“Gravity room”
Da bambini si ha una diversa percezione degli spazi e delle cose che sono in casa, un modo distorto e del tutto personale di rapportarsi alle loro dimensioni, col metro della statura e della propria fantasia.
Il salone è grande quanto un campo di calcio ed il corridoio è la pista più adatta e meno pericolosa per imparare ad andare su due ruote.
Nella propria stanzetta esistono angoli remoti ed inesplorati che le fantasie notturne popolano di entità dai profili aguzzi e dai ghigni malvagi.
Quando si diventa alti, gli ambienti si fanno angusti, le stanze assumono contorni più netti, le paure commutano in confidenze.
Trunks aveva da poco compiuto quattro anni ed era un bambino sveglio e vivace.
La sua stanzetta era una camera annessa a quella
della madre, ma la porta comunicante era stata chiusa a chiave già da un bel
pezzo: meglio evitare imbarazzanti invadenze in certi momenti… quando c’era anche
Vegeta insieme a lei nel letto.
Dormiva da solo, alla luce verdeggiante di un abatjour a forma di coccinella che la donna gli lasciava acceso accanto al letto dopo il bacio della buona notte, fin da quando era in fasce.
Aveva familiarità con le ombre dei giocattoli
proiettate sulle pareti dipinte di giallo e, se qualche volta si era soffermato
ad indovinarne la sorgente, era stato solo tra un battito stanco di ciglia ad
un passo dalla sonnolenza.
Dormiva profondamente anche quando fuori, nelle
notti d’inverno, la tormenta imperversava contro i vetri appannati della
finestra.
Poteva stare tranquillo perché il mostro cattivo era
in fondo al corridoio, saldato nel muro con le leghe più irriducibili del ferro
e del carbonio.
Era una porta d’acciaio più grande di tutte le
altre, tetra e sinistra.
A lui pareva alta e massiccia come una montagna.
Al centro aveva per maniglia una manopola a
pressione grande quanto lo sterzo di un’auto.
Non sapeva leggere, ma “gravity room” era
l’incisione che compariva in alto, al di sotto di una fessura di vetro
compatto, larga poco più di un palmo, che affacciava all’interno.
Quando lasciava la sua stanza, gettava un’occhiata
in tralice verso quella direzione e poi sgattaiolava intimorito alla volta del
salone centrale dove non mancava di trovare sua nonna, intenta, a modo suo,
nelle faccende domestiche.
Questa, infatti, agitava il piumino da spolvero con
la stessa grazia della bacchetta di una fata, gli porgeva l’eterno sorriso
senza rughe e gli faceva tante sdolcinature fastidiose, oscillando la gonna
larga e lunga o sfoggiando gli abitini che aveva da ragazza.
I robot costruiti dal nonno accorrevano dalle altre
stanze e lustravano a dovere l’impiantito a scacchi.
Al ritorno, la porta era ancora lì con la sua
scritta indecifrabile che assomigliava ad un sopracciglio aggrottato e a due
occhi spiritati, con la manopola al centro atteggiata in un ululato.
Allora avanzava con flemma rasentando il muro ed
intrecciando un dito tra i capelli.
Magari canticchiava anche un ritornello per sentirsi
meno solo.
Solo qualche volta si faceva coraggio e si fermava
ad osservarla meglio, faccia a faccia, e così da vicino scopriva che non aveva
più il sopracciglio arricciato, gli occhi convulsi e che la bocca era soltanto
una ruota di ferro tirata a lucido e niente altro.
In una mattina d’inverno, di quelle che fanno più
umido e grigio l’asfalto, sua madre lo aveva imbacuccato per bene e lo aveva
portato con sé ai grandi magazzini.
Trunks non sopportava le sciarpe, i guanti, il
berretto di lana e quant’altro lo imbottissero come fosse stato un cuscino.
Nel suo sangue fluiva il calore alieno ereditato dal
principe dei saiyan, il quale aveva combattuto nelle lande glaciali della Terra
e dello spazio col gelo tagliente che si insinuava tra l’armatura ridotta a
brandelli, ma la donna si ostinava a farlo apparire come tutti gli altri comuni
terrestri e lo aveva rimbrottato dicendo che uscire quel giorno con una
maglietta ed un paio di pantaloncini di cotone, come gli sarebbe piaciuto fare,
erano decisamente cose da matti.
Giacché Bulma aveva deciso che quattro passi a piedi
sarebbero stati salutari a dispetto della vita sedentaria che faceva, durante
il tragitto suo figlio aveva sopportato quei fardelli con quel broncio
irriducibile che lo rendeva identico al padre, ed ogni tanto tirava la sciarpa
come fosse stata un cappio al collo e lo sbuffo si condensava in una nuvola di
fumo bianco.
Solo all’interno dei magazzini, complici i
riscaldamenti azionati, lei gli accordò il permesso di togliersi quegli accessori
detestati, insieme al piumino a vento.
Con la raccomandazione di non fare danni, lo lasciò
a giocare nei box con le palline colorate insieme agli altri bambini.
Il bello di avere un figlio speciale come Trunks era
di non soffrire le stesse “patologie” delle mamme terrestri.
Suo figlio non si sarebbe fatto male facilmente né
sarebbe finito tra le grinfie di un malintenzionato, perché, anche se non era
stato ancora addestrato al combattimento, al momento giusto si sarebbe saputo
difendere con l’imposizione efficace di un solo dito.
Era figlio di Vegeta e solo questo bastava ad
infonderle sicurezza.
Era uscita da casa con le intenzioni di fare una
passeggiata senza acquisti e smaltire la delusione per un progetto di lavoro
andato male.
In piena crisi di inventiva, un paio di mesi prima
che il freddo stringesse nella sua morsa la Città dell’Ovest, le era venuta
l’idea di chiedere a Vegeta cosa di innovativo avrebbe potuto realizzare sul
mercato sfruttando la tecnologia che egli adoperava quando era ancora una
“furia scatenata a servizio di Freezer”.
Furono esattamente questi i termini che ella
adoperò, con quella spontaneità e risolutezza di modi che scandivano le sue
movenze ed il suo linguaggio ogni volta che si rivolgeva a lui, fin da quando
lo aveva conosciuto.
Al saiyan non piaceva riesumare il suo passato, ma
visto che questo non era stato propriamente chiamato in causa, l’unica cosa che
gli venne in mente di suggerirle fu quella che pensò in un battito di ciglia,
il tempo giusto per risentire quell’odore di metallo del pianeta di Freezer che
patinava ogni cosa e penetrava fin nelle ossa come fossero state radiazioni.
La vasca di rianimazione era un aggeggio che gli
sarebbe potuto tornare sempre utile.
Bulma ne fu entusiasta, ma oltre una descrizione stringata
delle sue caratteristiche strutturali e funzionali, non ottenne da lui altra
collaborazione.
Poco importava!
Il progetto originale fu realizzato ugualmente ma la
convenzione che sperava di concludere con il servizio sanitario non era andato
in porto per mancanza di fondi.
Quindi, per il momento, all’aria tutto!
C’erano i saldi di stagione ed i reparti
d’abbigliamento erano presi d’assalto.
Non le serviva niente in particolare e nell’armadio
era costretta a pigiare i vestiti per farceli entrare.
Ma non si sarebbe chiamata Bulma Brief se non fosse
uscita da lì, dopo due ore, con almeno quattro buste di rinomate firme tra le
mani.
