazzo di fiori. Ora qualcuno ride. Non è il mio compleanno e non è Natale. Queste sono rose bianche magnifiche e profumate, mai visto niente di simile. Possibile che tu Hans, mi mandi, per scusarti, due mazzi di fiori in un giorno? Continuerai tutta la giornata fino a che non ti avrò risposto? Dovrei avere già letto il tuo biglietto. Fermati ora, però. Non potrai fare di meglio:  le rose bianche sono i fiori che amo di più. Non credo di avertelo mai detto, come hai fatto? Davvero hai questo particolare di me? Quando…
Le cinque, cacciati altri tre, magari arrivo a dieci…no, sono finiti per grazia mia e loro. Esco, ho bisogno d’aria e il pomeriggio è ancora tutto qui. Prendo le mie rose e le orchidee e sparisco. Prima palestra poi piscina, solo dopo fiori e biglietti, quando sarò da sola sul mio rassicurante divano.
Non avevo notato che il biglietto con le rose non aveva la tua scrittura, chi è? Lo leggo subito.
 
Se devo aspettare la tua chiamata che almeno tu abbia il mio nuovo numero e indirizzo…
sono fiducioso adesso, forse già impaziente,
a quando vorrai dunque, ma non dimenticarmi perché io non lo farò.
A.
 
Leggo, rileggo, registro, sospiro, ammiro. Già, io non avevo i tuoi nuovi recapiti e ora ce li ho. Come hai preso tu il mio sabato sera? Me lo chiedo soltanto ora. Perdonami, non ho testa per te. Non aspettarmi troppo, però perché io non so quando potrò essere in grado di richiamarti. Non ora. Le rose, grazie, bellissime. Come ringraziarti? Ho il tuo numero, ora. Bel tranello. Ci devo cascare per forza, vero? Non ho vie di fuga. Sono depressa, ma non cafona. Sono inconsolabile, ma ricordo ancora le buone maniere. Più tardi però. Avrò, credo, prima bisogno di piangere un altro po’.
Altro biglietto, altra scrittura, nota e arcinota. Del resto bastavano le orchidee.
 
Perdonami e vivi, se puoi. Non per alleviare le colpe della mia cecità, ma perché davvero la tua vita, non merita di essere sprecata per me. Grazie per essermi stata accanto in questi anni, tra le persone che ho amato di più, forse l’unica, compreso me stesso, cui non ho mai mentito.
Hans
 
 Un’altra notte di lacrime e dopo questa un’altra. E ancora. E mi confermi la verità, l’unica cui non hai mai mentito. L’unico cui io abbia mentito. Bell’amicizia. Bel legame. Falso, tutto falso, vedi? E tu parli di verità.
 
Esco di rado, parlo ancora meno[6]. Mi rinchiudo in un silenzio denso che non so spezzare. A volte suono, a volte leggo. Più spesso penso, e finisce sempre con un mal di testa. Devo aver perso qualche chilo. Mangiare non mi piace più. Mi sento lontana dal cibo. Non c’è niente che mi fa gola. I supermercati mi sembrano pieni di formiche voraci, di iene sulle carcasse… io non voglio sentirmi così, ancora più cattiva e stupida e inadeguata. Qualche amico cerca di farmi uscire. Ma sono giorni che non rispondo alle chiamate di Stephan né a quelle di Rosalie. Passo le sere a casa sul solito divano, qualche volta ho paura quando mi accorgo che fisso il nulla per ore, o quando devo scappare in bagno perché mi viene da piangere nei luoghi e nei momenti più impensati. L’idea di averti perso è straziante. Mi guardo intorno e sei dappertutto. Sei sempre stato dappertutto. Meno che dove ti volevo, meno che a fianco a me come dicevo io. Forse è la mia disillusione che pesa di più di ogni altra cosa. La fine del mio castello di carte. La mancanza di te distrugge, ecco perché continuavo a tenerti anche se non mi volevi. Volevo rimandare questo momento fino all’inevitabile. Ho moltiplicato le mie sofferenze però. Mi sento inutile e inadeguata. Qualsiasi donna per strada mi sembra più adeguata di me. Guardo le donne come le guarderesti tu, mi chiedo se ti piacerebbero. Mi chiedo perché non ti sono piaciuta io. Mi chiedo perché ti sia piaciuta lei. Cos’ha di speciale, cosa ho io di speciale, cosa non ho, più che altro. È tutto molto triste e sono io quella che non c’entra niente con il mondo. Quella strana. È forse perché non sono mai stata in pace con il mio essere femmina che ti ha allontanato prima di avvicinarti, o che ti ha tenuto vicino a me in questi anni? Sì, è questo, questo mio essere diversa, strana, ti ha tenuto lontano e vicino. Non è colpa mia se sono così. Un po’ l’ho scelto, un po’ ci sono stata educata. Mio padre mi ha voluta mascolina. Forse si sentiva solo anche lui in quella casa di tutte donne. Aveva bisogno di qualcuno cui insegnare a giocare a calcio, da portare allo stadio, cui insegnare a tenere una spada e a curare un cavallo. Comunque sono io, sono così, mi è sempre piaciuto. Anche di fronte a te qualche volta perché riuscivo a mascherarmi meglio, per non svelarmi, perché altrimenti sapevo che mi avresti rifiutato. L’ho sempre visto da come mi abbracciavi, dalle battute. Non c’è niente che non va in una donna con la gonna, eppure a me non è mai piaciuto del tutto esserlo. E non mi piacerà mai. Vorrei poter essere lontana da me stessa e ricostruirmi. Ma non sono altro che qui.
