Angolo dell’autrice:
___Coff, coff, ohilà! Tanto piacere, sono, beh, la tizia che scrive, ecco. Scusate l’intromissione, solo mi pareva ci stessero bene un poco di anticamera e convenevoli vari. Ehm, piacere ancora, quindi. Fatto. Direi che è andata, alé! Ah, no, momento, momento! Questo non è il mio bicchiere di Batman! Scusate, una parentesi sola per meglio gestire quest’aggeggio, prima di confermarmi una cretina.
___All’avvio, tutto quanto avrebbe dovuto esaurirsi con un sol colpo (uno one-shot, difatti), e così l’ho appunto steso, come un unico corpo organico. Tuttavia, complice la mia congenita ridondanza in qualunque cosa (qualunque!), dalla zucca al foglio, il filo s’è dilatato come una fisarmonica; motivo per cui ho dovuto piegarlo a metà. Per necessità d’ordine umano e pratico. E perché inserirlo così, tutto in una botta, avrebbe fatto saltar in aria il sito e le vostre teste, temo. È che son pedante, bimbi miei, e volevo giusto precisare come, in linea teorica, preferirebbe esser letto, non dico tutto d’un boccone, sia mai; secondo una suggestione continua, possibilmente. Se ci si riesce, eh. Ciò nonostante, credo anche questa distribuzione in due tempi non ne intacchi… l’integrità (?). Nel senso: se è brutto e aggrovigliato, non è certo colpa della divisione (volesse Iddio, sigh!).
___Ah, una dritta: occhio all’inizio, perché di un’astrusità (delirio) senza pari, per cui stuferà (devasterà) sicuramente; ma dopo diventa più scorrevole, davvero. Beh, me lo auguro. Comunque sia, chiedo umilmente perdono: sono rognosa, sì, ma in buona fede.
___Benone, ho concluso, evviva evviva! Per le note più altre precisazioni varie: sta tutto giù a fine capitolo, carissimi. Grazie mille per l’attenzione, la gentilezza e la pazienza. Mille grazie per un’eventuale lettura o anche solo una fulminea sbirciata (ch’è lungherrimo, povero mondo). E mille-mille, cioè, grazie-grazie, perché questo è un affare stranissimissimo.
Grazie ancora e buona lettura.
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As Time
[Leaves]
Goes By
Time
[Wind]
___Don’t try to live so wise
___Don’t cry ’cause you’re so right
___Don’t dry with fakes or fears
___’Cause you will hate yourself in the end
___Take your time, baby, your blood needs slowin’ down
___Breach your soul to reach yourself, before you gloom
___Reflection of fear makes shadows of nothing
___Shadows of nothing
___[“Wind”, Akeboshi]
[Non cercare di vivere tanto saggiamente___
Non piangere, perché vai bene così___
Non prosciugarti con falsità o timori___
Perché finirai per odiarti, poi___
Prenditi del tempo, bimbo, il tuo sangue ha bisogno di rallentare___
Apri una breccia nell’anima per riacciuffarti, prima di scurire___
Il riflesso della paura crea ombre di nulla___
Ombre di nulla]___
___“Che stramberia”, guardando la porta chiusa.
___Che stramberia davvero: lui, lì, solo, e quella porta a star chiusa.
___Corrugò appena la fronte, dando udienza a un nero di già largo per la stanza: vi vedeva dentro tanto bene da non parergli notte inoltrata. Notte inoltrata o giorno incombente.
___Il suo ospite era scuro e taciturno, con una minaccia a masticargli sotto il mantello: sarebbe stato pronto e sarebbe stato capace, avrebbe potuto inghiottire ogni cosa, parola sua!