Le porte automatiche si aprirono al suo passaggio ed
una folata di freddo l’investì in pieno allorché si rammentò del figlio e tornò
di corsa indietro.
L’altoparlante comunicava che un bambino di nome
Trunks era in cerca di sua madre.
Annoiato di scorazzare tra le palline colorate, non
aveva avuto altra scelta che tirare per i pantaloni il vigilante che stazionava
agli ingressi.
La cassiera dell’annuncio allora rivide che a
prelevarlo era la stessa donna che lo aveva dimenticato due settimane prima,
con un altro taglio di cappotto ed un baschetto all’ultima moda che le cadeva
sulla fronte, ma la riconobbe per la stessa fretta con cui lo prese per mano e
se lo tirò indietro senza degnare nessuno di uno sguardo né porgere un grazie,
e allora concluse tra sé che era una madre a dir poco snaturata, oltre che una
donna cafona ed arrogante.
Strada facendo, Trunks si divertiva a saltare le
pozzanghere che si erano raccolte durante la notte.
Bulma camminava con passo spedito, e si faceva
spazio tra i passanti con le borse degli acquisti: una gonnellina di renna
ecologica, una blusa abbinata, delle creme per il corpo dal sapore fruttato, ed
un completino intimo di colore nero.
Quest’ultimo le era piaciuto da morire.
Prorompente com’era, non aveva bisogno di artifizi
di pizzo per essere sensuale, ma nel vederlo addosso ad un manichino, era
arrossita al pensiero di sedurre il suo uomo così poco agghindata.
Vegeta non avrebbe dato segnale di interessamento,
sapeva bene che per lui questi indumenti erano solo un ingombro da strappare
con i denti, ma è anche vero che gli occhi reclamano la loro parte e che, ogni
tanto, non è sbagliato assecondare le fantasie e la propria vanità per sentirsi
più donna.
Tra gli scarichi delle auto accodate nel traffico,
la scia di caffè e di dolci provenienti dai locali, con le insegne ancora
addobbate delle luci del natale da poco trascorso, Trunks aveva sentito
nell’aria odore di caldarroste ed aveva chiesto alla madre di comprarne un
sacchetto.
“Ma solo uno, senza esagerare, e non mangiarle in
fretta che si fermano in gola” gli aveva detto come le altre volte.
Prese degli spiccioli dalla borsetta e le porse al
signore che riscaldava le mani intorno al pentolone rugginoso.
Con le dita inguantate, una delle borse scivolò a
terra e la scatolina trasparente con dentro la lingerie finì sulla strada.
Due giovanotti con la cresta colorata ed il ghigno
poco promettente lo raccolsero da terra:
“Complimenti signora, scommetto che sei uno schianto
con questo addosso!”.
Bulma si fece paonazza, Trunks invece osservava dal
basso e continuava a mandare giù le castagne come se niente fosse.
“Perché non lo indossi e poi facciamo sesso tutti e tre insieme?” fece l’altro
avvicinandosi.
La borsetta finì diritta in faccia con inaudita
potenza.
Bulma strappò la scatola dalle mani dell’amico
rimasto imbambolato:
“Vergognatevi! Vi sedete ancora tra i banchi di
scuola!” e sistemato il cappellino, prese il figlio per la mano e si avviò con
soddisfazione verso casa.
Quando Vegeta uscì dalla stanza gravitazionale
all’ora di pranzo e si diresse in cucina, vide che il televisore a plasma nel
soggiorno era stato lasciato a vociferare da solo e che la fiamma sotto al
brodo di verdure era stata chiusa solo alcuni istanti prima, perché si poteva
sentire ancora il suo ribollire.
Spense il televisore e tutto intorno tacque.
I coniugi Brief vivevano nell’appartamento più
piccolo al piano superiore.
Bulma aveva avuto la sensatezza di staccarsi dai
genitori quando aveva capito che l’invadenza della madre nei confronti di
Vegeta avrebbe messo a serio rischio la sua stabilità familiare.
Prima che il saiyan serrasse una mano intorno al
vispo collo della “suocera”, invadente
e premurosa fino all’esasperazione, coi suoi modi efficaci e diretti, senza
peli sulla lingua, Bulma aveva detto alla madre e al padre che era giunto il
momento di emanciparsi e di vivere da sola con Vegeta e suo figlio.
Trunks aveva bisogno di spazi per giocare e la
“gravity room” non poteva essere traslocata al piano superiore, pertanto
sarebbe toccato a loro vivere in mansarda.
Ma in realtà, la porta di casa continuava a restare
aperta e a Bulma non dispiaceva poi tanto che la madre, su sua indicazione, si
occupasse di preparare da mangiare o badasse al bambino quando lei era
impegnata.
L’importante era che per l’ora di pranzo o di cena,
i momenti cioè in cui il principe si degnava di confondersi tra i comuni
terrestri, ella si dileguasse.
Così finalmente era riuscita a trovare Vegeta più
bendisposto a mangiare a tavola insieme a lei e a suo figlio, come una
normalissima famiglia.
Il saiyan si avvicinò alla porta-finestra e strofinò
la mano sul vetro appannato.
Le pozzanghere nel giardino erano tornate ad
agitarsi alle prime gocce di pioggia.
Vide Bulma e Trunks varcare il cancello e correre
verso casa.
Poco dopo la porta si aprì e l’aria fredda fece
scuotere le tende:
“Giusto in tempo, si prepara un acquazzone, ah… come
si sta bene qui!” esclamò la donna entrando e togliendosi il cappotto.
Posò le buste degli acquisti sul divano e si sistemò
l’acconciatura scompigliata dal cappello.
Vegeta era rimasto vicino alla porta-finestra senza
voltarsi, chiuso nel solito mutismo.
Aveva i piedi ed il torso nudo.
“Trunks ha preso tutto da te, ho dovuto penare per
fargli tenere il giubbotto, beati voi che non avete mai freddo!”.
Il bambino si era disfatto degli ingombri di lana e
saltellava contento con addosso solo gli indumenti intimi di cotone.
“Vai a mettere quelle buste nella mia stanza” ordinò
al figlio “e vieni subito che tra poco si pranza”.
A Trunks piaceva rendersi utile nell’attesa di
rimpinzare lo stomaco, afferrò le borse degli acquisti e corse verso il
corridoio.
Ma quando in fondo si stagliò l’inquietante acciaio
della gravity room, il volto si fece teso, rallentò il passo prima con cautela,
poi accelerò la cadenza e, dopo aver gettato le borse degli acquisti sul letto,
si chiuse la porta della stanza di sua madre alle spalle e, senza voltarsi a
guardare, fece una corsa trafilata e spaventata verso la camera da pranzo.
La madre gli chiese di prendere le posate ed egli
obbedì con uno dei suoi saltelli scattanti.
“Gli fai fare cose da donne” mormorò Vegeta, che
frattanto aveva poggiato i gomiti sul tavolo e si versava del vino rosso fino
all’orlo del bicchiere.
Bulma continuò ad affettare il pane:
“Non si tratta di fargli fare cose da donne, ma
insegnargli che in una casa ognuno deve dare il proprio contributo, e mi
dispiace dirlo, ma tu non sei affatto un bell’esempio”
“Se non ci fossero tua madre ed i tuoi robot, non
sapresti fare granché come casalinga” afferrò alcune fette di pane e se le mise
dalla sua parte.
Bulma si scorciò le maniche ed appuntò i gomiti:
“E’ una questione di organizzazione, tutto fa parte
di un lavoro di squadra!” poi agitò i fianchi e si piegò verso di lui “inoltre
non mi sembra ti manchi niente, il piatto lo hai pronto e servito come sempre,
perciò non lamentarti!”.