Ora lavoro di più, lunghe giornate in dipartimento. Il mio contributo al convegno è finito. Sembra perfetto, ho iniziato un altro articolo. Correggo tesi e tesine. Cerco di tenermi occupata la mente. Ma non passa, non passa.
La mattina alle dieci arriva la bidella con la posta. Cerco di non sperare in una tua lettera, eppure ogni volta rimango delusa. Mi stai davvero rispettando o stai scappando Hans? Ti ho fatto così paura o pena? Le tue orchidee a dispetto di me sono crescono rigogliose. Io le curo, le ho chiamate Ofelia[7]. Perché spero che la facciano loro quella fine, perché ho paura a volte di farla io.
Alle dieci la posta, stavolta non la porta la solita budella – come la chiama il prof. di nascosto- ma lui, l’uomo delle rose bianche. Gli avevo risposto con un biglietto, perché la mia voce era troppo instabile quei giorni. Anche lui sembra rispettarmi e non mi ha più cercata. Oppure si è stufato, oppure…cavoli suoi. Invece stamattina è qui, con la mia posta e una busta.
È l’invito all’inaugurazione della mostra del suo dipartimento, ci saranno le foto del famoso acquedotto della pipì e Alain parlerà dei suoi mammut dipinti in una grotta non so dove. Mi fa fare la prima risata da settimane.  Mi invita ad una occasione per così dire pubblica, non ad una uscita a due, cerca di prenderla alla lontana? Ti farò del male o me ne farò io, sono capace di ferire chiunque senza pietà a cominciare da me stessa. Stai attento, bell’archeologo dei ponti romani! Non hai ancora capito come sono fatta? E cosa cerchi in me? Meglio che non vada.
E invece no, sono invece qui all’inaugurazione della mostra. Mi soffermo sulle foto degli scavi, facce sudate e schiene scorticate dal sole in mezzo a carriole piene di cocci e monete incrostate. Eppure tu non perdi quella tua aria concentrata e profonda e quel sorriso appena accennato che ti dà l’aria di una persona positiva e serena…proprio come me…
Cerchi di venirmi incontro con un prosecchino per brindare. È la tua ultima fatica e si vede che ci tieni. Sei felice, ricevi complimenti. Tutti ti stringono le mani. Vedo che vorresti venire da me ma non ti lasciano; pure Bouillè arriva e ti cattura. Guardo le foto dei mammut di Alain, in realtà di mammut ce n’è uno gli altri sono cervi, boh… ma anche lui è orgoglioso, felice. Un nugolo di studentesse ridacchiando lo indica, una temeraria lo avvicina. Le altre la squadrano con invidia. Beata lei che lo sa fare e lo fa. Senza invidia per lei, ma autocommiserazione per me. Poi invece ti avvicini, Andrè e mi parli, mi coinvolgi, mi fai ridere, racconti le cose con leggerezza, anche quelle serie e mi lasci spazio per risponderti. Mi ascolti guardandomi, forse non mi sento a disagio. Mi accogli e non mi chiedi nulla. Mi presenti le persone, mi valorizzi. Mi chiedi e ti interessi, sdrammatizzi le piccole tensioni, non mi aduli.
