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Autore: SuperTeleGattone    24/02/2012    1 recensioni
Minato, il palazzo dell’Hokage e la notte. Minato, il vento che soffia e voci lontane, a chiamare. Minato, le strade di Konoha e, quindi, un gatto. Minato, i cedri davanti a casa e, lassù, la luna. Minato, Kushina e, fra poco, anche Naruto. Minato Hokage e Minato Namikaze. Tanto a cui pensare e tanto da abbracciare e, su tutto, il tempo; ed è già tempo, tempo di salutare. Buonanotte, buonanotte…
[And it’s time, that you love, and it’s time, time, time, “Time”, Tom Waits.]
Konoha, nove ottobre, notte.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Minato Namikaze | Coppie: Minato/Kushina
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Prima dell'inizio
Capitoli:
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Angolo dell’autrice:

___Coff, coff, ohilà! Tanto piacere, sono, beh, la tizia che scrive, ecco. Scusate l’intromissione, solo mi pareva ci stessero bene un poco di anticamera e convenevoli vari. Ehm, piacere ancora, quindi. Fatto. Direi che è andata, alé! Ah, no, momento, momento! Questo non è il mio bicchiere di Batman! Scusate, una parentesi sola per meglio gestire quest’aggeggio, prima di confermarmi una cretina.
___All’avvio, tutto quanto avrebbe dovuto esaurirsi con un sol colpo (uno one-shot, difatti), e così l’ho appunto steso, come un unico corpo organico. Tuttavia, complice la mia congenita ridondanza in qualunque cosa (qualunque!), dalla zucca al foglio, il filo s’è dilatato come una fisarmonica; motivo per cui ho dovuto piegarlo a metà. Per necessità d’ordine umano e pratico. E perché inserirlo così, tutto in una botta, avrebbe fatto saltar in aria il sito e le vostre teste, temo. È che son pedante, bimbi miei, e volevo giusto precisare come, in linea teorica, preferirebbe esser letto, non dico tutto d’un boccone, sia mai; secondo una suggestione continua, possibilmente. Se ci si riesce, eh. Ciò nonostante, credo anche questa distribuzione in due tempi non ne intacchi… l’integrità (?). Nel senso: se è brutto e aggrovigliato, non è certo colpa della divisione (volesse Iddio, sigh!).
___Ah, una dritta: occhio all’inizio, perché di un’astrusità (delirio) senza pari, per cui stuferà (devasterà) sicuramente; ma dopo diventa più scorrevole, davvero. Beh, me lo auguro. Comunque sia, chiedo umilmente perdono: sono rognosa, sì, ma in buona fede.
___Benone, ho concluso, evviva evviva! Per le note più altre precisazioni varie: sta tutto giù a fine capitolo, carissimi. Grazie mille per l’attenzione, la gentilezza e la pazienza. Mille grazie per un’eventuale lettura o anche solo una fulminea sbirciata (ch’è lungherrimo, povero mondo). E mille-mille, cioè, grazie-grazie, perché questo è un affare stranissimissimo.

Grazie ancora e buona lettura.


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As Time
[Leaves]
Goes By

 
Time
[Wind]
 

___Don’t try to live so wise
___Don’t cry ’cause you’re so right
___Don’t dry with fakes or fears
___’Cause you will hate yourself in the end

___Take your time, baby, your blood needs slowin’ down
___Breach your soul to reach yourself, before you gloom
___Reflection of fear makes shadows of nothing
___Shadows of nothing

 
___[Wind, Akeboshi]

[Non cercare di vivere tanto saggiamente___
Non piangere, perché vai bene così___
Non prosciugarti con falsità o timori___
Perché finirai per odiarti, poi___

Prenditi del tempo, bimbo, il tuo sangue ha bisogno di rallentare___
Apri una breccia nell’anima per riacciuffarti, prima di scurire___
Il riflesso della paura crea ombre di nulla___
Ombre di nulla]___
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

___“Che stramberia”, guardando la porta chiusa.
___Che stramberia davvero: lui, lì, solo, e quella porta a star chiusa.
___Corrugò appena la fronte, dando udienza a un nero di già largo per la stanza: vi vedeva dentro tanto bene da non parergli notte inoltrata. Notte inoltrata o giorno incombente.
___Il suo ospite era scuro e taciturno, con una minaccia a masticargli sotto il mantello: sarebbe stato pronto e sarebbe stato capace, avrebbe potuto inghiottire ogni cosa, parola sua!
___Abbassò il capo, via dal fondo della stanza e al legno sotto di sé. Mosse l’indice, piano, grattando con l’unghia. L’aggressione si mostrò stentata, risibile a guardar la mano che l’aveva promossa: a decine, a centinaia e centinaia erano caduti, tutti in un unico istante, sotto il suo rasoio! Così tanto e così terribile neanche un lustro prima: “Non ingaggiare scontro ma fuga, fuga soltanto!” Ora, invece? Ora? Ora la tavola non scricchiolava, ignorandolo e negandosi all’appello.
___Fissò la falange e deglutì.
___Che stramberia: nessun sapore, se non un vago sentore metallico, giù, lungo la gola. Niente sapori, niente rumori, niente colori, niente e niente; se li erano portati via. Ebbe voglia di chiudere un poco gli occhi, solo un poco: chiudere gli occhi e essere altrove, via da tanta ombra.

[La sua, sempre la sua.]___

___Con niente intorno.

[1][L’Ombra del Fuoco.]___

___Con niente di vivo, al di fuori di lui.

[Il Quarto Hokage.]___

___O forse, niente di vivo, lui compreso.

[Minato Namikaze.]___

___Una risata gli corse alla bocca, sabbiosa e bassa. Lui riaprì presto gli occhi, lividi per la veglia coatta ma ancora affilati, vitrei come quelli dei rapaci.
___Aveva riso, per caso? Beh, meno male: allora non era del tutto andato!
___Portò la mano destra al volto, premendo pollice e indice contro il naso, quindi si ricondusse alla tenebra tutt’attorno; di nuovo là in mezzo, da ch’era salito il buio; e di nuovo, riusciva a distinguere con preoccupante abilità superfici e forme. Solo i volumi, i pieni vicino ai vuoti, sfuggivano; come di fronte a una fotografia, una gigantesca stampa o un trompe-l’oeil: dettagliato, verosimile, molto più che realistico, ma falso. Mancava una direzione.
___Allungò la mano sinistra verso quella strana aberrazione ottica, senza volerlo; andava a saggiarne la consistenza per dissipare l’illusione; le dita appena appena tese verso la porta: sembravano chiedere qualcosa.
___Imploravano una concessione.

[Te ne prego, solo un poco.]___

___Una grazia.

[Solo un poco di più.]___

Solo [più] tempo.

___Se non per lui, almeno per loro…
___Nulla, però. Nessuno rispose. Non la porta, non la notte, non il buio.
___Eppure, almeno quella, “quella” chiusa, la vedeva: era lì, di fronte a lui, pochi metri oltre la mano; e comunque gli sfuggiva. La mancava. Restava fermo, in ristagno alla superficie delle cose, senza saper andare oltre. E vederle, averle anche, non bastava. Non pareva bastargli a renderle altrettanto reali. Vive.
___La vedeva e la riconosceva, sì, eppure non c’era; rapita dalla notte e da un domani sotto l’orizzonte.
___Domani? Lo era di già? No, non poteva; non doveva: “Ascolta, ti prego, e aspetta, aspetta ancora un poco, ché oggi è ancora. Stai, ti prego.”
___E rimase quello. Rigoroso, rimase dov’era: “Non parlare a nome d’altri te, tanto più senza procura alcuna. Ma va bene, starò, non ho fretta. Bada e bada bene, però, che quando sarà ora non sentirò ragioni. Non accordo elemosine, solo quanto spetta.”
___Lui ritirò lento le dita, avvertendole gelide nel seno della mano. Più in là, ogni cosa si conservava immobile, fedele al suo signore e ai suoi comandamenti. “Niente elemosine, solo il dovuto”: così aveva parlato e così sarebbe stato. Nume dispotico, il vecchio Crono, perché di padre in figlio vedeva i passi ripetersi e là terminare tutti: nella terra. Sotto la roccia, non in cielo, stavano gli dèi. Così a occidente, così a oriente; e così presso il Fuoco.
___Il silenzio gorgogliò basso intorno al Quarto Hokage: strisciava sotto l’aria e sopra il pavimento, indugiava lungo contorni delle ali sue bianche, odorandone confini e crepe con l’appetito del predatore che ha fiutato la scia di una falla, dentro la santità dell’abnegazione.
___Gorgogliava basso e, compiaciuto, lo canzonava: “Sì, oh sì! Era di carne, ancora di carne sotto la zimarra, l’Hokage!” Nulla sconvolgeva il sommo Yondaime[2], il dio del fulmine sceso in terra. Nulla in grado di scuoterlo veramente o scatenarne i filamenti. Nulla! Nulla! Davvero nulla! Ah!
___Serrò la mascella e, attorno, sentì freddo.
___La sentì fredda, la paura.