Trunks portò le posate e si sedette di fronte al padre.
Vegeta gli procurava la stessa soggezione della
stanza gravitazionale, ed allora si rivolse alla madre, come per rompere il
ghiaccio:
“Mamma, mentre tornavamo a casa, che cosa volevano
dire quei ragazzi quando ti hanno detto che volevano fare… ehm… sesso insieme a
te?”.
Bulma si strozzò con un pezzo di pane e si versò
subito da bere per farlo scendere meglio, colpendosi il petto con la mano.
Il mento di Vegeta, invece, scattò dal piatto degli
antipasti in cui era intento ad ingozzarsi e puntò su di lei due occhi
sgranati.
“Niente tesoro” recuperò contegno “era un modo come
un altro per dire che tua madre è molto bella ed attraente…” ed alzatasi,
ancheggiò maliziosa e si mosse per servire la minestra.
* * *
Trunks si alzò in punta di piedi ed accese i faretti
che illuminavano il corridoio.
Aveva trascorso il pomeriggio a giocare nei
laboratori del nonno.
L’attempato scienziato gli permetteva di fare molte
cose e nella pause del lavoro lo faceva alzare su una sedia per guardare nel
microscopio.
Poi arrivava la madre e, scoprendolo che saltellava
incautamente da un prototipo di navicella a quello dell’air-car da ultimare, lo
rispediva nella sua stanza e rimproverava il padre, non perché il figlio si
facesse male, ma in quanto, per la sua disattenzione, si sarebbe potuto
compromettere l’intero lavoro fino a quel momento svolto.
La gravity room lo fissò da lontano con le sue
sopracciglia aggrottate, gli occhi spiritati e la bocca protesa in un ululato.
Si fece coraggio ed avanzò lentamente verso la sua
camera.
Gli succedeva che le gambe si paralizzavano e per
farle muovere doveva convincersi che quella davanti a lui era soltanto una
stupida porta di ferro.
Ma quel pomeriggio non fu come tutte le altre volte.
Trunks sentì dei rumori provenire proprio da quella
direzione.
Si bloccò e restò con una mano sostenuta al muro e
le orecchie tese per ascoltare meglio.
I rumori tornarono a ripetersi e provenivano proprio
da dietro quella porta.
Il cuore allora gli tumultuò sotto la maglietta.
Atterrito, non riusciva a staccare gli occhi da
quella direzione.
Era come se la porta lo stesse chiamando per nome e
lo avesse fatto cadere in trance come in un incubo.
All’improvviso la fessura di vetro compatto che era
stata costruita sulla porta per guardare al suo interno prese ad irradiare una
luce fortissima.
Trunks lanciò un urlo a squarciagola e corse
piangendo verso il salone.
Lì si scontrò con sua madre e finì per terra.
“Ma che cosa ti è successo?” si era stretto alle sue
gambe e singhiozzava convulsamente.
“C’è un mostro di là… ho visto un mostro!” e lo
diceva battendo i denti.
“I mostri non esistono, almeno non quelli che credi
tu, e certamente non vengono in questa casa”
“Ti dico che c’è, è terribile… ahhhh!”
“Allora andiamo insieme a vedere di cosa si tratta”.
Ma il bambino fu irremovibile.
Bulma si accorse che era veramente spaventato.
Gli diede dell’acqua con lo zucchero, gli asciugò
gli occhi e gli fece soffiare il naso, poi lo convinse ad andare a vedere
insieme, prendendolo per mano.
Lui gliela strinse forte e restò attaccato alla sua
gonna.
“Allora, dov’è questo mostro, che giuro lo ammazzo!
Come si è permesso di spaventare il mio bambino?” si guardò intorno con fare
intimidatorio.
Trunks indicò la stanza gravitazionale con un indice
tremante.
I rumori e le luci erano cessate.
“Ma io non vedo niente” innanzi a lei una porta poco
più grande delle altre ed una pianta innocua sistemata a riempire un angolo.
“C’era eccome… urlava e lanciava dei raggi di
fuoco!”.
Il corpicino fu percosso da un fremito quando sentì
un cigolio dietro la porta.
Bulma si accorse che le stava sbriciolando la mano
tanto gliela teneva stretta.
Il bambino emise un altro urlo quando l’uscio si
aprì all’improvviso automaticamente.
“Smettila, Trunks, calmati!” era in preda ad una
crisi di terrore.
Agitava la testa, singhiozzava senza respiro e
batteva i piedi per terra.
“Non vedi che è soltanto tuo padre?!” gli afferrò la
testa e lo costrinse a guardare in quella direzione.
Allora vide Vegeta avanzare verso di loro.
Sulle spalle teneva gettato un asciugamano di
spugna.
I singulti si attutirono e gli restò solo un viso
rigato dalle lacrime.
Il saiyan posò su di loro uno sguardo interrogativo.
“Hai visto che non è un mostro? E’ soltanto tuo
padre che si stava allenando”.
Trunks aveva sollevato la testa e lo fissava dietro
le lacrime rimaste sospese.
Vegeta sogghignò:
“Forse non ha tutti i torti…” ed andò a chiudersi
nella sua stanza.
Bulma si chinò e gli strinse le spalle:
“Dietro quella porta c’è soltanto una stanza dove
tuo padre si allena, non c’è niente di spaventoso, vuoi venire a vedere?”.
Lui fissava titubante ora la donna ora il pesante
acciaio della stanza gravitazionale.
Alla fine le tornò a stringere la mano e fece un
timido cenno di assenso col capo.
Le luci dei neon illuminarono una stanza circolare
con le pareti di metallo.
Non c’erano mobili, né sedie, né altro, a parte la
consolle di un computer proprio all’ingresso.
Trunks si guardò intorno con un movimento circolare
e l’impiantito lucido a scacchi gli fece girare la testa.
“Un giorno anche tu ti allenerai qui insieme a tuo
padre e diventerai un guerriero fortissimo”
“Ma quando?”
“Non appena sarai un po’ più grande, e non avrai più
paura dei mostri” gli arruffò la testa.
Trunks fu contento di quella prospettiva.
La porta della “gravity room” gli feceva già meno
paura.
* * *
Nel suo soggiorno sulla Terra, Vegeta aveva scoperto
come i terrestri avessero sì, a suo dire, una vita insulsa e banale, ma che
erano stati furbi a renderla vivibile e più interessante con le comodità e gli
agi.
Forse, la sua fortuna era stata quella di essersi
ritrovato in una casa lussuosa dove non mancava niente e molte tecnologie
all’avanguardia nascevano lì prima di finire sul mercato.
E non era solo la stanza gravitazionale e le capsule
spaziali in esclusiva per lui, l’ottimo cibo che non mancava mai nel
frigorifero, la piscina in giardino per rinfrescarsi in estate o i robot di
Bulma che mandavano avanti la casa.
A poco a poco incominciava a conformarsi in tutto
alla vita dei terrestri, a servirsi pure lui delle loro agiatezze.
Nell’ultimo periodo aveva scoperto il beneficio di
un accessorio molto semplice e comune: la vasca idromassaggio che Bulma aveva
nel suo bagno.
Aveva un effetto tonico e rilassante sui muscoli
sfibrati dai quotidiani allenamenti.