Sei gentile e oggi i tuoi occhi sono più chiari. Tentenni nell’invitarmi per l’aperitivo, del resto dovevo farmi viva io…ma non hai resistito confessi arrossendo e arrossisco anche io. Molli tutto e mi porti via… ma la mostra, le persone, Bouillè e il resto? Non è ancora finito l’evento! Basta un’occhiata al tuo amico e sistemi tutto. Lui sorride, mi fa un cenno e tu mi trascini via, fuori da questo posto. Fuori è spuntato il sole.
Allora sei pronta? Mi fai.
dove mi porti? Ho un tentennamento, inizia sempre così, magari mi faccio prendere dall’entusiasmo, poi finisce male. Io non sono la persona giusta, io non sono una persona giusta…non sono adatta. Penso ad un altro mentre sto con te, non è giusto per nessuno.
Dai, magari un’altra volta, richiudi la macchina e sorridi, pure. Non so come hai capito qualcosa. Mi assecondi ma non demordi. Hai il piano B in tasca, per ogni evenienza. Mi trascini via. E sono di nuovo seduta con te in un cortile di Parigi in cui non so come sono arrivata, tra palazzi magnifici e alberi e un locale a metà bizantino e turco con rame e vetro dappertutto e tazza dorate, e bicchieri cangianti, e biscotti alle mandorle, e dolci…tanti dolci…come facevi a saperlo, dei dolci?…ti parlo con la bocca piena e scoppi a ridere e rido anche io…ma…sembra un altro mondo, un'altra vita…un’altra città… non cercarmi però la mano sotto il tavolino. Per fortuna ti strozzi con un candito e ridiamo ancora e abbandoni le tue intenzioni. Non io, non ora…ti illuderei… viviamo di questo per oggi e per sempre…non mi vedi? non vedi come sono finta e triste? Assaporiamo questo momento come questi biscotti che sanno di rosa e lasciamo che vada come si disperde il loro sapore. Lo ricorderemo con piacere per quell’unica volta che lo avremo mangiato, ma tutti i giorni, lo sai, ci verrebbe a nausea.
Tramonta di già e due telefonate ci staccano l’uno dall’altra. Perché sento che è un addio? Perché tra un po’ non avrò voglia di rivederti? La gioia che oggi ho provato con te tra un istante diventerà paura e rabbia. Vai via, scompari, se puoi, tieni questo buono di me perché non c’è altro che valga la pena. E tra poco sarò terribile. Il mio sorriso si sta già staccando dalla bocca, tra poco cadrà e vedrai quello che c’è sotto. Il nulla. Addio Andrè, pago il conto e scompaio, mentre tu concentrato al telefono non mi puoi vedere, grazie, davvero grazie. Di questo angolo di paradiso di mandorle e rosa, della dolcezza. Forse è meglio che io parta per un po’. Tranquillo, lo faccio anche per te.
 
 
Parto.
Andiamo!
dove?
Dove si sfoga la malinconia, dove si annegano i dispiaceri? L’ironia della sorte vorrebbe Amsterdam. Ho poco da ridere di me stessa e molto da piangere.
Andrè mi ha cercato ma io non più risposto. L’ho lasciato lì da solo al telefono, scappando come una ladra. Gli manderei un biglietto, se lui non mi avesse scritto una mail. Anche questa ha trovato. Ma chi è, Sherlock Holmes?
 
Se ho ritrovato un acquedotto dopo duemila anni,
ritroverò anche te.
Ma non prenderla come una minaccia,
 piuttosto considerala una promessa,
 o una meta, se preferisci,
 o una scommessa
per quando starai meglio.
quello che ti turba passerà,
ilrestono.
A.
 
Girare la toppa della chiave di casa mia e rientrare dopo dieci mesi. C’è un odore irreale e familiare. Tiro su le tapparelle. E la luce inonda un posto che ritrovo nuovo e antico. Forse ci sono cose che potrei cambiare e cose da rimodernare. Per i primi tempi meglio darsi uno scopo. E ricostruire il nido dopo aver volato lontano. Sul tavolo del salone un vaso con dei residui di foglie. È Ofelia. Era Ofelia. Appoggio la valigia e la borsa pesanti. Mi guardo intorno. Sul tavolino accanto al divano una bottiglia di cocacola mai chiusa. È rimasto un fondo nero, appiccicoso. Sono partita di fretta, al volo per l’Australia, per il posto più lontano della Terra senza salutare nessuno. Padri tuonanti, madri piangenti, sorelle pedanti sono spariti dietro la scia dell’aereo. Sono stralunata e nuova. Ma il dolore che ho dentro è ancora qui. Diverso, ma ancora qui. Non basta cambiare continente per liberarti delle angosce, se ce le hai cucite addosso. Ho continuato per mesi senza pace. Di fronte ad un oceano nuovo e sconosciuto, sentendomi simile a canguri e koala, creature bizzarre cresciute in un ambiente lontano. Simili a nessuna creatura sulla terra, e tanto fragili. Non ammetto che a me stessa che questo viaggio non è stato più utile che se fossi rimasta a casa. Ma almeno i nomi, le cose, i paesaggi, erano diversi e per un po’ mi ha tenuto su la meraviglia. Poi è andata così, maturando nella consapevolezza che il mio amore per te, Hans, non morirà mai, ma che per fortuna esistono altre vite possibili se uno ha voglia di cercarle. Non sono diversa, non soffro meno, non ti ricordo con meno rimpianto. Ma forse sono un pelo più saggia e più vecchia e se anche non accetterò mai me stessa e te per non avermi accettata, allora… beh, posso portare la mia vita in un altro luogo, a fare altre cose con altre persone. Pur desiderando di farlo con te.