___Abbassò il capo, via dal fondo della stanza e al legno sotto di sé. Mosse l’indice, piano, grattando con l’unghia. L’aggressione si mostrò stentata, risibile a guardar la mano che l’aveva promossa: a decine, a centinaia e centinaia erano caduti, tutti in un unico istante, sotto il suo rasoio! Così tanto e così terribile neanche un lustro prima: “Non ingaggiare scontro ma fuga, fuga soltanto!” Ora, invece? Ora? Ora la tavola non scricchiolava, ignorandolo e negandosi all’appello.
___Fissò la falange e deglutì.
___Che stramberia: nessun sapore, se non un vago sentore metallico, giù, lungo la gola. Niente sapori, niente rumori, niente colori, niente e niente; se li erano portati via. Ebbe voglia di chiudere un poco gli occhi, solo un poco: chiudere gli occhi e essere altrove, via da tanta ombra.
[La sua, sempre la sua.]___
___Con niente intorno.
[1][L’Ombra del Fuoco.]___
___Con niente di vivo, al di fuori di lui.
[Il Quarto Hokage.]___
___O forse, niente di vivo, lui compreso.
[Minato Namikaze.]___
___Una risata gli corse alla bocca, sabbiosa e bassa. Lui riaprì presto gli occhi, lividi per la veglia coatta ma ancora affilati, vitrei come quelli dei rapaci.
___Aveva riso, per caso? Beh, meno male: allora non era del tutto andato!
___Portò la mano destra al volto, premendo pollice e indice contro il naso, quindi si ricondusse alla tenebra tutt’attorno; di nuovo là in mezzo, da ch’era salito il buio; e di nuovo, riusciva a distinguere con preoccupante abilità superfici e forme. Solo i volumi, i pieni vicino ai vuoti, sfuggivano; come di fronte a una fotografia, una gigantesca stampa o un trompe-l’oeil: dettagliato, verosimile, molto più che realistico, ma falso. Mancava una direzione.
___Allungò la mano sinistra verso quella strana aberrazione ottica, senza volerlo; andava a saggiarne la consistenza per dissipare l’illusione; le dita appena appena tese verso la porta: sembravano chiedere qualcosa.
___Imploravano una concessione.
[Te ne prego, solo un poco.]___
___Una grazia.
[Solo un poco di più.]___
Solo [più] tempo.
___Se non per lui, almeno per loro…
___Nulla, però. Nessuno rispose. Non la porta, non la notte, non il buio.
___Eppure, almeno quella, “quella” chiusa, la vedeva: era lì, di fronte a lui, pochi metri oltre la mano; e comunque gli sfuggiva. La mancava. Restava fermo, in ristagno alla superficie delle cose, senza saper andare oltre. E vederle, averle anche, non bastava. Non pareva bastargli a renderle altrettanto reali. Vive.
___La vedeva e la riconosceva, sì, eppure non c’era; rapita dalla notte e da un domani sotto l’orizzonte.
___Domani? Lo era di già? No, non poteva; non doveva: “Ascolta, ti prego, e aspetta, aspetta ancora un poco, ché oggi è ancora. Stai, ti prego.”
___E rimase quello. Rigoroso, rimase dov’era: “Non parlare a nome d’altri te, tanto più senza procura alcuna. Ma va bene, starò, non ho fretta. Bada e bada bene, però, che quando sarà ora non sentirò ragioni. Non accordo elemosine, solo quanto spetta.”
___Lui ritirò lento le dita, avvertendole gelide nel seno della mano. Più in là, ogni cosa si conservava immobile, fedele al suo signore e ai suoi comandamenti. “Niente elemosine, solo il dovuto”: così aveva parlato e così sarebbe stato. Nume dispotico, il vecchio Crono, perché di padre in figlio vedeva i passi ripetersi e là terminare tutti: nella terra. Sotto la roccia, non in cielo, stavano gli dèi. Così a occidente, così a oriente; e così presso il Fuoco.
___Il silenzio gorgogliò basso intorno al Quarto Hokage: strisciava sotto l’aria e sopra il pavimento, indugiava lungo contorni delle ali sue bianche, odorandone confini e crepe con l’appetito del predatore che ha fiutato la scia di una falla, dentro la santità dell’abnegazione.