Anche quella sera se ne stette a mollo per un bel
pezzo, con gli occhi chiusi ed il capo chinato all’indietro, mentre l’acqua gli
ribolliva intorno alle cicatrici e cancellava ogni tensione, perché gli
allenamenti erano ancora molto duri, dalla mattina alla sera, ogni dannatissimo
giorno.
Per lui Kakaroth non era mai morto.
Il suo nome era un veleno inestinguibile che gli
circolava nel sangue.
Le arterie sarebbero scoppiate se non fossero
incominciate a confluirvi sostanze disintossicanti: Bulma ed il moccioso che
cresceva, a piccole dosi, gli iniettavano un siero che procurava sensazioni
insolitamente positive.
Quando la porta della stanza annessa si aprì,
sollevò soltanto una palpebra e poi la richiuse in una grinza di nuovo
irritata.
Bulma era entrata nella sua camera ma non sembrava
essersi accorta che Vegeta si stava servendo della sua vasca.
Il saiyan non vide i suoi capelli azzurri fare
capolino tra lo stipite e la porta, come faceva sempre quando lo sorprendeva a
rilassarsi furtivamente.
Forse la sbraitata che le aveva fatto l’ultima volta
che lo aveva disturbato era servita a tenerla lontana.
Trunks aveva letteralmente gettato le borse degli
acquisti sul letto.
Bulma fece spazio ai nuovi indumenti nell’armadio.
Non le restavano più molte alternative: o liberarsi
di quelli più vecchi, ma comunque alla moda, o prendere un armadio più capiente
oppure… non fare più spese per i prossimi dieci anni.
Le era rimasta soltanto la lingerie da mettere a
posto.
Ai grandi magazzini non concedevano di misurare gli
accessori intimi.
Sbirciò l’orologio sul comodino.
Visto che mancava più di mezz’ora all’ora di cena,
si sbottonò la camicia e fece cadere giù la gonna.
Dopo qualche minuto la pelle lattescente fu messa in
risalto dal pizzo nero, e sorrise contegnosa come se a vederla fosse
qualcun’altra davanti a lei.
Quando Vegeta aprì la porta del bagno, la sorprese
che esibiva innanzi allo specchio ogni profilo del suo corpo, prima a destra,
poi a sinistra, poi di nuovo dall’altro lato, per assicurarsi che le stesse a
pennello.
Solo quando si voltò per sincerarsi come il perizoma
andasse sul di dietro, vide il saiyan che se ne stava con un braccio sostenuto
allo stipite e col solito piglio imperscrutabile già recuperato.
“Non mi ero accorta che c’eri anche tu” mormorò
imbarazzata, quasi lui non l’avesse mai vista senza vesti.
Vegeta si andò a sedere dall’altro lato del letto,
dove aveva lasciato le scarpe.
“Uffa, non è giusto, mi hai rovinato la sorpresa,
volevo tenerla in serbo per più tardi” era la vera ragione del suo disagio.
“E quale sarebbe?” stringò i lacci senza interesse.
Bulma sorrise.
Non si aspettava altra reazione che quella.
“Allora?” volteggiò su sé stessa “ti piaccio?”.
Vegeta non la guardò neanche, ma le sue dita erano
già sudate e febbricitanti mentre allacciava l’altra scarpa.
Lei alla fine si arrese con le mani sopra i fianchi:
“E’ possibile tu non mi dia mai un po’ di
soddisfazione? Non hai sentito tuo figlio? Ci sono persone che farebbero la
fila per vedermi così”.
Lui si alzò in piedi e le puntò gli occhi diritto in
faccia.
Dietro la caligine di quello sguardo non era facile
indovinarne il pensiero.
Bulma pensò che stesse per dirle qualcosa di molto
offensivo ed invece la linea sottile della bocca si atteggiò ad un tratto in un
sogghigno:
“Io non ho bisogno di mettermi in coda dietro a
nessuno” la tirò per le braccia e la gettò rudemente sul letto.
“Quanta soddisfazione vuoi?” con il ginocchio le
aprì le gambe e si sistemò nel mezzo.
“Sei il solito villano, non era a questo che mi
riferivo, ma va bene lo stesso” sollevò il capo e catturò la sua bocca con
impellenza.
In fondo se lo amava era anche per questa sua
rudezza, a volte così virile ed
elettrizzante.
Il saiyan si era eccitato fin da quando l’aveva
vista.
Ora, questo era l’unico modo che conosceva per mostrarle
compiacenza, non era bravo con le parole, ancor meno con i complimenti.
Era gia pronto a strapparle da dosso quegli
ingombri, quando ella lo fermò con risolutezza:
“Eh… no, Vegeta, non puoi neanche immaginare quanto
abbia speso per questo completo, non puoi continuare a ridurre a brandelli
tutto quello che mi togli da dosso”.
L’uomo fece incombere su di lei uno dei suoi sguardi
più risentiti:
“Possibile tu non sappia sbottonare un reggiseno?”
“Se non stai zitta ti strappo con i denti anche la
pelle” e scattò a lasciare l’impronta dei suoi canini su un’esile spalla.
Ma lei, allungando le braccia, lo respinse ancora:
“Non riesco a credere che il principe dei saiyan non
sia in grado di armeggiare con un piccolo gancetto, anche i ragazzini ci
riescono”.
Eccola Bulma Brief.
Maestra esemplare, sapeva pungolarlo in quello che
aveva di più caro: l’orgoglio.
Non importava che fosse Kakaroth o uno stupido
gancio, quando si tirava in ballo la sua stirpe regale e si mettevano in
discussione le sue capacità, si innescava la solita reazione: digrignava
torvamente ma alla fine accettava la sfida.
La donna sorrise soddisfatta.
Provava una strana ebbrezza nel pensare di essere
l’unica persona in tutto l’universo, senza potenziale combattivo, che ardisse a
sfidare il principe dei saiyan.
Si sedette al centro del letto e gli offrì la linea
sinuosa della sua schiena:
“C’è un piccolo gancio, devi solo sbottonarlo”.
Vegeta allungò le braccia.
Sulla tempia la contrazione di seccatura era
divenuta una ruga più profonda del normale.
Fece come ella gli aveva detto, senza esitazione, e
quando l’elastico dell’indumento scattò all’insù, la strinse da dietro con un
ansito soddisfatto afferrando i suoi seni appesantiti.
Bulma chiuse gli occhi piena di voglia, ma era
ancora presto, voleva divertirsi un altro po’:
“Così è troppo facile, devi riuscire a farlo senza
guardare”
“Mi hai cominciato a stancare” si staccò brusco “se
non la smetti me ne vado!”.
Ma ella si era già sistemata sulle sue gambe, faccia
a faccia, ed aveva riallacciato il reggiseno.
Con la lingua gli andò a lambire un tenero lobo, un
modo tutto suo, semplice ed efficace, per domare quella bestia selvatica che si
era seduta sul suo letto:
“Quante storie” mormorò roca “prima ci riesci, prima
concludiamo”.
Un brivido lo percorse per tutta la schiena, fino a
dove la peluria si infoltiva in prossimità di quella che un tempo era stata la
sua coda.
Vegeta portò le braccia dietro la sua schiena ed
incominciò ad armeggiare con l’indumento.
Non era più facile come la prima volta.
Pareva essersi incastrato.
Che cosa doveva ridursi a fare il principe dei
saiyan?
E tutto per il capriccio di una femmina che aveva
forza solo nella lingua!
Piuttosto glielo avrebbe annodato in gola!
Sul serio non gli riusciva di sganciarlo.
Possibile che il principe dei saiyan davvero non ne
fosse capace?