[Paura, dico bene?]___

___La paura del buio?

[Lo temi ancora, il buio?]___

___Paura di sparirci, nel buio?

[Temi di avercelo sotto, il buio?]___

___Paura di cadere, da lassù?

[Di avercelo già, dentro?]___

___Paura di perdere?

[Ne hai ancora, Minato-kun?]___

Paura di vivere?

___Di scoprirsi fallibile, inadeguato, sbagliato: umano? Orrendamente, troppo umano, o forse… forse, non abbastanza. Poco convincente e troppo costruito, un calco contraffatto e piatto.
___Poggiò la mano sul piano della scrivania; sulle nocche, l’impotenza che segue la preghiera, e fuori, oltre le finestre, la misericordia della luce a forare il cielo.
___La sagoma notoriamente nobile di chi era [sapeva di essere], a tutti gli effetti [doveva esserlo], colonna portante della Foglia ritagliava una curva insolita contro la campitura della notte: era accartocciata, china, quasi contrita.

[Diavolo, lo Yondaime in supplica? Ah!]___

___Il buio giù a sghignazzar sguaiato, e poi: “Ssst! Silenzio, per cortesia.”

[Non ne hai avuto abbastanza?]___

___Abbastanza del silenzio, del buio, del sonno; abbastanza da voler andare, andare via.

[Coniglio.]___

___La mano sinistra ancora sulla scrivania, dimenticata alla chiacchiera dell’oscurità.
___Hokage, marito, padre ormai: una compagna incinta e con una gravidanza a rischio, e lui a rintanarsi nella sua torre d’avorio. Proprio un bel modello, tanto di ninja quanto di uomo! Aveva una famiglia, una vita intera, vera, là fuori, e lui? E lui se ne stava murato in quel sepolcro di pietra e doveri, quando avrebbe potuto avere tutto…

[Averli con sé.]___

___Una vita normale, come tante.

[Esser presente.]___

___Essere un uomo.

[Esserci sempre.]___

___Prima che uno shinobi.

[Essere lì, non altrove.]___

___Avrebbe potuto averlo, questo.

[Lo voleva davvero.]___

___Ma c’era quell’altra, pure.

La scelta.

___Aveva una volontà e un obbligo, lui: verso la Foglia, verso sua moglie e suo figlio, verso se stesso. C’era il dovere prima, prima affinché potesse seguire un dopo. Era l’ordine, però, a turbarlo.
___Finora, nessuna premonizione lo aveva sfiorato. Dire, poi, non fosse nulla di tanto divinatorio; non occorreva certo scomodare il venerando Gamamaru per intravederlo là, ancora lontano ma ogni giorno un po’ più vicino: un bivio. Due strade, sorelle: avrebbero dovuto confluire, a rigor di logica; ma ben poco spazio ha la logica in famiglia. Così, a strade sorelle, fardelli fratelli, gemelli: bivio e svolta. “Dove vai, mio buon amico?” [Io l’avevo di già.] “Di qua, di là, dove?” [L’avevo fatta già, ti dico.] “Non lo sai dove?” [La mia scelta era qua!] “Se sosti nel dubbio, e ciò che vuoi tu non lo sai, mi spiace, e di cuore: perderai. Di qua o di là? Nel mezzo a forza, ti perderai. Perderai, mio buon amico, ogni cosa.”
___Alle sue spalle e sotto il metallo, i vetri vibrarono lamentosi e si fecero sentire. Il mento viaggiò un poco su: fuori, oltre il diaframma delle finestre, il vento di un autunno incipiente iniziava a ululare. Presa tra verde, terra e aria, la Foglia tremava. Nulla di minaccioso, a ogni modo; non si sarebbe strappata: “La Foglia balla poiché, sotto, arde il Fuoco”, dopotutto.
___Di là dall’epidermide del palazzo e nel cerchio dello studio, invece, non si ballava affatto; giusto si respirava. I lampi comunque non saettavano né parevano poter esser gialli, mentre azzurro e bianco erano amici cari, lontani da tempo.
___Il vento alitava affilato, latore di un lamento basso ma crescente: presto, avrebbe fatto loro visita presto. Il fremito si addossava al vetro con mano cadenzata. Qualcuno bussava, bussava con insistenza: presto, presto…
___L’Hokage inspirò a lungo, catturando quanto più ossigeno per i polmoni: lo pregò dargli forza sufficiente ad alzarsi, a muoversi, ancora. Ma né il vento né il buio cessarono: non v’era clemenza fra i ninja, avrebbe dovuto saperlo. Solo il suo respiro, le sue paure e i suoi demoni; solo, mentre loro, lontano, riposavano addormentati.
___Ebbe uno scatto alla mano, stanco del buio, delle pareti e di quella pendola sulle loro teste; una croce che rifiutava di accettare come reale. Inevitabile.
___Premette il pugno contro lo scrittoio, facendosi forza e carico di quanto quel mantello dispensava. Inspirò ancora, meno profondamente ma con altrettanta decisione. Risolse quindi di alzarsi: doveva muoversi, doveva riprendersi, doveva tornare in sé. Doveva ricordare chi era e cosa voleva: cosa aveva scelto. Ricordarlo sempre, chi era e chi aveva scelto di essere, al di là del Quarto Hokage, del “Lampo giallo” e del grande Minato Namikaze. Al di là di tutto. Tutto, tranne loro. La sua famiglia e la sua casa: quella che respirava assiepata intorno al palazzo [il villaggio] e quella addormentata vicino alle mura [Kushina e Naruto]. Per questo, restare fermo era un lusso che bandiva: alzarsi, alzarsi subito, e svegliarsi, adesso! Andare, senza però scappare: avanzare.
___Aveva paura, sì, ne aveva ancora. E tanta. Ma la paura, spesso bistrattata, può esser un buono stimolo: serve a ricordarci di cosa siamo fatti. Come siamo fatti. Deboli, di cartilagine e vesciche, pronti a lacrimare con troppo poco. In virtù di tante falle, però, lui non non poteva arrendersi: non poteva perché non voleva. E l’ordine, qua, era solido conforto.
___Debole, sì, diverso da quanto creduto, sì, poco più di un ragazzo con troppi pesi e pensieri, ancora sì, ma no, non si sarebbe arreso: aveva tanto da proteggere.
___La poltrona cigolò grave, liberandosi dalla sua servitù giornaliera; lanciò singulti sconnessi e cattivi contro il Quarto Hokage: in malora lui e la sua celebrata silhouette! Poco male, comunque: il suddetto ringraziò cortesemente e alzò i tacchi.
___Faccia a faccia con l’unica porta dell’ambiente, però, si scoprì irrazionalmente ingessato: sul “chi va là!” Del resto, era pur sempre quella porta [era lei, vero?], quella di prima [era lì, vero?], ferma e muta [si sarebbe aperta, vero?].
___Ebbe di che ridere, di sé e di tanta suggestionabilità, non appena lo scatto secco del meccanismo poté assicurargli che: “Sì! Quella era proprio una porta! Una porta autentica e non il frutto di qualche arte illusoria!” Più sereno, ne attraversò l’uscio e richiuse l’anta senza voltarsi. Senza voltarsi, tutto dietro di sé, solo un momento.