___Gorgogliava basso e, compiaciuto, lo canzonava: “Sì, oh sì! Era di carne, ancora di carne sotto la zimarra, l’Hokage!” Nulla sconvolgeva il sommo Yondaime[2], il dio del fulmine sceso in terra. Nulla in grado di scuoterlo veramente o scatenarne i filamenti. Nulla! Nulla! Davvero nulla! Ah!
___Serrò la mascella e, attorno, sentì freddo.
___La sentì fredda, la paura.
[Paura, dico bene?]___
___La paura del buio?
[Lo temi ancora, il buio?]___
___Paura di sparirci, nel buio?
[Temi di avercelo sotto, il buio?]___
___Paura di cadere, da lassù?
[Di avercelo già, dentro?]___
___Paura di perdere?
[Ne hai ancora, Minato-kun?]___
Paura di vivere?
___Di scoprirsi fallibile, inadeguato, sbagliato: umano? Orrendamente, troppo umano, o forse… forse, non abbastanza. Poco convincente e troppo costruito, un calco contraffatto e piatto.
___Poggiò la mano sul piano della scrivania; sulle nocche, l’impotenza che segue la preghiera, e fuori, oltre le finestre, la misericordia della luce a forare il cielo.
___La sagoma notoriamente nobile di chi era [sapeva di essere], a tutti gli effetti [doveva esserlo], colonna portante della Foglia ritagliava una curva insolita contro la campitura della notte: era accartocciata, china, quasi contrita.
[Diavolo, lo Yondaime in supplica? Ah!]___
___Il buio giù a sghignazzar sguaiato, e poi: “Ssst! Silenzio, per cortesia.”
[Non ne hai avuto abbastanza?]___
___Abbastanza del silenzio, del buio, del sonno; abbastanza da voler andare, andare via.
[Coniglio.]___
___La mano sinistra ancora sulla scrivania, dimenticata alla chiacchiera dell’oscurità.
___Hokage, marito, padre ormai: una compagna incinta e con una gravidanza a rischio, e lui a rintanarsi nella sua torre d’avorio. Proprio un bel modello, tanto di ninja quanto di uomo! Aveva una famiglia, una vita intera, vera, là fuori, e lui? E lui se ne stava murato in quel sepolcro di pietra e doveri, quando avrebbe potuto avere tutto…
[Averli con sé.]___
___Una vita normale, come tante.
[Esser presente.]___
___Essere un uomo.
[Esserci sempre.]___
___Prima che uno shinobi.
[Essere lì, non altrove.]___
___Avrebbe potuto averlo, questo.
[Lo voleva davvero.]___
___Ma c’era quell’altra, pure.
La scelta.
___Aveva una volontà e un obbligo, lui: verso la Foglia, verso sua moglie e suo figlio, verso se stesso. C’era il dovere prima, prima affinché potesse seguire un dopo. Era l’ordine, però, a turbarlo.
___Finora, nessuna premonizione lo aveva sfiorato. Dire, poi, non fosse nulla di tanto divinatorio; non occorreva certo scomodare il venerando Gamamaru per intravederlo là, ancora lontano ma ogni giorno un po’ più vicino: un bivio. Due strade, sorelle: avrebbero dovuto confluire, a rigor di logica; ma ben poco spazio ha la logica in famiglia. Così, a strade sorelle, fardelli fratelli, gemelli: bivio e svolta. “Dove vai, mio buon amico?” [Io l’avevo di già.] “Di qua, di là, dove?” [L’avevo fatta già, ti dico.] “Non lo sai dove?” [La mia scelta era qua!] “Se sosti nel dubbio, e ciò che vuoi tu non lo sai, mi spiace, e di cuore: perderai. Di qua o di là? Nel mezzo a forza, ti perderai. Perderai, mio buon amico, ogni cosa.”
