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Autore: Manuele Pacifici    27/02/2012    0 recensioni
Una grande città, qualche imprevisto di troppo.
Poi...
Un imprevisto di troppo in questa grande città.
Genere: Commedia, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ore 7:50.
Soliti 20 minuti di ritardo.
Getto il borsone della palestra sul sedile posteriore e salgo in macchina.
Giro la chiave.
Nessuna luce illumina il quadro.
Riprovo. Niente.
Sbuffo. Guardo fuori.
“Calma…”
La situazione è critica ma… “calma…”
Esco dall’auto, prendo il borsone più pesante della storia e vado.
Ore 8:00.
Fermata bus.
Non ho la più pallida idea di quanto ci metterò.
Previsioni arrivo in ufficio: 1 ora (fondate su niente).
Ore 8:05.
Arriva il bus.
“Che culo!”.
Si aprono le porte.
Groviglio di mani, teste e gambe.
“Devi provare”
M’immergo in una marmellata umana che bestemmia.
Le porte si chiudono.
“Aia!”
Le porte si sono chiuse su una mano.
Lascio la presa e “addio borsone”.
L’autobus sembra camminare senza grossi intoppi.
Previsioni: 45 minuti.
Ore 8:15.
Grosso intoppo.
Previsioni: 1 ora e ¼.
Ore 8:25.
Previsioni: 2 ore.
Varie imprecazioni assortite in raccoglimento silenzioso.
Ore: 8:40.
Un signore molto gentile, in giacca e cravatta esclama: “Biglietto, prego…”
“Eh già: bisognava fare il biglietto.
“Va bene: ecco il documento”.
Già… ma il portafoglio?
“Un attimo, mi scusi…”
Bastano pochi istanti per giungere alla conclusione che m’hanno scippato.
Ore 8:45.
Ho fatto pena al controllore il quale mi ha, gentilmente fatto scendere.
“Si, vabbè, ma adesso?
“Porca Eva! Dove cavolo sono?
“Stavo andando verso l’ufficio, possibile che io non abbia mai fatto caso a questo posto?
“Che faccio?
“Potrei aspettare un altro auto”.
Ore 8:50.
Previsioni: è già tanto se arrivo.
Mi si ferma accanto un tipetto in scooter dall’aria simpatica, con un bomberino e stretti jeans dentro gli anfibi. Si offre di darmi uno strappo.
Accetto volentieri.
“…e poi parlano così male dei giovani d’oggi…”
Mentre andiamo mi fa un mucchio di domande. Tipo: dove lavoro, cosa penso del nostro paese, se sono sposato, se ho dei figli.
Ad un certo punto mi tira sù una filippica sui veri valori, sulla necessità di più ordine, di un nuovo ordine, sul bisogno di educare i nostri figli alla disciplina, all’orgoglio, alla difesa delle nostre tradizioni, della nostra religione.
Poi si ferma dentro il cortile di un palazzo dove ci sono un sacco di ragazzi vestiti come lui.
Cacciano fuori i coltelli e mi ordinano di dargli tutto quello che ho. Cioè l’orologio e una catenina.
“Serviranno alla causa di tutti!”
“Almeno potevi darmi uno strappo…”
La battuta non piace.
In breve mi gonfiano e mi gettano fuori dal cortile.