[Un momento, presto, un momento.]___

___Si levò un gemito, oltre la sua schiena, e belò: “Aspetta, aspetta!”

[Presto, arriveranno presto.]___

___Solo un istante e solo un rumore: “La prego, aspetti! Ci aspetti!”

[Presto, devi fare presto.]___

___Un ago era riaffiorato tra le scapole, un ago vecchio di due anni.

[Presto. Aspetti! Presto.]___

___Dritto al cuore, dove si urlava il suo nome.

[Sen-… sei.]

___Solo un momento, quel momento… era bastato. Un’unità inconsistente, veloce, perfettamente invisibile e, per questo, letale. Se orientato a dovere, anche un piccolo shuriken è bravo a mozzar vite; e con lui, oh, era stato impeccabile. Lo aveva paralizzato. Le spalle rivolte alla porta e la mente, ai fantasmi.
___La stasi si dilatava, sospesa tra il metallo della maniglia e il pallore della carne. Di qua il ruolo, di là la natura [ma non erano la stessa cosa?]. Di qua il ninja, di là l’uomo [non dovevano essere la stessa cosa?]. Di qua il Quarto Hokage, fermo davanti alla porta, di là Minato Namikaze, chiuso dietro la porta [e non erano la stessa persona?].
___Un suono fine, sottile, come lo è il filo da garrota: probo a strangolare. Alle spalle.
___Però, adesso basta, basta parlare ai fantasmi. Doveva chiuderli lì, in quella stanza, e per quella sera, quella sera almeno. Non poteva portarseli dietro [non adesso], non da loro [non così presto], non da lei… che di maledizioni e mostri ne aveva già conosciuti abbastanza per tre vite intere.
___Strinse la mano in un pugno: mani e piedi, mai che lo stessero a sentire in quelle occasioni. Non c’era verso che tenesse, quando balenava fuori quello, nessuno davvero; per quanto, riuscisse bene a comprenderli.
___Inghiottì un grumo di saliva e riprese a camminare: passi lenti, leggeri, ma stanchi, tanto stanchi… Quelle serpi di ombre, però, non lo volevano proprio abbandonare: erano animali devoti loro. Eppure, lui non parve curarsene. Allungare il passo sarebbe stato ridicolmente inutile, dopotutto: non la semini la tua ombra, no davvero, neanche ad esser il “Lampo giallo” in persona.
___Le tasche della vecchia uniforme da jōnin sapevano dimostrarsi sempre sorprendentemente calde, constatò, riparandoci dentro le mani. Il sangue tornava a fluire e portava via, via dai fantasmi e via dai mostri: era ora di andare.
___Si passò una mano tra i capelli disordinati, per aria; quelli, nobilmente, a infischiarsene della gravità, sparando in tutte le direzioni. Sempre, e comunque: sotto la pioggia, nella calura estiva, dopo una tecnica di dislocazione o un sonno comatoso di dodici ore consecutive.
___Si grattò la zazzera ispida, prendendo un poco quota.

[Di che colore sarebbero stati i suoi, di capelli?]___

___Un paio di brividi gli saltellarono lungo il braccio.

[Rossi oppure biondi, quasi gialli?]___

___Abbassò le palpebre, addolcendo il bel disegno del volto.

[E il colore, il colore degli occhi?]___

___Sorrise, rallentando, rallentando… fermandosi in mezzo al corridoio. Una stilettata di gelo lo fece sussultare, curvandolo un poco verso le finestre. Il piano maggiore del palazzo dell’Hokage era sempre stato prodigo in quanto a panoramiche, tanto di giorno quanto di notte. Sotto c’era la terra e il verde, il legno dell’immenso Hashirama Senju; ma sopra… sopra c’era il regno di Izanagi e Izanami.[3]

[Doveva uscire.]___

___Fermo, ancora immerso nell’oscurità del corridoio, sporcata dall’oceano luminoso di demoni e dèi che bruciavano lontani, sentì spingersi.

[Voleva uscire.]___

___Spingersi via, al cielo e alle stelle: a Konoha.
___Le porte, una a una, in fila, le pareti, gli arazzi, poi le scale, i gradini, il corrimano: andavano, andavano veloci, e lui, tutti, li ignorava tutti. Si scontrò col trittico degli Hokage precedenti, sentendosi lontanamente colpevole, con le mani nel sacco: “Beccato!”
___Il “Dio shinobi” e il suo frassino nero sembravano scrutarlo con disappunto, ammonendogli quella che pareva – ma non voleva esserlo davvero – una ritirata.
___Non stava scappando, no; non voleva né, volendo, avrebbe comunque potuto. Solamente…
___Scosse la testa.
___Lui, no – a lui piaceva essere Hokage. Non che, poi, mancare quella carica avrebbe compromesso il suo attaccamento verso il villaggio: era stato un onore e un privilegio ricevere quel titolo [essere scelto Quarto Hokage del Villaggio della Foglia], perché era quello che aveva sempre sognato [essere Hokage del Villaggio della Foglia]. Quello era, fin da bambino, dai tempi dell’Accademia.
___Essere Hokage era il suo sogno.
___Tuttavia non si trattava solo e unicamente di quello: Hokage e basta. Niente di più, oltre l’ideogramma appuntato sulla schiena. C’era un “di più”. Non voleva diventare Hokage per poi essere rispettato e apprezzato; perché tutti avrebbero dovuto [e dovuto] rendergli quell’onore e gloria che il simbolo del Fuoco esigeva.
___Lui non voleva diventare Hokage: lui voleva essere Hokage.
___Voleva essere valutato, riconosciuto Hokage: voluto come Hokage. Essere apprezzato e rispettato non “in quanto”, “in virtù di” o “perché era” l’Hokage ma, viceversa, essere l’Hokage solo e soltanto perché prima appezzato e rispettato. Prima dello Yondaime e come Minato. Il suo sogno non era diventare, ma essere Hokage. Sia con quel ricamo sul dorso del mantello, sia con il solo coprifronte argentato e la divisa blu china da shinobi.
___Per Minato, l’Hokage non era necessariamente e imprescindibilmente il ninja più forte del villaggio: il migliore. Nella sua testa, a torto o a ragione, l’Hokage era colui che avrebbe sempre protetto il villaggio, sempre e comunque. Poiché essere Hokage significava amare il villaggio. Amare il villaggio prima di tutto e prima di tutti [prima di se stessi].
___Essere Hokage era sempre stato il suo sogno, perché lui amava il villaggio e voleva proteggerlo.
___Perciò pensava che, se l’Hokage faceva [era] queste due cose, beh, non poteva e non avrebbe potuto avere un sogno migliore: perché non voleva nulla di diverso.
___Nel candore dei suoi otto anni scarsi, composto nel banco d’Accademia e i piedi a spolverare il pavimento, Minato sorrideva tranquillo con quella luccicante chimera negli occhi; pienamente convinto che, se mai gli fosse concessa una tale fortuna, non avrebbe davvero desiderato altro.
___Essere Hokage era sempre stato il suo sogno, perché lui amava il villaggio e voleva proteggerlo.
___Ma lo avrebbe fatto comunque e in ogni caso, Hokage o non Hokage; lo avrebbe sempre fatto: perché era la sua natura [il suo nindō].[4]
___Dentro, però, ne germogliava anche un altro, di sogno.
___Per quanto, più che sogno, avrebbe dovuto riclassificarlo come obiettivo, scelta: essere apprezzato e rispettato da tutto il villaggio. Ma questo era qualcosa che, per paradosso, non potevano dargli gli altri; nonostante quello stesso apprezzamento e rispetto dovesse necessariamente provenire da loro. Non era qualcosa che poteva ottenere slegato dalle sue azioni: “Le lodi si ricevono; la stima va guadagnata.” Pertanto, essere apprezzato e rispettato era qualcosa che dipendeva da lui: riaffiorava e curvava negli altri, ma da lui, da lui partiva.
___Eppure, stima o non stima, avrebbe fatto comunque quanto in suo potere per Konoha; sia a impegno riconosciuto, sia a volontà liquidata come religioso servizio al paese. Lui avrebbe sempre protetto la Foglia [perché l’amava].
___Essere Hokage, per Minato, significava sostanzialmente due cose: amare e proteggere il villaggio, riunendo un sogno a una scelta [la fede, alla causa]. Dove il sogno aveva suggerito la scelta, parimenti, la scelta aveva condotto al sogno [e la natura aveva determinato entrambi]. Sicché, essere Hokage pareva identificare [era] sogno e scelta, insieme: perché era quello che voleva [fare] e ciò che desiderava [ricevere]. Il “di più”.
___Proteggere ciò che amava e essere ritenuto degno di fiducia: le due cose erano separate sul piano ma identiche in radice. Tuttavia, la mancanza dell’una – Minato era certo – non avrebbe compromesso l’autenticità e la forza dell’altra: avrebbe sempre protetto la Foglia, sempre, non c’era scampo.
___Perciò, poco più che adolescente e poco meno che adulto, era stato eletto.
___Minato Namikaze, Yondaime Hokage di Konoha.
___Il sogno unificato al desiderio, e lui era completo: perché Hokage, perché appezzato e rispettato da tutto il villaggio, e perché sposato. Arrivato. “Capolinea, signori, si scende.”
___Essere Hokage era sempre stato il suo sogno; essere apprezzato e rispettato da tutto il villaggio era sempre stato il suo desiderio; e poco più che ventenne aveva entrambi.
___E per questo era felice.