___Alle sue spalle e sotto il metallo, i vetri vibrarono lamentosi e si fecero sentire. Il mento viaggiò un poco su: fuori, oltre il diaframma delle finestre, il vento di un autunno incipiente iniziava a ululare. Presa tra verde, terra e aria, la Foglia tremava. Nulla di minaccioso, a ogni modo; non si sarebbe strappata: “La Foglia balla poiché, sotto, arde il Fuoco”, dopotutto.
___Di là dall’epidermide del palazzo e nel cerchio dello studio, invece, non si ballava affatto; giusto si respirava. I lampi comunque non saettavano né parevano poter esser gialli, mentre azzurro e bianco erano amici cari, lontani da tempo.
___Il vento alitava affilato, latore di un lamento basso ma crescente: presto, avrebbe fatto loro visita presto. Il fremito si addossava al vetro con mano cadenzata. Qualcuno bussava, bussava con insistenza: presto, presto…
___L’Hokage inspirò a lungo, catturando quanto più ossigeno per i polmoni: lo pregò dargli forza sufficiente ad alzarsi, a muoversi, ancora. Ma né il vento né il buio cessarono: non v’era clemenza fra i ninja, avrebbe dovuto saperlo. Solo il suo respiro, le sue paure e i suoi demoni; solo, mentre loro, lontano, riposavano addormentati.
___Ebbe uno scatto alla mano, stanco del buio, delle pareti e di quella pendola sulle loro teste; una croce che rifiutava di accettare come reale. Inevitabile.
___Premette il pugno contro lo scrittoio, facendosi forza e carico di quanto quel mantello dispensava. Inspirò ancora, meno profondamente ma con altrettanta decisione. Risolse quindi di alzarsi: doveva muoversi, doveva riprendersi, doveva tornare in sé. Doveva ricordare chi era e cosa voleva: cosa aveva scelto. Ricordarlo sempre, chi era e chi aveva scelto di essere, al di là del Quarto Hokage, del “Lampo giallo” e del grande Minato Namikaze. Al di là di tutto. Tutto, tranne loro. La sua famiglia e la sua casa: quella che respirava assiepata intorno al palazzo [il villaggio] e quella addormentata vicino alle mura [Kushina e Naruto]. Per questo, restare fermo era un lusso che bandiva: alzarsi, alzarsi subito, e svegliarsi, adesso! Andare, senza però scappare: avanzare.
___Aveva paura, sì, ne aveva ancora. E tanta. Ma la paura, spesso bistrattata, può esser un buono stimolo: serve a ricordarci di cosa siamo fatti. Come siamo fatti. Deboli, di cartilagine e vesciche, pronti a lacrimare con troppo poco. In virtù di tante falle, però, lui non non poteva arrendersi: non poteva perché non voleva. E l’ordine, qua, era solido conforto.
___Debole, sì, diverso da quanto creduto, sì, poco più di un ragazzo con troppi pesi e pensieri, ancora sì, ma no, non si sarebbe arreso: aveva tanto da proteggere.
___La poltrona cigolò grave, liberandosi dalla sua servitù giornaliera; lanciò singulti sconnessi e cattivi contro il Quarto Hokage: in malora lui e la sua celebrata silhouette! Poco male, comunque: il suddetto ringraziò cortesemente e alzò i tacchi.
___Faccia a faccia con l’unica porta dell’ambiente, però, si scoprì irrazionalmente ingessato: sul “chi va là!” Del resto, era pur sempre quella porta [era lei, vero?], quella di prima [era lì, vero?], ferma e muta [si sarebbe aperta, vero?].
___Ebbe di che ridere, di sé e di tanta suggestionabilità, non appena lo scatto secco del meccanismo poté assicurargli che: “Sì! Quella era proprio una porta! Una porta autentica e non il frutto di qualche arte illusoria!” Più sereno, ne attraversò l’uscio e richiuse l’anta senza voltarsi. Senza voltarsi, tutto dietro di sé, solo un momento.