Ora: non precisata, ma siamo verso il tramonto.
Il sole si fa basso sul mare.
“Mica male sto spettacolo…
“Inutile chiedermi come io sia giunto qui.
“Com’è evidente, non sono più andato al lavoro.
“Ho gironzolato un po’.
“In fin dei conti non avevo mai visto Roma così, non avevo mai visto Roma nelle ore e nei giorni di lavoro, non avevo mai visto questa Roma.
“Si, certo, nel frattempo sono riusciti a fregarmi anche la giacca.
“La cravatta l’ho regalata e stranamente nessuno m’ha chiesto le scarpe”
“Bello il mare, eh?”, una voce molto roca, certamente non mia, interrompe il flusso di questi illuminanti pensieri.
Un tizio brutto e sporco è seduto accanto a me da non so quanto.
E’ chiaramente un barbone.
“Scommetto che vuole le scarpe…”
Lui mi guarda inespressivo.
O meglio: mi guarda una maschera di pelle callosa. Solo dagli occhi giungono cenni di vita.
Poi favela: “Siamo nervosi?”
“Te che dici?” e gli mostro le tasche vuote e i lividi.
“Giornata storta…”
“Già…”
“Ti capita spesso?”
“Così storta è la prima volta.”
“…mmm…”, passa qualche secondo di silenzio,“Beh, a volte certe giornate nere racchiudono preziosi insegnamenti…”
“Ecco: mi ci mancava pure un fottuto barbone filosofo…”
“Ti senti tanto migliore di me?” replica lui.
“Beh, peggiore è difficile”
“E che cosa ti fa sentire tanto migliore?”
Lo guardo.
Che personaggio insolito.
All’improvviso un barbone diventa un distinto signore di una certa età che chiacchiera su una panchina dell’esistenza.
Non hanno più importanza gli stracci che indossa o il tanfo d’immondizia che emana.
“Hai ragione: non sono migliore di te.
“Neanche ti conosco…
“Ma sai: oggi è così difficile valutare le cose…”
Lui:“Non lo è per nessuno, facile.”
“Sono stato vittima di un pregiudizio, forse ti ho giudicato male.”
“Forse…”
“Beh, ma allora… insomma, cosa devo pensare di te?”
“Devi per forza pensare qualcosa?”
“Beh, vorrei evitare di avere altri guai…”
Lui:“E’ importante sapere quello che si vuole. Personalmente non ci sono mai riuscito.”
Porca Eva! Le sue parole mi colpiscono, la sua voce m’ipnotizza. Mi sento come un allievo innamorato del proprio professore, un ragazzo avido d’esperienze e di sapere.
“Io mi chiamo Manuele, e tu?”, chiedo.
“Io no…”, rimane serio per un secondo, poi la maschera si corruccia tutta e scoppia in una risata grassa, profonda, spontanea.
Mi si apre un sorriso.
“…divertente…” faccio, un po’ ironico.
“…scusami…” fa lui divertito, “mi chiamo Tecraso.”
“…mmm… sembra un nome greco, ma non l’ho mai sentito…”
“E’ un nome che mi sono dato, un po’ per dimenticare chi ero, cos’ero…”
“E l’hai dimenticato?”
“No, ma è lontano ed ora ricordo con distacco.”
Io: “E’ una storia triste?”
“Forse per te lo sarebbe. Per me, ieri avevo gli occhi chiusi, oggi sono contento di pensarla come la penso, prima non avevo il grado di consapevolezza che ho oggi. Sono felice di essere cambiato e quello che mi è successo lo vedo come qualcosa che è stato necessario.”
“E non hai dubbi di sbagliare?”
“Certamente, ma vedi: io credo che nessuno di noi debba mai essere troppo convinto di se stesso.
“Per me non è mai debolezza non essere mai sicuri di se stessi.
“L’unica cosa che so è di non sapere.”
Io: “Questa l’ho già sentita…”
“Tu sembri abbastanza recettivo, ma, come dire, forse sei troppo legato al comune modo di pensare.”
“Si, tu mi sembri di un altro mondo…”
“E forse lo sono. Nel senso che questo mondo non mi appartiene, che è fuori dalla mia logica”

Non so dire quanto tempo stemmo lì.
Per conto mio, ero completamente rapito.
Difficile capire cosa stesse succedendo, ma era qualcosa di molto forte.
Era molto tardi, forse qualcuno si stava preoccupando per me, era il caso di fare ritorno.
Abbracciai Tecraso, lo salutai con deferenza, ammirazione. Gli chiesi dove potessi rivederlo. Pronunciò il nome di una piazza. Ci congedammo.
Feci qualche passo, poi una mano mi picchiettò su una spalla.
Mi voltai. “Tecraso! Dimmi…”
Il suo volto era molto serio.
Qualcosa mi punse la pancia.
Abbassai lo sguardo.
Mi stava puntando un coltello.
“Le scarpe…”
  
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