[Su, in cima alla ziqqurat.]___

___E per questo era turbato.

[Cadere, ora potrai solo cadere.]___

Ter-… rorizzato?

___C’era dissesto e lui si torturava, interrogandosi su cosa fosse [più] importante: cosa, per l’Hokage, e cosa, per Minato? Una cosa poteva essere, ragionevolmente, più importante dell’altra? Le due cose divergevano anziché confluire, si elidevano piuttosto che completarsi? Prima o poi, l’avrebbero condotto lassù, alla torre: giù uno o giù l’altro? Avrebbero amputato il sogno dal desiderio [il Quarto Hokage, da Minato]? Lo avrebbero [si sarebbe] spezzato?
___Essere Hokage era sempre stato il suo sogno. Poi, però, n’erano emersi altri, sebbene non molti, comunque altri: diversi. In tutto ciò, un cardine perdurava inamovibile: proteggere Konoha, sempre e comunque, a ogni modo e costo, esulando dalla carica. Ma la carica c’era. E lo rendeva immensamente felice, e riconoscente, e onorato, tuttavia… Chi dimora in alto, presto o tardi, deve metterla in conto: la vertigine.[5] Il sotto che chiama e chiama a gran voce il sopra; che attira [dal tetto del mondo, potrai solo cadere] e invita [vorrai cadere, solo cadere].
___In seno, ne serbava anche lui di paura: paura di fallire o sbagliare; perché in quel caso, ogni cosa [sogno e desiderio, testa e stomaco], avrebbe perso ogni cosa.
___Era felice di essere Hokage, sì; però, capitava si sentisse strano, fuori posto, come [preso] sbagliato [in una morsa]. Certe volte, quel copricapo rosso [fuoco], quel saio rosso [sangue], quel palazzo rosso [fuoco] e quell’ideogramma rosso [sangue] si chiudevano a cerchio, a cerchio su ventre e costole: stringevano d’assedio. E restava lui. Lui.

[Il sangue.]___

___Contro.

[Il fuoco.]___

___Loro.

[Il credo.]___

___In nome suo.

Volontà del Fuoco.