E io mi butto nella casa con furia iconoclasta, buttando tutti i ricordi in una scatola da seppellire in cantina. Riordinando le cose a mio modo, con le cose che ho preso. Con la tavola da surf in salotto, e il bastone della pioggia sopra il caminetto. Non diversa dalle adolescenti che saturano i muri di poster dei loro idoli per identificarsi e non sentirsi nulle. Riarredo la casa, la trasformo, genitori e sorelle inorriditi, nipoti, soprattutto adolescenti entusiasti. Speravano nel miracolo, in Australia. Macchè miracolo! Non ho fatto nulla che voi avreste fatto e ho fatto tutto quello che avreste biasimato. Ho cambiato la mia consapevolezza del mondo, poco quella di me stessa. Mi sento ancora più piccola e relativa nell’universo. E ancora meno capisco voi, con il vostro carico di pregiudizi per le persone, e la vostra scarsa fiducia nel mondo. La cosa che ci accomuna in questo è che io le riserve ce le ho su me stessa, e non sugli altri. Mentre voi ce le avete su tutti tranne che su voi stessi.
Neanche se fossi diventata una sciamana aborigena ti avrei dimenticato Hans, neanche nutrendomi di larve e varani.
Va là! Organizziamo ‘sta festa di inaugurazione di casa nuova, rinnovata. Apriamo la terrazza, addobbiamo con piante, ma non orchidee per carità! Preferirei piante carnivore!
 
 
Parco del Lussemburgo domenica mattina presto. Giornata limpida e lucida. Non devo perdere la regolarità degli allenamenti australiani. Mi sforzo e vado, anche se è presto. Ma del resto ieri sera non ho fatto tardi. Non ho notti brave da raccontare e oggi pomeriggio andrò a cavallo. E domani in dipartimento. Si ricomincia, e spero che la carica dell’esotico non mi abbandoni, perché mi aspettano thè il martedì e cene il mercoledì e pranzi il venerdì. E altri convegni e pubblicazioni e ricerche e tesisti. Non diventerò mai, credo, una giornalista di guerra.
L’aria frizzante della mattina mi sferza il viso. Sono quasi sola a parte qualcuno che è entrato ora alle mie spalle. La musica del mio Ipod mi manda la mia canzone preferita di tutti i tempi, la canticchio sotto voce. Il tizio appena entrato alle mie spalle accelera. Sento i suoi passi più veloci dei miei… sono così lenta? No, non credo proprio! non mi faccio doppiare così! Accelero, ma non voglio perdere il passo o dare l’idea di scappare: mantengo un’andatura sostenuta ma tecnica. invece sento che il tipo alle spalle accelera ancora. Dovrò ingranare la quinta, sta bene! Farò un giro di corsa veloce e poi gli esercizi, se le cose stanno così. Aumento ancora il ritmo. Sento i passi sul selciato, mi sta superando, ora è a fianco a me, non voglio dargli la soddisfazione di guardarlo. Ma invece mi sento gli occhi addosso. Andrè! Mi fermo.
Visto che ti ho ritrovata? Oddio, mi fermo trafelata. Anche a lui non basta il fiato. Appoggio le mani sulle ginocchia. È di nuovo di fronte a me e non sembra offeso, ma felice.