[Un momento, presto, un momento.]___
___Si levò un gemito, oltre la sua schiena, e belò: “Aspetta, aspetta!”
[Presto, arriveranno presto.]___
___Solo un istante e solo un rumore: “La prego, aspetti! Ci aspetti!”
[Presto, devi fare presto.]___
___Un ago era riaffiorato tra le scapole, un ago vecchio di due anni.
[Presto. Aspetti! Presto.]___
___Dritto al cuore, dove si urlava il suo nome.
[Sen-… sei.]
___Solo un momento, quel momento… era bastato. Un’unità inconsistente, veloce, perfettamente invisibile e, per questo, letale. Se orientato a dovere, anche un piccolo shuriken è bravo a mozzar vite; e con lui, oh, era stato impeccabile. Lo aveva paralizzato. Le spalle rivolte alla porta e la mente, ai fantasmi.
___La stasi si dilatava, sospesa tra il metallo della maniglia e il pallore della carne. Di qua il ruolo, di là la natura [ma non erano la stessa cosa?]. Di qua il ninja, di là l’uomo [non dovevano essere la stessa cosa?]. Di qua il Quarto Hokage, fermo davanti alla porta, di là Minato Namikaze, chiuso dietro la porta [e non erano la stessa persona?].
___Un suono fine, sottile, come lo è il filo da garrota: probo a strangolare. Alle spalle.
___Però, adesso basta, basta parlare ai fantasmi. Doveva chiuderli lì, in quella stanza, e per quella sera, quella sera almeno. Non poteva portarseli dietro [non adesso], non da loro [non così presto], non da lei… che di maledizioni e mostri ne aveva già conosciuti abbastanza per tre vite intere.
___Strinse la mano in un pugno: mani e piedi, mai che lo stessero a sentire in quelle occasioni. Non c’era verso che tenesse, quando balenava fuori quello, nessuno davvero; per quanto, riuscisse bene a comprenderli.
___Inghiottì un grumo di saliva e riprese a camminare: passi lenti, leggeri, ma stanchi, tanto stanchi… Quelle serpi di ombre, però, non lo volevano proprio abbandonare: erano animali devoti loro. Eppure, lui non parve curarsene. Allungare il passo sarebbe stato ridicolmente inutile, dopotutto: non la semini la tua ombra, no davvero, neanche ad esser il “Lampo giallo” in persona.
___Le tasche della vecchia uniforme da jōnin sapevano dimostrarsi sempre sorprendentemente calde, constatò, riparandoci dentro le mani. Il sangue tornava a fluire e portava via, via dai fantasmi e via dai mostri: era ora di andare.
___Si passò una mano tra i capelli disordinati, per aria; quelli, nobilmente, a infischiarsene della gravità, sparando in tutte le direzioni. Sempre, e comunque: sotto la pioggia, nella calura estiva, dopo una tecnica di dislocazione o un sonno comatoso di dodici ore consecutive.
___Si grattò la zazzera ispida, prendendo un poco quota.
[Di che colore sarebbero stati i suoi, di capelli?]___
___Un paio di brividi gli saltellarono lungo il braccio.
[Rossi oppure biondi, quasi gialli?]___
___Abbassò le palpebre, addolcendo il bel disegno del volto.
[E il colore, il colore degli occhi?]___
___Sorrise, rallentando, rallentando… fermandosi in mezzo al corridoio. Una stilettata di gelo lo fece sussultare, curvandolo un poco verso le finestre. Il piano maggiore del palazzo dell’Hokage era sempre stato prodigo in quanto a panoramiche, tanto di giorno quanto di notte. Sotto c’era la terra e il verde, il legno dell’immenso Hashirama Senju; ma sopra… sopra c’era il regno di Izanagi e Izanami.[3]
[Doveva uscire.]___
___Fermo, ancora immerso nell’oscurità del corridoio, sporcata dall’oceano luminoso di demoni e dèi che bruciavano lontani, sentì spingersi.