___Capitava, capitava il rosso sul labbro del mantello bruciasse come fuoco. Davvero come fuoco.
___Essere Hokage era sempre stato il suo sogno, fin da bambino; non immaginava quanto quello potesse consumare, dentro.
___Distolse lo sguardo dall’ebano del sommo Hashirama, contrito, colpevole. Imboccò il corridoio che lo separava dall’ingresso principale, sfilando, spalle chine e occhi bassi, davanti le effigi dei grandi eroi di Konoha: tutti quei paradigmi di dedizione e fedeltà assoluta alla patria stavano lì e non parevano gradire quel che vedevano. Ma si sa: gli antenati non paiono mai gradire alcunché negli eredi.
___Si strinse nella cappa.
___Era felice d’essere stato valutato degno del magistero di Hokage, della missione e degli obblighi che quell’insegna portava; tuttavia nutriva come l’impressione che ogni, davvero ogni cosa, in quel palazzo, non perdesse occasione di ricordargli chi doveva essere e cosa doveva fare. Per forza. Gli ruggiva in faccia una scelta [non il sogno]. Lo strozzava con un unico, strettissimo nodo a una parola [Yondaime Hokage] e cancellava il resto [Minato Namikaze].
___A conti fatti, vi fosse lui o un altro, sotto quel copricapo, non sembrava avere poi concreta rilevanza.
___Certo, aveva importanza: era essenziale vi fosse un Hokage, e non uno shinobi o una kunoichi qualsiasi, ma un ninja adatto, meritevole. Doveva esserci qualcuno a protezione del villaggio: non chiunque, chiaro, ma comunque sempre qualcuno [no, chiunque no, ma sì, qualcuno sì].
___Non c’era Foglia senza Ombra; ma la Foglia veniva prima, prima della sua Ombra.
___Questo, lo sapeva.
___Era perfettamente logico: andava da sé che, senza un paese, senza nulla cui far capo, l’Hokage, da solo, non avrebbe avuto alcun senso. Era l’Hokage a servire il villaggio, non il contrario; per quanto il culto del gregge al proprio pastore potesse ben abbagliare. Di rimando, l’Hokage era tale proprio poiché l’unico in grado di garantire, finanche da uno, l’incolumità della collettività intera. A foce di questo, il popolo gli rendeva rispetto e fiducia, ulivo e mani levate: “Lode, lode al santo protettore!” E i santi là andavano: al Calvario.
___Eppure, dallo scorcio semplice di Minato, l’Hokage sbucava fuori come un grosso cane da guardia [pastore, sì: cane pastore]. Un grosso cane da guardia con un grosso cappello, garantito [un komainu[6] in carne e spirito per una tribù di ninken][7], ma pur sempre un cane; dal momento che l’Hokage doveva essere fedele al suo padrone. Immolato al padrone. Per proteggerlo.
___Dacché il cane ama il suo padrone.
___O almeno, così gli piaceva congetturare, in un modo che non si vergognava riconoscere indubbiamente stucchevole.
___Sapeva esser freddo Minato, metodico, oltre gli occhi e sulle mani. Ghiaccio secco, aria in solido, e poi: “Puf!” Poi, di nuovo aria. Sapeva esser altrove, altrove davvero [“Volo del dio del fulmine” compreso]; ma era anche insospettabilmente empatico: comprensivo, disponibile e aperto al compromesso, al dialogo. E buono, buono nell’accezione più scontata della lode. Noiosamente e straordinariamente buono.
___Distante. E docile. Contraddittorio.
___In perenne questione, probabilmente. Ma non falso, questo mai. Si potevano obiettargli molte cose – oh beh, molte? Non esattamente… Si potevano contestare ben poche cose al Quarto Hokage, invero: l’esser uno sgobbone, ad esempio, compassato e cerimonioso; un diorama semovente, spesso e volentieri; irritante da far prudere gli alluci. Ma la falsità? No. No di certo. Era onesto e limpido lui, chiaro quanto il bianco lucente della mantella.
___Talvolta, però, tanto bianco può schermare.
___Quest’indiscriminata onestà, di colori quanto di pensieri, possedeva un buco, un inciampo: solerte e presa dallo zelo, poteva accorrere fuori tempo e non richiesta, travisata in male per distacco. Perciò, sovente gli accadeva d’esser scrutato con esitazione.
___Il Quarto Hokage non sembrava di questo mondo: poiché perfetto.
___Innaturalmente, mostruosamente perfetto, e tanto, da rigurgitare in estraneo, altro. La sua perfezione metteva a disagio e rendeva inadeguati, li limava tutti.
___Eppure c’era una ragione: il Quarto sembrava perfetto perché l’Hokage doveva essere perfetto. Per il villaggio. Non per cava pompa ma per acuta urgenza, andandone del benessere [della vita] del villaggio. Era un funambolo su filo di spada: dominio e spina d’acciaio costituivano il corollario, non la premessa. “Perfetto” era un comandamento; e qualora non lo fosse stato, tradendo deficienza o ossa di latta, non avrebbe potuto… non avrebbe potuto nulla, nulla per nessuno. Quindi: non apparire, non simulare, ma essere perfetto ed esserlo per davvero, sinceramente, fino all’ultimo grano della sua sostanza.
___In questa guisa il Quarto Hokage era perfetto: per volontà viva.
___Disgraziatamente, lo stesso non poteva dirsi di Minato Namikaze.
___Non lo era; solo lo sembrava. Incidentalmente; quella non era certo la meta, giusto la via. Bello, bellissimo, gentile e garbato, forte e coraggioso, e determinato, e leale, e intelligente: perfetto. Minato, però, non si valutava parimenti. Non si sentiva perfetto, affatto.
___Contrariamente a quanto generalmente creduto, tutte le qualità con cui lo incensavano non erano magnificamente connaturate e spontanee ma ricercate: istruite, coltivate e quindi estratte dalla materia comune a chiunque.
___Genio? No, no davvero. I suoi stessi maestri, sì, lo sostenevano orgogliosi, e senza vena di malizia o oncia di fiele: «Un prodigio! Un prodigio, Namikaze-kun!» Così, tanti banalizzavano, senza comunque reale cattiveria, i suoi molti e precoci talenti. Ma né genio né prodigio gli circolavano per le vene. Solo, era un ragazzo che s’impegnava in quel che faceva, lui: che lavorava e che sgobbava, che dava il massimo, sempre, per non tradire la fiducia concessa.
___Minato Namikaze non era diventato Quarto Hokage di Konoha su predestinazione, destino o caso a lui propizio. No, no davvero. Minato Namikaze era diventato Quarto Hokage di Konoha, massacrandosi di lavoro: aveva faticato come un pazzo ogni singolo giorno, rimettendo l’anima e demolendosi con metodo e diligenza; tutto per guadagnarsi quel bianco e quell’ideogramma oltre le scapole. Benché non fossero né quel bianco né quell’ideogramma a interessarlo; quanto piuttosto, piuttosto… l’orgoglio e la fiducia che profumava le pacche del maestro Jiraiya [animo, signorina Namikaze, animo!]. Le strette di mano dei compagni al termine di una missione completata con successo [aperta insieme e chiusa insieme]. Il sorriso grosso e contento di Teuchi-san da sopra una scodella bollente di ramen [via, via: omaggio della casa, ragazzo! Non fare complimenti, sai]. I saluti vivaci, urlati [ohayō!][8] di Konoha, lungo la via del mercato. E poi… poi Kushina [tu?], le guance spolverate di vergogna [come?], la guglia di un pino [i capelli] e la marea di un oceano capovolto in cielo [i tuoi capelli, Uzumaki-san].
___Per quello, tutto quello, ringraziava d’essere diventato Hokage: v’era orgoglio, fiducia e affetto; non solo rosso e fuoco. Vero, certe volte quella cappa gravava sulle spalle come intessuta nel metallo; eppure, certe altre, certi giorni [parecchi, molti giorni], lo scaldava, scaldava davvero. Era come assopirsi al languore del sole in aprile: caldissimo.
___Sul serio: era felice di essere diventato Hokage [d’essere Hokage]. Solo che, a dispetto di tanta fama, lui era sempre stato un po’, come dire, slegato. Svanito, con e senza dislocazione. Perso.

[Fortuna sua dovesse esser Kushina quella lunatica.]___

___Forse, nessuno lo aveva mai neanche lontanamente odorato – complice quella vernice di compostezza ad ammantarlo sempre – o, forse, era sistematicamente riuscito a dissimulare quell’ala infelice del suo carattere, camuffandola come umana eccentricità; tuttavia Minato lo era sempre velatamente stato: insicuro. Insicuro e irreparabilmente critico. Analitico e cerebrale, relativista in maniera esasperante; amava porre tutto su una bilancia: valutare i pro e i contro, guardare le cose da più punti di vista, avere una visione dettagliata e il quadro generale insieme, esser sempre giustamente obiettivo senza operare discriminazioni. Darsi equamente a tutti nel medesimo modo.
___Essere Hokage, nella sua testa, sottendeva e portava tanti divieti: non distrarsi, non mostrare il fianco, non concedere falle, non scivolare nei pregiudizi, non cristallizzarsi negli assolutismi; all’opposto, mantenersi aperto, comprensivo [ma non cedevole], elastico [ma non irresoluto], equo [ma non rigido]. In una parola: giusto. Perché l’Hokage avrebbe dovuto [doveva] trattare [amare] tutti nello [allo] stesso modo.

[Tutti, ma nessuno in particolare.]___

___Credeva; ingenuamente s’illudeva fosse una cosa semplice, la più naturale del mondo poiché giusta. Non pensava davvero dei semplici fili rossi potessero fare tanto…
___C’era stato un tempo, un tempo di solo giallo, azzurro e verde: del sole, del cielo e del familiare legno di Konoha. Il Minato bambino al primo anno d’Accademia non conosceva altro, più in là del suo sogno. “Più in là”, già. Segnava una distanza, un confine oltre il quale… oltre il quale tutto cambiava. Si addensava e disgregava, senza causa o ragione, trasfigurava, ed era ovunque: giallo acido, e blu elettrico, e verde bile, e nero, e rosso, rosso fuoco, rosso scuro, rosso porpora, rosso cremisi.
___Era andato oltre.

[Il rosso oltre la Volontà del Fuoco.]___

___Era “più in là”.

[Il rosso dei gorghi di Uzushio.]___

___Era in terra straniera.

[Il rosso del Nove Code.]___

Era innamorato.

___“Dòn, dòn, dòn” e il tempo era battuto. Sopravviveva dolente un unico sbocco: mai sarebbe riuscito a darsi a Kushina come a tutti gli altri. Perché lei non era come tutti gli altri, non era tutti gli altri, non era – no, anzi.

Perché era lei.

___Ma non era giusto, né lo sarebbe stato.
___L’Hokage doveva trattare, considerare [amare] tutti allo stesso modo [doveva, sebbene inumano]. Non sarebbe stato corretto seguire una tale suggestione, prestarle orecchio o braccio, perché lo avrebbe condotto via dalla parità e no, lui poteva. Essere giusto per essere perfetto per essere Hogake: questo era il verso. Da qui per arrivare là. Sì, va bene, “là”. Ma “là” dove?
___Era la prima volta, forse: la prima volta che non sapeva dove andare.
___Mal tollerava non capire, eppure gli pareva esser la sola azione praticabile. Non capiva più nulla, del mondo come di se stesso: di quello che sentiva e di quello che voleva, di quello che credeva volere e di quello che si era scoperto desiderare. E non vedeva cura, purtroppo. C’era qualcosa che potesse o dovesse, a ragione, fare? Qualcosa in grado di dare una direzione, un freno a… quello? Al tremore che, forte, gli espugnava i polsi sino alle mani; mani da shinobi, mani che non potevano tremare. Eppure, un poco, ma tremavano. Le mani gli tremavano e lui avrebbe voluto [Dio, se avrebbe voluto!] urlare, gridare, vomitar fuori che: no, non era il freddo, no, non era la mancanza di sonno, no, non era l’astinenza protratta da ramen, no, no, no, non era niente di tutto quello, niente, maledizione! Ma, ma…

___[Cosa?]___

___Era solo…

[Solo?]___

___Solo…

Lei?