Sono giorni che usciamo insieme e sto bene. Cerco di comparare il mio stare con lui con gli altri ragazzi con cui stavo prima, ma mi sembra tutto stranamente naturale. Non so chi mi sento, ma non mi viene da pensarci. Passiamo ora a cavallo senza parlare. Mi guarda e sorride. Poi scendiamo, mi abbraccia. È strano, non ho bisogno di chiedermi chi sono e cosa sono, e cosa dovrei dirgli per potergli piacere… Io sono. E lui non mi chiede nulla, né dell’Australia né del perché. Ha solo considerato: “eri sciupata quando ti ho visto l’ultima volta…sei più bella adesso” e sorride. Gli ho proposto di tornare in quel caffè orientale. Ma lui nicchia, ha uno sguardo triste, poi ammette che quel posto gli ricorda della mancanza che ha avuto di me e non vuole tornarci. Povero, lo capisco. Gli chiedo invece  dove voleva portarmi prima di andare in quel caffè, ma non lo dice, sorride e fa il misterioso. Io penso che non doveva essere lontano visto lo stato della sua macchina.
Ma che ne sai che non avessimo un elicottero ad aspettarci! E non me lo dice dove, non me lo dice! Sono curiosa, ma non lo imploro. Lui non ci casca, poi si gira e glielo vedo scritto in faccia che vorrebbe baciarmi.
Forse un giorno te lo dirò, ma se sarai brava… mi arrabbio per gioco, lo pizzico. Lui mi ferma le mani ma non mi bacia ancora e quando mi guarda così sa essere convincente, non autoritario, ma di sicuro persuasivo.
Non mi sembra di sbagliare con lui. E neppure le altre volte mi sembrava. Sono un’incosciente se l’aria oggi mi pare così leggera e io non riesco a preoccuparmi di me stessa?
A volte mi dimentico di Hans. Solo quando torno a casa e trovo la foto –l’unica rimasta- di noi due bambini  in spiaggia allora mi ricordo di te.
Salvo reincontrarsi  non sapere cosa dirti. A parte il fatto che forse non è un caso che sei qui, nel bar dell’università, dove sai di trovarmi. Aspetti me? Ti guardo da una distanza dalla quale non posso non salutarti ma posso però guardarti bene senza essere già troppo insistente. Tanto tempo è passato e tu sei uguale. Lo sono anche io? Forse parlarti- oramai inevitabile- me lo chiarirà. Ho voluto provare a dimenticarti. So di non esserci riuscita. Quale molla dovrà scattare in me? Eppure è passato del tempo, eppure ho cambiato vita. Eppure ho levato le tue foto. Mi saluti con la mano. Sei gentile, ma formale e trattenuto. Ti faccio paura? Mi tratti come un oggetto fragile. Se fossi stata fragile non avrei passato la mia vita a soffrire per te stando al tuo fianco. O forse è fragilità questa. Mi parli del tempo, mi chiedi del lavoro, quando mai? E poi noto che non hai la fede al dito. Forse oggi, forse la porti al collo. Ma tu hai già intercettato il mio sguardo e sospiri abbassando i tuoi occhi. Hanno una luce quasi viola, ora, e affranta. Lei era già sposata, Oscar. Non c’è stato nessun matrimonio... poi sembra che ti giustifichi: ci tenevo che tu lo sapessi. Perché mi chiedo io? Il tuo sguardo mi dice che sei triste ma le cose importanti nella sostanza non sono cambiate. Siete insieme comunque? E perché sei qui? Perché ci tieni a dirmelo? Non me lo dici ma sospiri. Ora posso dirti di non averti mai visto così. Ora capisco la tua pena e la vivo con te perché è anche la mia.
Ti alzi in piedi e non finisci il caffè. Scusa Oscar, ora devo andare. Mi ha fatto piacere rivederti.
Ancora una volta non mi hai chiesto come stavo, eppure stavolta ti capisco di più. E capisco che avevi voglia di vedermi, perché mi sa che non ne hai parlato davvero con qualcuno. Ti manco un po’. Ma non per quello che vorrei. Mi dai l’ennesima conferma dello scarto tra noi con la tua sofferenza. Mi alzo anche io. E inaspettatamente ti abbraccio. Mi dispiace, Hans. Mi dispiace davvero tanto. E anche se muoio nel dirtelo stavolta sono sincera. Tu hai già capito tutto. Grazie Oscar, tu sei sempre leale con me.