[Voleva uscire.]___
___Spingersi via, al cielo e alle stelle: a Konoha.
___Le porte, una a una, in fila, le pareti, gli arazzi, poi le scale, i gradini, il corrimano: andavano, andavano veloci, e lui, tutti, li ignorava tutti. Si scontrò col trittico degli Hokage precedenti, sentendosi lontanamente colpevole, con le mani nel sacco: “Beccato!”
___Il “Dio shinobi” e il suo frassino nero sembravano scrutarlo con disappunto, ammonendogli quella che pareva – ma non voleva esserlo davvero – una ritirata.
___Non stava scappando, no; non voleva né, volendo, avrebbe comunque potuto. Solamente…
___Scosse la testa.
___Lui, no – a lui piaceva essere Hokage. Non che, poi, mancare quella carica avrebbe compromesso il suo attaccamento verso il villaggio: era stato un onore e un privilegio ricevere quel titolo [essere scelto Quarto Hokage del Villaggio della Foglia], perché era quello che aveva sempre sognato [essere Hokage del Villaggio della Foglia]. Quello era, fin da bambino, dai tempi dell’Accademia.
___Essere Hokage era il suo sogno.
___Tuttavia non si trattava solo e unicamente di quello: Hokage e basta. Niente di più, oltre l’ideogramma appuntato sulla schiena. C’era un “di più”. Non voleva diventare Hokage per poi essere rispettato e apprezzato; perché tutti avrebbero dovuto [e dovuto] rendergli quell’onore e gloria che il simbolo del Fuoco esigeva.
___Lui non voleva diventare Hokage: lui voleva essere Hokage.
___Voleva essere valutato, riconosciuto Hokage: voluto come Hokage. Essere apprezzato e rispettato non “in quanto”, “in virtù di” o “perché era” l’Hokage ma, viceversa, essere l’Hokage solo e soltanto perché prima appezzato e rispettato. Prima dello Yondaime e come Minato. Il suo sogno non era diventare, ma essere Hokage. Sia con quel ricamo sul dorso del mantello, sia con il solo coprifronte argentato e la divisa blu china da shinobi.
___Per Minato, l’Hokage non era necessariamente e imprescindibilmente il ninja più forte del villaggio: il migliore. Nella sua testa, a torto o a ragione, l’Hokage era colui che avrebbe sempre protetto il villaggio, sempre e comunque. Poiché essere Hokage significava amare il villaggio. Amare il villaggio prima di tutto e prima di tutti [prima di se stessi].
___Essere Hokage era sempre stato il suo sogno, perché lui amava il villaggio e voleva proteggerlo.
___Perciò pensava che, se l’Hokage faceva [era] queste due cose, beh, non poteva e non avrebbe potuto avere un sogno migliore: perché non voleva nulla di diverso.
___Nel candore dei suoi otto anni scarsi, composto nel banco d’Accademia e i piedi a spolverare il pavimento, Minato sorrideva tranquillo con quella luccicante chimera negli occhi; pienamente convinto che, se mai gli fosse concessa una tale fortuna, non avrebbe davvero desiderato altro.
___Essere Hokage era sempre stato il suo sogno, perché lui amava il villaggio e voleva proteggerlo.
___Ma lo avrebbe fatto comunque e in ogni caso, Hokage o non Hokage; lo avrebbe sempre fatto: perché era la sua natura [il suo nindō].[4]
___Dentro, però, ne germogliava anche un altro, di sogno.
___Per quanto, più che sogno, avrebbe dovuto riclassificarlo come obiettivo, scelta: essere apprezzato e rispettato da tutto il villaggio. Ma questo era qualcosa che, per paradosso, non potevano dargli gli altri; nonostante quello stesso apprezzamento e rispetto dovesse necessariamente provenire da loro. Non era qualcosa che poteva ottenere slegato dalle sue azioni: “Le lodi si ricevono; la stima va guadagnata.” Pertanto, essere apprezzato e rispettato era qualcosa che dipendeva da lui: riaffiorava e curvava negli altri, ma da lui, da lui partiva.