___Non lo sapeva. Davvero.
___A dir “Minato”, una cosa fra le tante da recare in risposta, poteva esser “calmo”: calmo, riflessivo, equilibrato pure nelle sue contraddizioni. Ora, però, quel “calmo” non lo rispecchiava nemmeno in parte.
___Era il primo a riconoscersi: il mirabile prototipo del bravo soldatino, con la spina dorsale di scopettone e le redini perennemente tirate. Era ridicolo, sì, ma era anche fiducioso: lo riteneva una delle sue più valide qualità, quel controllo. Controllo del chakra. Controllo delle arti magiche e delle tecniche illusorie. Controllo della situazione, fuori e dentro. Controllo. Cronico. Per farsi forte e non sbagliare: per essere Hokage.
___Eppure, non che vi fosse ancora una sola cosa sotto il suo controllo, non una sola: i kunai erano anguille tra le dita; gli shuriken roteavano nervosi e incuneavano le tempie, non gli occhi, del fantoccio; ma sopra ogni altra, il suo stesso sguardo. Doveva legarlo a terra, alle mani o ai sandali, per non farlo deragliare altrove, ancora altrove. E il maschiaccio del Vortice era l’altrove.
___Non riusciva a mantenersi lucido o distaccato, “calmo”. Non si riconosceva; non capiva cosa diavolo gli stesse capitando, cosa lo stesse muovendo o dove stesse andando. “Dove ti sei cacciato, Minato-kun?” Perso, appunto.
___Nutrire dubbi era un conto; annegarvi dentro era un altro. Colava a picco, sotto e sotto, non c’era fondo alla caduta; eppure non si era mai sentito tanto ironicamente immobile, come cucito a terra, col mondo che girava impazzito attorno il suo stomaco. E poi, c’era la fame. Aveva sempre fame, come non mai; ed era frustrante, perché non appena soffiava sul brodo bollente di verdure e pesce, la zaffata offensiva delle spezie licenziava ogni appetito. La partenza non era lo stomaco, probabilmente, ma qualcosa di più simile alla sete, alla terra che chiede acqua; e né il ramen né qualsivoglia altra pietanza dell’Ichiraku parevan in grado di quietarla.
___“Forza maggiore”, si diceva, no, nelle pergamene militari? Maggiore o minore che fosse, non riusciva a calmarla; e non sapeva discernere se non il non riuscire avesse causa nell’incapacità o, piuttosto, nella stessa volontà. Perché, in fondo, non voleva fermarsi.
___Minato Namikaze non era perfetto; solo lo sembrava. Eppure lo desiderava: per essere all’altezza delle aspettative [le sue], sempre molto [troppo] alte, e in prospettiva di guadagnarsi la stima altrui. Minato sapeva, però, e con allarmante lucidità per un ragazzino della sua età, d’essere debole e manchevole in molto [tanto, ai suoi occhi]; per questo impegnava ogni sua energia nel migliorarsi. Il fatto, poi, la perfezione non fosse cosa di questo mondo o appannaggio degli uomini, non era comunque mai stata ragione sufficiente a farlo desistere: lui avrebbe provato in ogni caso, pur nella malcelata premonizione di condannarsi a correre, correre in eterno.
___Minato sapeva essere anche molto, molto determinato, dopotutto; testardo e fedele ai suoi propositi. Di qui tanto [troppo] controllo: per non sbagliare e almeno sfiorarla, quella perfezione, se non già catturarla.
___Vicino i sedici anni, però, avvertì con crescente disagio di non riuscire più a esercitare quel suo celebrato controllo; tanto fuori quanto dentro.
___Aveva sempre saputo, ed entro certi limiti metabolizzato, d’essere debole e impantanato a rimanere eternamente tale. Soltanto non aveva mai riflettuto, né considerato, l’ipotesi più che plausibile di poter essere anche fragile.
___Debole, fragile. Lo studio delle Lettere gli aveva insegnato, chissà, forse fraintendendone i dettami, che le due cose potevano essere generalmente inquadrate come sinonimi: due veicoli dello stesso concetto. Tuttavia, non sapeva bene perché ma, poco obiettivamente, aveva anche sempre stimato l’aggettivo “debole” un gradino sopra il gemello “fragile”. Non si trattava di una vera e propria disparità, di una conclamata superiorità dell’uno sull’altro, bensì di una lievissima seppur sostanziale differenza [di una preferenza, in effetti].
___La questione era una: infantilmente, avrebbe preferito pesarsi debole, piuttosto che scoprirsi fragile.
___Perché, insomma: debole, lo è un bambino; mentre fragile, lo è il vetro. Chi è debole, volendo, può diventare forte; ma chi è fragile, anche volendo? Chi è debole può essere altro, anche altro, oltre quello; ma chi è fragile? Il debole, strano a dirsi, può; ma il fragile, lui può?
___Non lo sapeva. Ma, probabilmente, anche inquadrarlo sarebbe valso a poco. Aveva ben altre trame da districare, Minato: quelle di cui era intessuto. E amministravano paura loro. Guardar non dentro l’armadio, ma dritto nello specchio le avrebbe rese reali; avrebbe dato loro potere, potere sotto la pelle e nella paranoia della mente. Nutrite, sarebbero divenute forti, e lui non era certo di esserlo altrettanto.
___Trasferta di grado S per Minato Namikaze.

[Si sarebbe sentito così per sempre?]___

___Un bravo shinobi avrebbe saputo tornarne indietro.

[E lui, lui avrebbe voluto tornarci, indietro?]___

___Ma chissà, forse esulava dalla geometria del suo arbitrio. Forse non c’era nessuna scelta, giusta o sbagliata. Forse, solo lo trascendeva, il controllo. Li trascendeva tutti, superando e assolvendo. “Forza maggiore”, il danno libero dalla colpa.
___Non dipendeva da lui, come il sonno, la fame e la sete: conseguenze dell’esser vivo, dell’essere umano. Incidenti [o prove]. C’erano, poteva sentirli, potevano dominarlo e lui non poteva che assecondarli. Dissimularli o contenerli; di certo non zittirli, men che meno negarli, poiché li avrebbe solo fomentati. Non si contratta con la propria natura: è potente e primordiale quella, rozza; e se imbrigliata, mostra le zanne, le zanne a te e alla tua perfezione.
___Però, rimaneva la paura: paura di assecondare e liberare, di lasciar [lasciarsi] andare. E poi, cosa sarebbe successo? Niente colpa, sì, ma la mano, la carne era la sua, comunque la sua. E là sotto, cosa si nascondeva?
___Minato si era sempre dimostrato un ragazzo molto maturo, tanto a otto anni quanto a sedici, e questo, principalmente in virtù di una robusta vigilanza; di un’attenzione costante, tanto nelle pratiche ninja quanto nelle banalità quotidiane. Non aveva mai avuto molta pratica, né attitudine, verso quanto concerneva la selva delle sue sensazioni contingenti; liquidando il tutto con un sicuramente più pratico ma ben poco razionale: “Se non li sento, allora non ci sono.”
___Un genio, dicevano? No, no davvero.
___Dopotutto, all’epoca, Minato era ancora solo un ragazzino, digiuno circa molte [tante] cose del mondo [e di se stesso]. Era nato a Konoha, era cresciuto a Konoha e, al di fuori del verbo ninja, dell’Accademia e della montagna degli Hokage, non aveva avuto tante occasioni o modi per contaminare il suo piccolo globo di kunai e norme con quella che era una realtà ben più complessa e disordinata. Un titano, oltre le mura alte del villaggio, cento volte cento più immane di lui.
___Era inoltre stato graziato da una vita ridicolmente serena: niente esperienze traumatiche nella primissima infanzia, compagni caduti per mano nemica o retaggi aristocratici da saziare. Alloggiava ben al di sopra della media lui; per un genin della Foglia, quantomeno. Avrebbe potuto godere di una quiete ancor più completa, invero; non fosse stato per quella tendenza ipercritica a pretendere sempre di più senza adagiarsi sugli allori, o quel vizio di svanire in crociere mentali il più delle volte davvero gratuite.
___Sacrificio e calamità, eroi e traditori, martiri e assassini erano tutti mostri fumosi, tessuto per favole e incubi: “Il sommo Hashirama Senju e il suo dragone di legno, contro Madara Uchiha dagli occhi di sangue, a sella del demonio a nove code!” La leggenda si animava sotto le coperte, più che nei campi numerati dell’Accademia.
___Tuttavia, le leggende hanno sovente una radice di realtà, radice raramente gradevole.
___Avvertire di non riuscire più a mantenere alcun controllo fu, infatti, tutt’altro che gradevole. Assimilare di non averlo mai avuto, beh… quello fu disastroso.
___Non c’era modo che potesse averne ragione, ragione di tante cose nuove, sconosciute e forti. Gli spasmi allo stomaco, frequenti, eppure slegati al digiuno o ai succhi gastrici. La deficienza muscolare, altalenante, e in cui le notti sfumate nel completamento del “Volo del dio del fulmine” non c’entravano davvero niente. La letargia mentale, infida a palesarsi, che però non sembrava minimamente connessa ai neuroni inceneriti dall’ultimo racconto del maestro Jiraiya. E l’aritmia, puntale quella, quando scorgeva una macchia rossa ai margini del viso.
___Tutte, tutte quelle cose pesavano.