 
Ricominciare a frequentarsi. È diverso e uguale. Come tornare a casa dopo dieci mesi di fuga. Scoprirne ora tutto il peso, mentre entro in casa tua, mentre beviamo l’ennesima aranciata in terrazza la domenica mattina, con lo sguardo assonnato e gli occhi malinconici. Sei cambiato. Più maturo, ma più instabile e fragile anche. Il tuo smalto sembra sbeccato. Cosa rimane di te? Tutto, io ti ritrovo e ti vivo più intensamente. Forse ti apprezzo di più ora, che soffri davvero. Che non puoi vivere più solo di te stesso perché non ti basti. E si vede che ogni momento è consacrato a lei lontana, stretta tra le braccia di un altro e le sue bugie. Non la giudichi, non la condanni. La ami. Siamo più vicini di quanto non lo siamo mai stati. E questo tu lo avverti. Forse mi capisci. Ma c’è anche la distanza, e io la sento perché bisogna fingere che certe parole dalla mia bocca non siano mai uscite. Se siamo vicini nei sentimenti, certe convenzioni ci separano. Io non ho più fretta di aspettarti e non mi faccio illusioni. Stare vicino a te non è servito, e neanche starti lontana. Ora cosa mi resta da fare? Una telefonata interrompe i miei pensieri. La loro sequenza mi è così nota che potrei recitarli come una poesia. Sono densi, lunghi e pesanti. Ma c’è Andrè dall’altra parte che mi reclama e io gli dico di sì, non so se lo sto assecondando. Non so se è stanchezza o naturalezza. Ma non assomiglia a nessuno. Quello che mi affascina di lui è che ha sempre in serbo quella frase che non ti aspetti. Ironica, non convenzionale, diretta a squarciare convinzioni e punti di vista. Come un capovolgimento. È così diverso da me. La sua imprevedibilità si gioca nell’ordinario, il suo straordinario nelle piccole cose. Nelle risposte alle domande di tutti i giorni, nel decidere il modo di disporre un oggetto, nella musica che ascolta. Io vado ancora avanti con lui. Ha una pazienza certosina e mi aspetta. Non so se ha preparato per me un varco. Né se ad un certo punto si stancherà di me. Ma lui si mette al mio fianco con un libro in mano, oppure si siede al mio tavolo con le sue cartine, studia con me, si concentra, scrive. Poi alza gli occhi, mi guarda sornione, si leva gli occhiali e, con perfetta nonchalance, spara il pettegolezzo più scabroso e indecente del dipartimento,
Stasera uscirò con lui, non ci sarò alla tua cena al golf. Mi dispiace Hans. Non so se mi dispiace, non so se sono talmente assuefatta da non sentire più il dispiacere. Quella faccia intristita che fai è il broncio di un bambino viziato, oppure è autentico dispiacere? Perché ti senti così solo senza di me?
C’è qualcosa che vuoi dirmi?
Ci vediamo solo la domenica mi rimproveri. E sono passate dall’ultima più di tre settimane. Non ti chiedi il perché? Penso io. Il toast sulle mie mani si è raffreddato eppure io continuo a sbocconcellarlo. È una cosa che tu non sopporti, ma a me piace.
Come potrebbe ricominciare la vita come prima dopo quello che è successo?
Sei pur sempre perso dietro ad un’altra. Ma oggi, in questa nuova domenica di aprile, incerta tra pioggia e sereno tu sembri essere quello di prima. Ridi, fai ridere, mi lanci sguardi di intesa mentre Stephan ci parla del suo ultimo libro immaginario; un po’ lo prendi in giro, un po’ mi coinvolgi, alludi a me, cerchi il mio sostegno e la mia risata. Mi hai abbracciato con tanta foga oggi nel vedermi, eri felice. Cosa è successo in così poco tempo? Invece mi chiedi di questo Andrè appena siamo soli. Potrei non avere voglia di parlartene, perché non saprei cosa dirti. Non ti dirò nulla. Devo confessare a te che stavolta…stavolta…c’è qualcosa in più? Devo confessarlo a te se non l’ho detto nemmeno a me stessa? L’altro giorno siamo usciti insieme dal dipartimento. L’ho accompagnato fino alla macchina. Gli ho chiesto di nuovo di quel posto cui in avrebbe voluto portarmi. È diventato una specie di tormentone fra noi, lui svicola…non molla. Gli ho fatto notare che è un bella testa dura. E poi ho aggiunto che lo è anche con me, che mi aspetta e pazienta,  nonostante in tre mesi tra noi non