Doveva riuscirci a costo di scoppiare!
Questi pensieri frullavano in un cervello che non
era già più in grado di connettere.
Innanzi ad una vista annebbiata, quei seni
debordanti oltre i pizzi ed i ricami respiravano ormai con affanno.
Passò la lingua in quel solco profondo da mozzargli
il respiro, mentre le dita combattevano dietro di lei una delle battaglie più
esacerbanti che ricordava di aver fatto negli ultimi tempi, con un nemico che
si chiamava desiderio e l’unico innanzi al quale si arrendeva senza vergogna né
tormento.
Bulma intrecciò le dita tra i suoi capelli.
Il suo corpo era già preda di riflessi
incontrollati.
Senza rendersene conto, il bacino si spingeva contro
la stoffa ruvida dei suoi pantaloni ed il piacere si propagava da lì fino
all’estremità dei piedi.
Il cuore di Vegeta prese la cadenza di una danza
tribale e selvaggia, le arterie pulsavano sangue e gli infiammavano il viso:
“Se non la smetti di toccarmi” fece ansante “non ci
riuscirò mai”.
Lei si morse le labbra, diventate tumide e rosse ed
emise un gemito di disappunto.
Vegeta sogghignò, ma le dita insistevano febbrili:
“Cosa c’è? Non resisti più?”
“Forse non è colpa tua, la chiusura deve essere
difettosa…” senza volere era ritornata a spingere contro di lui.
Al saiyan sembrava di impazzire.
Le dita si indebolirono mentre lei gli slacciava i
pantaloni.
“Sai che ti dico?” mormorò il saiyan “puoi anche
tenertelo se ci tieni tanto, tanto mi prendo lo stesso quello che voglio!” e
con uno scatto la sottomise a lui.
Con un gesto semplice, difatti, spostò la stoffa di
pizzo e con la bocca afferrò uno dei capezzoli.
Bulma si inarcò dal piacere e proruppe:
“No, ti supplico, strappalo pure…”.
Non voleva avere nessun impedimento tra la sua pelle
e quella dell’altro.
Questo piacere valeva molto più di un po’ di trine e
di ricami, il suo calore le avrebbe fatto sentire meno freddo e l’avrebbe
riscaldata.
Vegeta risalì verso la sua bocca e sorrise
vendicativo:
“Come vuoi, ma prima devi soffrire ancora…”.
Un vento gelido intanto scuoteva i rami scarniti
degli arbusti.
Nel buio della sera erano scheletri inquieti che
bussavano ai vetri appannati della finestra, in cerca di riparo.
Il cielo non aveva stelle, ma un chiarore caliginoso
incombeva carico di sorprese.
I primi fiocchi di neve si mescolarono al fango del
giardino e lo tinsero di bianco, imprigionarono le cime ribelli degli alberi ed
ovattarono i rumori cittadini.
Il vento le trasformò in schegge d’argento,
taglienti e penetranti, che piroettavano in vortice alle luci dei lampioni e
piegavano gli ultimi passanti di ritorno alle proprie case.
Fuori fu una delle sere più fredde che la città
dell’Ovest avesse mai registrato, ma in quella stanza invece arse l’inferno.
* * *
Trunks non aveva ancora imparato a leggere.
L’insegna essenziale e severa cesellata sulla porta
della gravity room era solo un insieme di lettere senza ordine, ma da quando la
madre gli aveva mostrato il suo interno, non gli sembravano più due occhi
spiritati sormontati da un paio di sopracciglia corrugate.
L’acciaio non gli faceva più paura, piuttosto era
divenuto uno strano magnete che lo teneva incollato con la testa all’insù.
Suo padre non si era allenato quel giorno nella
stanza, non gli era ancora ben chiaro che tipo di lavoro facesse, a volte lo
vedeva uscire di mattina e ritornare solo alla sera.
Questo pensiero gli suggerì l’idea di avere il tempo
a disposizione per ficcarci il naso dentro, giusto un’occhiata, per osservare
meglio quel posto in cui, un giorno, suo padre avrebbe fatto di lui un vero
guerriero.
Non riusciva a togliersele dalla testa le parole
della madre.
Lo avevano elettrizzato più della neve che la sera
precedente aveva visto scendere da dietro i vetri della sua cameretta.
La porta aveva al centro soltanto una manopola,
quella che a lui da lontano era sempre parsa una bocca spalancata in uno
spaventoso ululato.
Quei giorni ora gli sembravano già lontani.
Che femminuccia che era stato!
Con un piccolo balzo riuscì ad afferrarla.
Non era alla portata di un bambino qualunque.
Per ruotarla dovette adoperare quella forza latente,
di natura aliena, che gli scorreva nel sangue.
Gli bastò stringere solo un po’ di più i denti e
l’uscio si aprì automaticamente.
Quando varcò la stanza i neon si accesero come per
prodigio ed il pannello tornò a chiudersi con un tonfo che lo fece sussultare.
Si guardò intorno trasecolato, camminando fino al
centro della stanza, accecato dal riflesso dell’impiantito lucido a scacchi e
delle pareti di metallo.
Lì si sarebbe allenato insieme a suo padre, il
grande principe dei saiyan, come spesso lo definiva la madre quando gli
raccontava del suo passato.
Quell’uomo scostante e silenzioso gli era divenuto
già più simpatico.
Per la prima volta rifletteva che anche
quell’individuo avrebbe avuto un ruolo nella sua vita, oltre quello di essere
tirato in causa da sua madre tutte le volte che faceva qualche capriccio.
E ci riusciva eccome!
Bastava che la donna lo minacciasse di correre a
chiamare suo padre, che lui diventava un agnellino.
Non ricordava che Vegeta facesse altro per lui oltre
questo.
Adesso, invece, incominciava a credere che erano
vere tutte le storie che sua madre gli aveva raccontato sul suo conto mentre
gli rimboccava le coperte, che per davvero era un principe guerriero giunto
sulla Terra anni addietro.
Doveva essere veramente molto forte, pensò lanciando
un’occhiata circolare alla stanza.
Chissà come riusciva a lanciare quei raggi che aveva
visto balenare il giorno prima dalle fessure della porta.
Si serviva di qualche spada laser o era un trucco
che faceva con le sole mani?
La stanza era completamente sgombra.
Solo in un angolo, una bottiglia di plastica vuota
era stata schiacciata come sotto ad un rullo.
La sua attenzione fu attirata da una piccola
consolle computerizzata, sulla cui schermata compariva un numero a tre cifre
che non avrebbe saputo interpretare.
Un indice tremante e colpevole si mosse verso un
pannello con alcuni bottoni colorati.
In cuor suo capì che si stava rendendo artefice di
un’infrazione che gli sarebbe costata una punizione amara, ma la tentazione di
premerne uno, quello di colore rosso, fu più forte dei richiami della sua
coscienza.
Alla fine lo spinse, ed intorno a sé all’improvviso
calò il buio più profondo.
Quando fece ritorno a casa, entrando dall’ingresso
principale perché le finestre erano ben serrate, lo accolse un odore stimolante
di cioccolato caldo.
Vegeta seguì la scia diritto in cucina.
Sulle spalle la neve che si era portato dalle
montagne in cui era stato ad allenarsi si ridusse ad una macchia umidiccia:
“Ah… guarda che roba!” mormorò quando scoprì il
cioccolato gorgogliare oltre il pentolino e riversarsi sui fornelli come un
fluido fangoso.