[Era in un gorgo.]___

___Pesavano e tiravano.

[In fondo.]___

___Attiravano.

Giù.

___E i lampi di una nuova grande guerra non sembravano costituire una spiegazione totalmente sufficiente.
___Tanto, tanto e tutto assieme si stavano sommando, facevano fronte unito contro lui solo, e non c’era tentativo d’analisi utile con quello a tracimare fuori dal vaso. Non poteva più nasconderlo.
___Era terrorizzato, perché non sapeva cosa fare; teso, per quello che non riusciva a non sentire; e confuso, perché davvero non capiva se si dovesse o volesse fermare. Era cambiato, lui stesso come il mondo attorno. Non riusciva, però, a giudicare se in meglio o in peggio; sapeva solo di non poterlo impedire e di non averne i mezzi: di essere [solo] un uomo.
___Era cresciuto, il piccolo Namikaze.
___«Ragazzo controllato ed equilibrato, Minato-kun, assennato.» Lo avrebbe sancito chiunque, a Konoha. E lo era. Aveva senno Minato, tanto, riuscendo ad assorbire da subito il suo status di “soldo di cacio lontano anni luce dall’esser forte e completo”. Con altrettanta cristallina fermezza, non pareva comunque intenzionato a cedere le armi ancor prima di aver tentato: perché era anche determinato; una determinazione, la sua, che spesso rasentava la sordità del ghiaccio [o la crudeltà del metallo]. E talvolta, con il passo delle stagioni ed i centimetri tra il cielo sopra la testa e la terra sotto i piedi che aumentavano, non bastava la luce bianca del sorriso a coinvolgere l’azzurro distante dei suoi occhi.

[Perché Minato voleva essere perfetto.]___

___Gli anni in Accademia, il praticantato come genin e gli esami per la qualifica a chūnin, però, non mancavano di ricordargli come e quanto fosse ancora lontano da un simile obiettivo. Minato sapeva d’essere ancora debole. Tuttavia, proprio dal momento che lo sapeva, poteva in un certo modo controllarlo: perché sapeva in cosa era fallace e dove migliorare. Sapeva con cosa aveva a che fare.
___Ben conscio d’essere debole, sì, lo era stato sempre. Quanto, però, non sapeva era di essere umano, e umano nell’accezione meno ortodossa del termine; ignorando e volendo spesso ignorare quel rovescio della propria natura. Era di carne, anche lui di carne, sotto le maniche.
___Raspare la terra per scovar radici non è mai cosa gradevole; e le radici, raramente, possono risultar gradevoli. Le sue, comunque, non facevano differenza.
___Era un mocciosetto, un ranocchio di sì e no tredici anni, quando le intravide per la prima volta: quelle radici.
___Nell’afa appiccicosa di un agosto come tanti, uno come tanti altri davvero, Kushina aveva scostato la cascata rossa dei capelli dal collo; nel massaggiarsi una spalla, aveva abbassato un lembo della sua tradizionale casacca; scoperta appena la schiena, aveva anche snudato il volume accennato di una scapola; allora… erano emerse.
___Quelle brutte, sporche radici erano lì. Ed erano sue.
___Niente di così incendiario, per carità. Non si avvicinava nemmeno remotamente ad anche la sola prefazione di archetipi del genere come “Il paradiso della pomiciata” – non che poi, quelli potessero fornire un qualche metro di paragone accettabile, ma… Per l’amor del cielo, era Kushina: “Uzumaki-san!” La conosceva da quando era alta un metro e un barattolo; da che aveva barrito davanti a tutte matricole il traguardo di costituire il primo Hokage con cromosoma XX; da quando, causa quella sua faccia paffuta in congiunzione alla tinta fulva della chioma, avevano preso a canzonarla “pomodoro”, coscienziosamente virato in “habanero” a suon di legnate. Insomma, la conosceva da una vita, eppure… Oh! Non era successo niente di che, per la miseria, e si trattava; si era trattato solo di, di…
___Che cosa patetica… Se il maestro Jiraiya l’avesse mai scoperto – Minato era pronto a scommetterci le braghe –, l’avrebbe preso per i fondelli a vita. A vita, sicuro! Altro che “bambino della profezia” o “Lampo giallo della Foglia”: a voi Minato Namikaze, “maniaco delle ossa”! Allora tanti saluti, perfezione, nomina a Hokage e compagnia bella, e benvenuto, collasso ormonale.
___Radici, eh? Al diavolo!
___E, Dio non voglia, metti caso avesse visto una spalla, una clavicola: che avrebbe fatto? Sarebbe svenuto, lungo disteso, preda di una bella emorragia nasale? Ah beh, davvero molto dignitoso…
___Cavolo e che-, porca miseria, era solo una scapola!

[Solo una scapola, corretto?]___

___Ciò nonostante…

[Solo una scapola, no?]___

___Qualcosa…

[Una scapola qualsiasi?]___

___Aveva, no – era…

[O la sua?]___

Cambiato.

___Minato non era mai stato perfetto; solo lo sembrava. Questo, lui lo sapeva, e bene. Già a otto anni: primo, fra le matricole, già straordinariamente in grado di impastare il chakra sulle piante dei piedi; si scoprì anche soffrire di vertigini, sentendo la terra chiamarlo dalla cima di un albero. A dieci: pur mostrandosi perfettamente padrone di cospicue arti magiche, ebbe anche modo di constatare quanto fosse ancora tristemente indifeso davanti le più mendaci reti illusorie. A dodici: prima missione da jōnin; e gli riuscì di lavar via solo il rosso dalle mani, mentre il tremore si tratteneva. E a diciotto: rimpatrio dai mattatoi dell’Erba campione di una nuova vittoria, ma orfano di un caro allievo.
___Minato era consapevole d’essere tutto, fuorché perfetto. Orrendamente consapevole. Eppure, a sedici anni, si era sentito crollare perché solo lo sapeva; e sapere è un conto, vedere, tutto un altro.
___Comprendersi fragile fu… Beh, non lo aveva preventivato.
___Dovette dar fondo a tutta la sua capacità diplomatica per condurre un simile patteggiamento: riconoscendosi umano. Fastidiosamente e irreparabilmente umano. Umano, pure in quelle brutte radici.
___Ed era lei, che lo faceva sentire umano. Con lei, lui era umano. Con Kushina, Minato poteva e riusciva a esserlo: umano.
___Ben lontano dall’essere perfetto, Namikaze; Uzumaki-san lo sapeva bene. Per lei, infatti, non lo sarebbe stato mai, perfetto; pur stordendosi di fatica nello sforzo. Ma pure non si arrendeva né smetteva di sorridere, tra i tagli e le ossa rotte. E per quello, per i sorrisi e i tagli e le ossa rotte, Kushina ci era cascata: si era innamorata.
___Solo molto dopo, Minato avrebbe compreso come, in realtà, lei fosse riuscita a renderlo non più o meno imperfetto, fragile o umano, ma solo felice; comunque felice di tutto questo.