___Eppure, stima o non stima, avrebbe fatto comunque quanto in suo potere per Konoha; sia a impegno riconosciuto, sia a volontà liquidata come religioso servizio al paese. Lui avrebbe sempre protetto la Foglia [perché l’amava].
___Essere Hokage, per Minato, significava sostanzialmente due cose: amare e proteggere il villaggio, riunendo un sogno a una scelta [la fede, alla causa]. Dove il sogno aveva suggerito la scelta, parimenti, la scelta aveva condotto al sogno [e la natura aveva determinato entrambi]. Sicché, essere Hokage pareva identificare [era] sogno e scelta, insieme: perché era quello che voleva [fare] e ciò che desiderava [ricevere]. Il “di più”.
___Proteggere ciò che amava e essere ritenuto degno di fiducia: le due cose erano separate sul piano ma identiche in radice. Tuttavia, la mancanza dell’una – Minato era certo – non avrebbe compromesso l’autenticità e la forza dell’altra: avrebbe sempre protetto la Foglia, sempre, non c’era scampo.
___Perciò, poco più che adolescente e poco meno che adulto, era stato eletto.
___Minato Namikaze, Yondaime Hokage di Konoha.
___Il sogno unificato al desiderio, e lui era completo: perché Hokage, perché appezzato e rispettato da tutto il villaggio, e perché sposato. Arrivato. “Capolinea, signori, si scende.”
___Essere Hokage era sempre stato il suo sogno; essere apprezzato e rispettato da tutto il villaggio era sempre stato il suo desiderio; e poco più che ventenne aveva entrambi.
___E per questo era felice.
[Su, in cima alla ziqqurat.]___
___E per questo era turbato.
[Cadere, ora potrai solo cadere.]___
Ter-… rorizzato?
___C’era dissesto e lui si torturava, interrogandosi su cosa fosse [più] importante: cosa, per l’Hokage, e cosa, per Minato? Una cosa poteva essere, ragionevolmente, più importante dell’altra? Le due cose divergevano anziché confluire, si elidevano piuttosto che completarsi? Prima o poi, l’avrebbero condotto lassù, alla torre: giù uno o giù l’altro? Avrebbero amputato il sogno dal desiderio [il Quarto Hokage, da Minato]? Lo avrebbero [si sarebbe] spezzato?
___Essere Hokage era sempre stato il suo sogno. Poi, però, n’erano emersi altri, sebbene non molti, comunque altri: diversi. In tutto ciò, un cardine perdurava inamovibile: proteggere Konoha, sempre e comunque, a ogni modo e costo, esulando dalla carica. Ma la carica c’era. E lo rendeva immensamente felice, e riconoscente, e onorato, tuttavia… Chi dimora in alto, presto o tardi, deve metterla in conto: la vertigine.[5] Il sotto che chiama e chiama a gran voce il sopra; che attira [dal tetto del mondo, potrai solo cadere] e invita [vorrai cadere, solo cadere].
___In seno, ne serbava anche lui di paura: paura di fallire o sbagliare; perché in quel caso, ogni cosa [sogno e desiderio, testa e stomaco], avrebbe perso ogni cosa.
___Era felice di essere Hokage, sì; però, capitava si sentisse strano, fuori posto, come [preso] sbagliato [in una morsa]. Certe volte, quel copricapo rosso [fuoco], quel saio rosso [sangue], quel palazzo rosso [fuoco] e quell’ideogramma rosso [sangue] si chiudevano a cerchio, a cerchio su ventre e costole: stringevano d’assedio. E restava lui. Lui.
[Il sangue.]___
___Contro.
[Il fuoco.]___
___Loro.
[Il credo.]___
___In nome suo.
Volontà del Fuoco.
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