Solo una persona poteva combinare un simile disastro
e questa comparve alle sue spalle dopo che lui ebbe chiuso il gas:
“Sei la solita sbadata! Dove sei andata a ficcare
quella testa?” la rampognò spostandosi per farle vedere il pasticcio che
gocciolava pure sul tappetino a terra.
“E’ tutta colpa di Trunks!” si difese
arrabbiatissima “lo avevo preparato per lui, sono andata a cercarlo e non sono
riuscito a trovarlo da nessuna parte!”.
Disse che aveva passato a setaccio la casa ed i
laboratori, che non poteva essere salito sopra dai nonni perché questi avevano
chiuso la porta ed erano usciti due ore prima diretti a quel famoso gala di
beneficenza, lo stesso che due settimane prima aveva spedito pure a lei
l’invito.
Lo aveva rifiutato come ormai disertava gran parte
delle feste mondane, da quando aveva scelto come compagno di vita il solitario
principe dei saiyan.
Non le si addicevano i panni di vedova allegra, e a
portarci Vegeta corrispondeva alla titanica impresa di comandare ad una
montagna di spostarsi.
In più questo gala implicava di trascorrere due
giorni fuori casa e non si sentiva sicura di lasciare suo figlio da solo con il
padre.
La donna non sembrò darsi pensiero del cioccolato
che imbrattava i fornelli ed il tappeto.
Si mosse a strofinare la mano contro i vetri
appannati della finestra che stava poco più in alto del lavello, dopo aver
scostato le tendine con i ricami della frutta e degli ortaggi:
“Non sarà mica fuori a giocare con questo
tempaccio?”.
La neve della sera precedente era degradata a
pioggia nelle prime ore mattutine ed una fanghiglia mista di ghiaccio e di
terriccio ricopriva ora le aiuole ed il ciottolato.
Al risveglio, Trunks era rimasto molto deluso di
quello scenario poiché non c’era neve a sufficienza neanche per raccoglierla in
un pugno, figurarsi per realizzare un pupazzo!
In più quando aveva sentito sua madre dire che era
necessario spalarla almeno dai cancelli, si era dileguato quatto quatto in
punta di piedi.
Bulma strofinò ancora e disegnò sul vetro una
macchia più estesa che allargò il suo campo visivo, ma senza mutarlo giacché il
crepuscolo era prossimo a calare ed i lampioni illuminavano soltanto una
pioggia sottile che tornava a mescolarsi al fango e ad insudiciare di più il suo giardino.
“Ma che fine ha fatto?” mormorò con quel piglio
adirato, che restò tale quando si voltò e scoprì che Vegeta aveva riempito una
tazza col cioccolato rimasto nel pentolino.
“Ti sembra questo il momento? Non pensi che sarebbe
il caso di attivare i tuoi sensi e di darmi una mano a trovare tuo figlio?”
“Rilassati…” la zittì subito col solito cinismo
“dove vuoi che sia finito, sarà qui in casa e magari non te ne sei neanche
accorta distratta come sei” e lasciò la tazza vuota, ancora fumante, accanto al
lavandino.
“Non posso mai contare su di te” grugnì mentre lui
andava via “e adesso mi tocca anche mettermi a pulire!”.
Afferrò uno strofinaccio umido e lo intrise col
detersivo.
Forse aveva ragione Vegeta: si stava preoccupando
per nulla.
Suo figlio non era un bambino qualunque.
Dunque, cosa poteva mai succedergli?
Il saiyan si diresse nella sua stanza.
Prese degli abiti puliti da uno dei cassetti e
ritornò a percorre il corridoio alla volta della stanza di Bulma e della sua
vasca con l’idromassaggio.
Dopo una giornata di estremi allenamenti come quella
vissuta tra montagne ostili ed innevate era il minimo che potesse fare per
trovare un po’ di benessere.
Ma una ruga di inquietudine saettò all’improvviso
sull’ampia fronte.
In effetti non percepiva l’aura di Trunks da nessuna
parte.
Trunks non sapeva combattere ma emanava
quell’energia spirituale con la stessa naturalezza di un soffio d’aria anche
quando era più piccolo.
Se il bambino fosse stato in grado di regolare la
propria aura avrebbe pensato che era stata azzerata di proposito.
Non era in casa ma neanche sulla Terra.
Non era da nessuna parte.
Innanzi a lui si stagliò l’acciaio della stanza
gravitazionale.
Si fermò a tre metri da essa.
Il cuore accelerò di un battito.
Anche per il principe dei saiyan quella porta grigia
assunse le sembianze di un essere mostruoso.
Da dietro la fessura di vetro compatto poteva
scorgere l’aria rossa e rarefatta della gravità attivata.
E non era stato lui ad innescarla.
Gridò il nome di suo figlio con un’inflessione di
rabbia ed una nota di terrore e corse a spalancare la porta.
Il bambino era riverso a terra schiacciato da una
gravità fissa a trecento.
Vegeta si spostò senza avvertirne il peso e dopo
pochi istanti l’aria tornò a rischiararsi.
Bulma, la quale aveva sentito l’urlo, accorse per
vedere cosa era successo.
Si coprì il volto con le mani quando lo vide esanime
a terra e gridò pure lei il nome di suo figlio.
* * *
Sentì solo un sibilo nelle orecchie, come un tappo
improvviso che non gli fece percepire altro che questo, prima di ritrovarsi
schiacciato a terra.
Era come se il soffitto all’improvviso si fosse
abbassato e gli stesse triturando le ossa.
Eppure non era crollato, il pavimento era rimasto
com’era.
Non c’erano detriti né altro, né uno scotimento
della terra che avesse provocato quello, ma una forza sconosciuta e più grande
di una catastrofe naturale lo teneva inchiodato senza tregua.
Trunks provò ad urlare.
Per la prima volta non cercò la madre, cosciente che
ella non poteva niente contro quello che gli stava succedendo.
Sulle labbra il nome di suo padre fu solo un
sussurro impercettibile.
Provò a concentrarsi, a ritrovare quella forza
latente che qualche volta si accorgeva di possedere.
Quello sforzo gli fece allungare soltanto un
braccio, ma quel bottone che aveva schiacciato era troppo più in alto di lui.
Quando Vegeta e Bulma lo trovarono era rimasto
immobile in quella stessa posizione.
Un rigurgito di sangue imbrattava il pavimento su
cui giaceva.
Lì la madre si gettò in ginocchio e con due dita
tremanti ed esitanti sentì la sua giugulare pulsare:
“Come… come… può essere accaduta… una cosa simile?”
uscì dalle sue labbra un mormorio sconnesso.
Quando gli occhi struggenti si alzarono verso
Vegeta, vide che era rimasto inerte, ma l’espressione vibrava di quella
medesima angoscia ed impotenza che anni indietro aveva avuto per quello stesso
figlio, trafitto a morte e crollato su una terra riarsa e desolata dietro di
lui.
Ora anche Bulma, per la prima volta, fu testimone di
quella fragilità rara ed incredibile, di quel piglio sconvolto e tremebondo, ma
meno sorprendente di quanto fu allora per quegli astanti nel deserto, perché
ella aveva sempre avuto coscienza, come Re Kaioh fin dalla prima venuta del
saiyan sulla Terra, che dietro quell’armatura, oltre i suoi silenzi, il suo
distacco, il suo autocontrollo ci fosse qualcosa di umano e di buono.
Bulma sapeva che non sarebbe potuto restare
indifferente:
“Dobbiamo muoverci!” proruppe la donna “dobbiamo
portarlo in ospedale!”.