sia ancora successo nulla. E io tutt’ora a volte lo evito, lo pungolo con battute acide, talvolta mi nego e scappo. E lui è ancora lì. Sono peggio del tuo ponte, gli ho detto, ci sono voluti duemila anni. Ma ora è il mio splendore ha replicato, sventolandomi la sua tesi pubblicata di fresco…devo essere arrossita tantissimo perché lui prima è scoppiato a ridere e poi , si avvicinato e mi ha baciata, lì sul marciapiedi, con i libri in mano…visto che non si sarebbe potuto aggiungere altro rossore alle mie guance… mi ha sussurrato sulle labbra, ma era cambiato di colore anche lui. Ha lasciato cadere i libri e mi ha abbracciata stretta. Sei importante, sei preziosa Oscar…e avevo i brividi mentre me lo sussurrava accarezzandomi la nuca. Mi ha lasciata così interdetta e avrei voluto dirgli che non doveva, come osava, baciarmi e dirmi così e che…poi invece di salire in macchina ha richiuso lo sportello ed è tornato da me… e mi ha promesso che mi porterà lì, in quel posto misterioso. È stasera il gran giorno, stasera alle sei sotto casa mia. Passerà con quel suo catorcio color piscina a portarmi chissà dove. Sono curiosa…
Ma Hans non mi lancia scampo oggi pomeriggio. Mi incalza, mi insegue, mi fa ridere, mi coinvolge, mi cerca. Si siede vicino a me sul divano, scomposto con la mano sullo schienale protesa verso di me mi parla ed è bellissimo. Cosa vuoi da me, oggi? cosa è cambiato in questa stanza sempre uguale? È ancora nella tua stanza il poster con le costellazioni? Mi guardi d’un tratto e mi fissi serio. Ora so che stai per colpire perché hai gli occhi bassi e non mi reggi lo sguardo. Non so quanto riuscirò a tenerlo su, io. Ora che mi prendi la mano e mi chiedi come sto. Sei timoroso e forse sincero e mi sento il tuo sguardo addosso. Vorrei piangere, scappare. Non si parla di questo così. Non è conversazione da domenica in terrazza, perché è la mia vita. Tutta la mia vita e ho già sbagliato a permetterti di varcare il confine del non detto. Ma tu continui e io nicchio. Piango piuttosto. Come dirti tutto? Come se ne può parlare, perché è questo che vuoi sapere, vero? Mi tieni per un polso. Fai bene. Io sto già scappando e ti dico di no…che non voglio parlarne. Mi chiedi per favore di spiegarti, che hai bisogno di capire, per favore, con calma. Cosa c’è che non è chiaro, Hans? Devo ripercorrere tutto il mio dolore per dirti una cosa che già sai? Che avevo le scarpe della prima comunione quando sono diventata consapevole che c’era qualcosa in me di fortissimo e trascinante quando pensavo a te? No, non è necessario e ora che scuoto la testa tu lo capisci. Mi ritrovo che mi abbracci e scoppio a piangere a dirotto. È imbarazzante e troppo, troppo…mi ritraggo e faccio per andare, mi alzo. Scomparirò ancora, stavolta per sempre. Faccio così pena che mi guardi con quel viso senza espressione? E invece no, mi riprendi, mi riabbracci, mi baci, oddio, mi baci, mi baci…le tue labbra sulle mie, le tue, le tue! Quando mi stacco da te un brivido mi percorre la schiena e mi sembra come se si fosse dispersa la marea. Mi chiedi di rimanere con te. Mi chiedi di stare con te, mi dici di avere voglia di stare con me, oggi e...non ti lascio continuare….non dire cose troppo grandi, non dire cose che potresti aver bisogno di rimangiare. Ti bacio ancora… e voglio sentirti bene, perché ho sognato di assaggiarti da un tempo infinito e ora non mi pare vero. Mi stringi e mi cerchi. Cerchi di riportare la marea alta. Eppure… ti bacio e mi stendo sopra di se su questo divano che ha assistito alle nostre mille parole e ora vede i nostri baci…poi mi abbracci e mi copri i capelli con la bocca. Il pomeriggio si inoltra e io mi sento lontana. È questa la realizzazione di un sogno? Perché il brivido rimane in superficie? Ti ho inseguito per anni e ora, ottenuto, vorrei scappare. È questo il prezzo dei miei sogni? Questo inseguivo… Eppure mi tenti, eppure non mi convinci. Non sono di slancio tra le tue braccia pronta a seguirti ovunque. Forse in me c’è una componente di romanticismo che non conosco. O non voglio ammettere. Mi