Felice [di essere umano].

___Mai stato perfetto lui, mai, neanche un po’. In ragione di ciò, Kushina poteva farlo sentire disperato ed euforico allo stesso tempo.
___Per queste ragioni il Minato poco più che sedicenne subì, di là dal canonico trauma anatomico, un aggiunto shock culturale, affrontando la metamorfosi adolescenziale. Ed era ridicolo, terribilmente, come a distanza di oltre un lustro potesse nuovamente trovarsi in un simile stato di panico: impedito e confuso con rinnovata idiozia, come un adolescente in preda alle prime turbe ormonali.
___Come sommo sberleffo, eccolo lì: Yondaime Hokage, Hokage, per la miseria! Eppure… eppure ancora altrove, smarrito, fra le ombre.
___Finì di attraversare la galleria col passo misurato che aveva ormai fatto suo; il rumore dei sandali a cozzare impermeabile sulla pietra per poi, infine, svanire.

[Dentro il palazzo.]___

___Via, tra le pareti.

[Tiravan dentro.]___

___Risucchiato.

[Dal ruolo.]___

___Quindi, di nuovo.

Nulla.

___Si scrollò un poco, aspirando il muco con rumore di spazzolata. E poi: su! Via, via davvero, adesso.

Perché era fuori.

___A salutare luna e stelle.

[A lasciar lacrimare gli occhi.]___

___A respirare l’aria e ottobre.

[Ad annusare l’odore di Konoha.]___

___Ad avvertire il freddo screpolargli le labbra.

[A ridere della gola che bruciava, sotto la maglia a collo alto.]___

___A dar il benvenuto al vento, che apriva il mantello in onde bianche e rosse.

[9][Era di onde e vento.]___

___Con il cuore a batter caldo.

[10][Era in porto.]___

Sotto il cielo che si sgombrava.

 



 




___You still are blind, if you see a winding road
___’Cause there’s always a straight way to the point you see

___Don’t try to live so wise
___Don’t cry ’cause you’re so right
___Don’t dry with fakes or fears
___’Cause you will hate yourself in the end

 
___[Wind, Akeboshi]

[Sei ancora cieco tu, se vedi una strada tortuosa___
Perché c’è sempre una via dritta al punto che fissi___
 
Non cercare di vivere tanto saggiamente___
Non piangere, perché vai bene così___
Non prosciugarti con timori o falsità___
Perché finirai per odiarti, poi]___

Time
[Wind]
 
 
• • •

Angolo dell’autrice:

___Eccoci! (Ci, mi e vi. E pure ti e li, dai.) Un saluto ancora a tutti. (Tutti? Come no, credici!) Qualche precisazione e i doverosi riconoscimenti, se vi va.
___Dunque, il titolo, il titolo prima di tutto: è citazione e becero gioco di parole, insieme. Citazione perché “As Time Goes By” è una canzone, canzone scritta da Herman Hupfeld; per meglio intenderci, è lo stra-famoso tema dell’ancor più famoso vertice del melodramma targato Warner, noto al mondo come “Casablanca”. Insomma, quell’arci-arci-arci-noto “Suonala ancora, Sam” in bianco e nero, se avete presente. Il [Leaves] tra parentesi quadre, invece, gioca sull’ambiguità di detta parola; da leggersi tanto come plurale di leaf, foglia in inglese, quanto come coniugazione dell’infinito to leave, lasciare/partire sempre in british, nella terza persona singolare del tempo presente.
___Va bene, va bene, prima che vi girino per davvero la smetto di far la maestrina (che è cosa sempre graditissima, oh, come no). Per farla breve, il senso del titolo voleva esser qualcosa come “Mentre il tempo lascia, passa”. Bella roba, eh? (Ride.) Pure il continuo pendolo temporale potrebbe (dovrebbe?) riallacciarsi a suddetto motivo; tuttavia sarei una colossale smargiassona nell’intendere che è voluto, giacché è stato perfettamente accidentale, spontaneo forse. È capitato (fa rock climbing sugli specchi).
___Similmente al titolo, anche il doppio sottotitolo, Time e [Wind], si rifà ad altrettanti brani musicali, e nello specifico: “Time”, bel e dolente pezzo di Tom Waits, e “Wind”, brano del gruppo giapponese Akeboshi, di cui ho riportato a inizio e fine capitolo alcuni frammenti con annessa traduzione (traduzione molto, molto alla carlona; mi scuso già ora). Quest’ultimo è stato anche sigla dell’anime “Naruto”, appunto. Fondamentalmente, né “As Time Goes By” né “Time” sono stati coinvolti con lo scopo sotterraneo (quanto una funicolare) d’essere impiegati come eventuale accompagnamento; eccezion fatta per “Wind”. Ecco, quello ci può stare. O meglio: è questo scorfano che, volendo, può sfruttalo per distrarre lo sfortunato lettore da errori, grammatica autarchica, aberrazione sintattica e delirio della punteggiatura.
___Bene! Non dovrei aggiungere altro, credo. Grazie ancora per l’attenzione, la pazienza e il lievissimo masochismo, se arrivati per davvero quaggiù: grazie infinite di e per tutto. Saluti e al prossimo capitolo! Cioè, se volete (messaggio subliminale: vipregovipregoviprego). Ah, scema che non sono altro! Dunque, non so se questa sia la forma corretta, comunque…

___Disclaimer: personaggi, fatti e luoghi citati appartengono a Masashi Kishimoto, cui vanno tutti i diritti circa il loro uso. Non c’è scopo di lucro.


Note:

___[1] L’Ombra del Fuoco: resa in parafrasi del termine Hokage, ossia ho/fuoco e kage/ombra. []
___[2] Yondaime: quarto, per esteso Yondaime Hokage/Quarto Hokage. []
___[3] Izanagi e Izanami: le divinità primordiali della mitologia giapponese, fratello e sorella, padre e madre di tutti gli dèi (Izanacest!). []
___[4] Nindō: credo ninja. []
___[5] Chi dimora in alto […]: ho parafrasato, sì, e ho profanato, anche. Mi cospargo il capo di cenere, altroché, e di antipulci. Comunque, a voi la fonte: Chi tende continuamente “verso l’alto” deve aspettarsi prima o poi d’essere colto dalla vertigine […] è qualcosa di diverso dalla paura di cadere. La vertigine è la voce del vuoto sotto di noi che ci attira, che ci alletta, è il desiderio di cadere […] da “L’insostenibile leggerezza dell’essere” di Milan Kundera. []
___[6] Komainu: spiriti zoomorfi dall’aspetto di cani-leoni, guardiani dei templi shintoisti (A-Un di “Kyōsōgiga”!). []
___[7] Ninken: cani ninja (Pakkun!). []
___[8] Ohayō: buongiorno! Sì, e buonasera, che lo san tutti. []
___[9] Onde e vento: traduzione di Namikaze, ossia nami/onde e kaze/vento. []
___[10] Porto: il nome Minato significa, appunto, porto (in quanti han letto “Sekirei”, in quanti?). []

  
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