Quell’imperativo lo riportò al presente con una
scossa che gli percorse tutte le membra e sboccò in un ansito strozzato:
“Sei impazzita?! Che speranze avrebbe ?! Occorre un
rimedio più efficace e sbrigativo!".
Bulma non capiva a cosa si stesse riferendo.
Cosa altro potevano fare in quel momento per salvare
la vita al loro figlio?
Trovare forse le sfere del drago e chiedere a
Shenron di non farlo morire?
“Dannazione! Le costruisci e neanche più le
ricordi?!” vociò “sto parlando della vasca di rianimazione!”.
Bulma sgranò gli occhi e scosse la testa.
I capelli si appiccicarono alle lacrime:
“Ma la macchina non è stata mai collaudata, non ci
ho messo più le mani”
“E allora cosa stai aspettando? Muoviti! Corri!
Penserò io a portarlo nei laboratori! Quella vasca ha salvato me e Kakaroth,
salverà anche lui…”.
* * *
Sentì le sue ossa scricchiolare quando lo alzò da
terra.
Quel rumore lo avvisò che c’era bisogno di più
accortezza, che era fragile come cocci di ceramica appena messi insieme.
Era veramente mal ridotto.
Il volto era contratto in una smorfia di patimento
atroce, la bocca ridotta ad una piega esangue non aveva più contorni.
Forse era un bene che avesse perso i sensi, che non
potesse urlare la sua sofferenza, sentire il freddo del trapasso sfiorato per
un pelo.
Il computer che segnava la gravità fissa a trecento
rendeva l’idea di cosa avesse dovuto sopportare.
Se non era morto era solo perché in quel corpo
scorreva il suo stesso sangue.
Vegeta rabbrividì impercettibilmente.
Era come se intorno aleggiasse ancora lo spettro
freddo della morte, che non si fosse dileguato del tutto, che attendesse
nascosto dietro l’angolo l’attimo propizio.
Non pensava avrebbe potuto provare di nuovo quella
sensazione spiazzante come fu allora nel deserto innanzi a Cell.
Era lo stesso figlio, ma questo ancora un bambino.
Non era in quella stanza per combattere, non era
venuto per assicurare un futuro migliore a nessuno.
Era lì soltanto per un fatale errore.
Con quale nemico avrebbe potuto sfogare la sua
rabbia?
Con Bulma perché non aveva vigilato abbastanza?
O con sé stesso, che aveva trascorso l’intera
giornata fuori e comunque anche in casa, così casuali erano le attenzioni che
gli riservava, che forse sarebbe successo ugualmente?
Quando Bulma lo vide arrivare, il suo incedere era
lento e cauto.
Trunks giaceva tra le sue braccia con la testa
all’indietro ed un braccio pendente staccato dal resto del corpo.
Si concesse un istante per fotografare mentalmente
quell’immagine, macabra eppure preziosa, ed inserirla tra i ricordi rari di suo
figlio tra le braccia paterne.
La prima volta era accaduto dopo un po’ di tempo dal
torneo di Cell, quando Vegeta si era piantato stabilmente presso casa sua e lei
lo aveva accolto tra le sue lenzuola con qualche speranza in più.
Gli aveva chiesto di togliere Trunks dalla culla e
di farlo scendere a terra.
Lei stava seduta sul ciglio del letto e si infilava
un paio di calze.
Vegeta lo afferrato non senza imbarazzo, tenendolo a
distanza come fosse stato un sacchetto di rifiuti maleodorante fino a quando
non lo aveva posato sulla moquette.
Aveva riso a lungo in quell’occasione, fino a
gettarsi all’indietro sul materasso e a stringersi la pancia, costringendolo ad
uscire dalla stanza e a sbatterle la porta in faccia rabbiosamente: era così
maldestro con il bambino e… spaventato.
Da cosa poi?
Che potesse affezionarsi a lui?
Che potesse provare quella stessa cosa che aveva
sentito per l’altro figlio?
Che non fosse abbastanza degno per il principe dei
saiyan provare dei sentimenti per un bambino?
Ora, a distanza di qualche anno da quella volta,
Bulma pensò che se queste erano le occasioni rare perché Vegeta potesse
stringerlo di più a sé, era meglio che continuasse ad essergli distante come aveva
sempre fatto.
Si scorciò le maniche e tornò a digitare la tastiera
del computer.
Sul viso rigato dalle lacrime ormai asciutte pesava
l’apprensione di non riuscire ad azionare il macchinario.
Se almeno fosse stato presente suo padre…
A volte la sorte si accaniva per bene: proprio
quella sera doveva andarsene via!
Lo scienziato non aveva partecipato alla
realizzazione, ma due ingegni messi insieme funzionano sempre meglio di uno.
Vegeta osservava il suo viso in tensione, i suoi
occhi che non si staccavano dalla schermata.
Non poteva esserle di aiuto, ma aveva fiducia in
lei, e la sua voce non ebbe del tutto un’ inflessione di rimprovero quando le
disse:
“Avanti, Bulma, hai fatto cose più difficili!”.
La vasca di rianimazione si accese tra il brusio
sonoro e luminoso dei tasti ed incominciò a caricare acqua:
“Ci siamo!” esclamò la scienziata saltando dalla
sedia.
Vegeta strappò gli abiti del bambino con una
temerità che fece impallidire Bulma e lo calò nudo nella vasca.
Due elettrodi vennero collegati alla tempia, altri
due sulla schiena ed il tubo respiratorio alla bocca.
Bulma lo fissò accarezzando il vetro, come se questo
gesto potesse trasmettersi attraverso l’acqua
ed arrivare fino a suo figlio:
“Non riesco ancora a capire come sia potuto
succedere” aveva sempre creduto che Trunks fosse invulnerabile, che non gli
sarebbe mai potuto succedere nulla di grave perché aveva la stessa fibra di
Vegeta.
Ed invece aveva rischiato di morire in casa, a pochi
metri da lei, lì dove sarebbe dovuto essere più al sicuro.
“Per quale motivo è andato là dentro?! Che interesse
poteva mai avere?!” sbottò il saiyan.
Bulma allora ricordò della sera prima:
“Era spaventato, per tranquillizzarlo l’ho fatto
entrare, gli ho detto che un giorno si sarebbe allenato lì insieme a te…”
“E non gli hai spiegato a cosa veramente servisse
quella stanza?! Che non doveva mai entrarci da solo?!”.
Bulma si morse le unghie, le tormentò almeno quanto
il suo sguardo, che vagava irrequieto da un punto all’altro del pavimento,
senza il coraggio di alzarsi proprio sul suo interlocutore.
Fu quella la sua risposta.
“Dannazione! Come hai potuto commettere una
leggerezza simile?!"
“Come potevo prevedere che Trunks restasse
affascinato da quella stanza tanto da decidere di entrarci di nascosto?!” si
difese prontamente “la colpa è tua perché te ne sei andato, se ti fossi
allenato lì come fai tutti i giorni forse non sarebbe successo!”.
“Questa poi…” scrollò la testa e le diede le spalle,
di nuovo chiuso nel solito gesto delle braccia conserte.
Avrebbero potuto recriminare all’infinito,
gettandosi le colpe l’uno sull’altra.
Non aveva senso, la vita ha una molteplicità di
combinazioni, qualcuna giusta qualcun’altra meno, ed i bambini si inseriscono
tra esse e le sconvolgono ancora di più con il loro essere imprevedibili e
vivaci.