chiedi di rimanere ma io mi alzo e non so a cosa penso, né cosa cerco. Ma qualcosa cerco e mi guardo intorno e cerco,  guardo. E tu non capisci i miei sguardi ansiosi, che ore sono? esplodo. Le cinque mi fai. C’entra , è una domanda pertinente a dispetto della tua faccia ora. È una domanda pertinente alla mia vita. E sono io a pensarlo. Io, che tu, dopo anni di attesa hai appena baciato e mi dici che mi vuoi. Mi chiedi di rimanere ancora una volta. Le implori le donne? Sei così disperato da chiedere? Credevo fossi un uomo che non deve chiedere mai, che non vuole chiedere mai. Ma neanche questo è il punto. Mi riabbracci e io invece, altro che, ci ricasco e mi lascio baciare ancora. Perché mi piaci e ti ho voluto e ti prendo ora. E… mi dici che mi vuoi, che hai pensato a me, che quello che ti ho detto ti ha sconvolto, che ti sono mancata. E mi baci, mi tieni, sento che vorresti anche spogliarmi e io so che te lo lascerei fare se invece non mi sussurrassi che è meglio dopo, più tardi, che hai qualcosa per me ma non qui, non adesso. Vuoi stare con me per un po’, mi proponi in un sussurro qualche giorno da soli in campagna da te... partire subito. Hai paura che io sparisca ancora. Hai preparato ma non tutto, per scaramanzia. Vuoi mostrarmi chissà cosa e sono già le cinque e mezza e vorresti baciarmi ancora e lo vorrei anche io, ma se vogliamo essere là, dobbiamo andare, perché…perché non lo so perché ma capisco ora che ore sono. E realizzo. Andrè. Le sei anche lui, da me. Quel posto misterioso. La sua macchina roboante color piscina. Il suo sorriso tranquillo, le sue mani che gesticolano e io che rido. Farò in tempo? Mi sorprendo a pensare. Lo penso. D’un tratto come la marea –eccola, quella vera- sale l’ansia. L’ansia di non farcela. Ad arrivare in tempo. Da lui. Da Andrè. Oddio io non decido, faccio. Eseguo. Qualcosa dentro me dispone e dirige. E tu, Hans sei improvvisamente in secondo piano, sbiadito, sfuocato, marginale. Come sei finito così? Quando è avvenuto? Mi ricompongo. La camicia, i bottoni, in ordine i capelli. E tu mi guardi come fossi pazza. Devo andare, annuncio e tu mi guardi. No, non sono pazza. Ma devo andare. Io lo so. La vita è adesso, e io devo andare. Ma non con te. Ho un appuntamento. Con Andrè. Lo dico subito e mi levo il pensiero. Con lui. Alle sei, da me, mi aspetta. Dove mi porterà non lo so. Non è importante, qualsiasi posto sia. Un tramonto, una biblioteca, la casa di sua nonna. Non è importante. Importa che lui ci sia. Che io ci sia. Che devo andare. Hans, mio Dio, Hans. Ti guardo anche io e mi sento pazza, ma lucida. Devo andare. Non è uno sbaglio. Addio Hans. Questi anni sono volati e quella bambina con le ballerine nere è ora una donna che non sa cosa farà ma sa con chi lo farà. Ma non sei tu, non sei più tu. Anche se con lui non ho niente in mano, anche se lo conosco da così poco. Ma ora quella marea che mi portava e riportava a te è scesa, e tu sei una luna lontana. La tua fase è passata. Io ho aspettato tanto. E ho dovuto vivere, ho sofferto, ma non ho mollato la mia vita, l’ho tenuta nel dolore, ho tenuto anche te fino a che non ti sei consumato tra le mie dita e ora non ci sei più. No, Hans, non vengo, non posso. E tu capisci, capisci al volo. Noi non abbiamo mai avuto bisogno di parole, e ora non ce ne sono più per noi. Addio, ciao, arrivederci, perdonami, non ti saluto e mi precipito per le scale. Oddio, le sei meno dieci! Corro per le scale di casa tua. Esco sbattendo la porta, mi precipito in macchina. Arriverò, arriverò puntuale per le sei Andrè, e andremo dove vorrai.


[1] Lucio Battisti, Mi ritorni in mente.
[2] Lo ha sempre detto di me la mia. Vuol dire avere una determinazione ed una caparbietà fuori dalla norma.
[3] Questa cosa è successa davvero, qualche anno fa, durante uno scavo universitario.
[4] Parafrasando  Ti voglio bene di Vasco Rossi.
[5] Antonello Venditti, Buona Domenica.
[6] Era il titolo di album di Celentano di qualche anno fa.
[7] Era il nome del mio bonsai…
   
 
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