Lo capirono entrambi.
“Munirò la stanza gravitazionale di un codice
d’accesso, lo conosceremo solo noi due” le sentì dire.
Vegeta osservò la vasca di rianimazione.
L’idea gli parve buona.
Sperò solo che restasse in vita la ragione per cui metterla in pratica.
* * *
Vegeta osservò l’orologio appeso alla parete:
mancava un quarto alle undici.
Era da quasi cinque ore che Trunks era immerso nella
vasca di rianimazione.
Sarebbe dovuto restare così per tutta la notte
perché la macchina non era stata sufficientemente potenziata per ridurre il
lavoro in poche ore.
Il silenzio era interrotto dal suono intermittente
dell’elettrocardiogramma, lento e ripetuto, dall’acquazzone che imperversava
fuori e batteva contro i vetri senza sosta.
Se ne stava seduto su una panca di ferro, con una
gamba piegata verso il petto e la schiena poggiata contro un muro grigio e
asettico.
Non c’era ragione che aspettasse sveglio per tutta
la notte, la vasca avrebbe da sola concluso il suo processo.
Tra un po’ se ne sarebbe ritornato nella sua stanza,
e anche se sapeva che non avrebbe chiuso occhio, si sarebbe disteso sul letto
senza togliersi le scarpe.
Accanto a Trunks bastava Bulma.
L’attesa era fatta per le donne, non per gli uomini,
e meno che mai per il principe dei saiyan, pensò.
Riconobbe i passi di lei da dietro l’uscio
automatico.
Si era messa sulle spalle uno scialle di lana
azzurro, quello che metteva sempre quando aveva freddo, ed avanzò con un
vassoio tra le mani: due tazze di the bollente ed un piatto di biscotti.
Quando un tuono rintronò più forte degli altri mancò
poco che non lo riversasse a terra.
Lo posò su una cassa di attrezzi che stava vicino a
lui e si sedette anche lei sulla panca, stringendo tra le mani la sua tazza di
the fumante.
La sentì centellinare e corroborarsi ad ogni sorso
che mandava giù.
Il suo the ed i biscotti restarono invece sul
vassoio.
Non aveva fame.
In quel laboratorio c’era lo stesso aroma metallico
che si respirava negli alloggi di Freezer, quello che impregnava la capsula a
bordo della quale aveva scorazzato di galassia in galassia a sterminare popoli
e a mercanteggiare pianeti.
Forse era questo tanfo sotterrato nei suoi ricordi
ad avergli tolto l’appetito, unitamente alla preoccupazione per tutto quello
che era successo.
Incredibile come un odore potesse richiamare alla
memoria una vita perduta.
“Pensi che questa vasca sia veramente efficace?”
mormorò lei piano, rigirando ancora tra le mani la tazza vuota, per catturare
avidamente l’ultimo calore.
Vegeta aveva fiducia nelle potenzialità di
quell’apparecchio.
Dopo il combattimento con Kakaroth, la prima volta
che era giunto sulla Terra, si era rimesso in piedi solo dopo essere uscito da
quella vasca.
Anche l’altro ne aveva fatto un buon uso su Namecc.
Non diversamente doveva essere per Trunks, che nella
stanza gravitazionale aveva combattuto una battaglia altrettanto ardua.
“Se non dovesse funzionare…” disse grave “farai
quello che hai fatto tutte le altre volte…”.
Bulma sgranò gli occhi, ma non li spostò dalla tazza
su cui erano concentrati.
Non voleva ricorrere alle sfere del drago, Trunks
non doveva morire.
Non intendeva versare lacrime sul suo cadavere, non
così presto, perché la madre di un saiyan sa che questo potrebbe prima o poi
succedere.
Inghiottì il nodo che le salì alla gola: non aveva
voglia di piangere davanti a lui.
Quando Vegeta tornò a guardare l’orologio era
trascorsa un’altra mezz’ora.
Bulma non aveva detto più nulla.
Non c’era più niente da dire o da fare se non
aspettare.
Teneva la testa abbassata da un pezzo e respirava
profondamente.
Ad un certo punto
la donna si piegò su di un fianco e cadde con la testa sulla sua spalla.
Vegeta non la strinse a sé, ma non la spostò e
neanche le disse di svegliarsi.
L’odore di metallo e di Freezer scomparvero: il
profumo dei suoi capelli sotto il naso fu come una boccata d’aria fresca.
* * *
Dalla vetrata rettangolare proveniva la luce
azzurrastra di un’alba ormai vicina.
Aveva smesso di piovere.
Qualche goccia cadeva dalle grondaie attraverso i canali e produceva un
ticchettio metallico.
Vegeta spalancò gli occhi senza preavviso e trovò a
sovrastarlo un soffitto diverso da quello di ogni mattino.
Durante il sonno, sopravvenuto a quello di Bulma, la
schiena era scivolata lungo la panca.
Quando si mosse vide che una chioma color del cielo
stava sparpagliata sul suo petto.
La donna si strinse di più a lui, alla ricerca di
altro calore.
Lo scialle che teneva sullo spalle era scivolato a
terra durante la notte.
Vegeta le afferrò le spalle rudemente e la scosse
senza pensarci due volte:
“Bulma, svegliati!”.
Mentre lei tentava di raddrizzare la schiena
indolenzita e di far mente locale, lui era già corso verso la vasca di
rianimazione.
“Il processo è terminato” gli sentì dire.
Bulma scattò e lo raggiunse.
Il computer indicava che i valori di Trunks erano
rientrati nella norma:
“Siiiiiii!” esclamò lei allungando le braccia, come
aveva fatto tutte le volte che la Terra era stata salvata ed il nemico di turno
battuto.
Suo figlio era finalmente fuori pericolo.
Quando l’acqua si fu ritirata, raccolse il suo corpo
in un telo di spugna.
Trunks aprì gli occhi confuso.
Non ricordava perché avesse dovuto fare un bagno,
come non riusciva a capire per quale ragione sua madre stesse piangendo mentre
lo asciugava e lo stringeva forte al petto.
Poi ricordò di essere entrato in quella stanza con
le pareti di metallo, di aver spinto un bottone e di non essere andato via con
i suoi piedi.
Spostò lo sguardo: c’era anche suo padre lì vicino.
Non ebbe il tempo di scorgere quell’espressione
distesa che sciolse il suo volto né quella specie di piega ai lati della bocca,
che pareva un sorriso.
Quegli occhi lo tornarono subito a fissare con una
severità anche più intensa delle altre volte:
“Si può sapere che ti è saltato in mente di fare?!
Ti rendi conto che potevi rimetterci la pelle?!”.
Bulma lo strinse di più a sé:
“Non mi sembra questo il momento per fargli una
paternale” disse con molta comprensione, sminuendo l’autorità dell’altro
“l’importante è che tutto sia finito, ora deve solo pensare a riprendersi, e
non dimenticare che è un bambino… ”.
Detto questo, guardò suo figlio con tutt’altro
piglio ed appuntò i gomiti:
“Tuo padre ha perfettamente ragione!” gli urlò
contro “farebbe proprio bene se te le suonasse di santa ragione, ti rendi conto
che sofferenza ho dovuto patire per la sciocchezza che hai commesso?! Non devi
mai più entrare in quella stanza da solo! Sei troppo piccolo! Sono stata
chiara?!”.
Vegeta, allibito per quel cambio improvviso di
posizione, alla fine di quello sfogo, la vide scoppiare a piangere e gettarsi a
stringerlo più forte di prima.
FINE