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Autore: teabox    28/02/2012    10 recensioni
Se qualcuno glielo avesse chiesto, Molly Hooper avrebbe risposto che si considerava una persona normale. Nella media. Assolutamente non stravagante. Senza nulla, nella sua vita, che potesse definirsi eccentrico.
Poi si ricordava di Sherlock Holmes e delle situazioni assurde in cui finiva per colpa sua.
E cambiava idea.
Genere: Generale, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Molly Hooper, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nota: scusate, non voglio fare quella che scrive note chilometriche. Ci sono, però, un paio di cose che vorrei dirvi, a maniera di introduzione.
Quando ho iniziato a scrivere questa storia, l’idea era di cercare di dedicare più attenzione al punto di vista di Sherlock. Lo stile - credo - si è adattato in qualche modo di conseguenza.
Poi. La solita questione. IC? Spero di sì o, almeno, che tutto sia abbastanza IC. E spero davvero di non aver fatto casini colossali.
Finito. Grazie mille se vi fermate a leggere e, più in generale, per la gentilezza che dimostrate.

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Un problema di caffè

Un giorno, forse, avrebbe capito.
Un giorno, forse, Sherlock si sarebbe svegliato e non solo i grandi estremi dei sentimenti gli sarebbero stati del tutto chiari, ma anche le mille sfumature tra di essi.
In quel momento, però, ancora gli sfuggivano. E non solo un po’. Praticamente del tutto.

Sedeva in una delle poltrone vicino alla finestra, le gambe incrociate e le dita puntellate sotto il mento, l’aria di chi sta cercando di decidere del destino del mondo. O meglio, in scala più ridotta, del destino di un paio di persone. Forse tre.
«John. Cellulare.»
John, seduto davanti al suo portatile, alzò gli occhi al cielo. Sbuffò. Spostò la sedia il più rumorosamente possibile, quindi portò il telefono a Sherlock. «E il tuo?»
«E’ altrove.»
«Fammi indovinare», replicò John sarcastico. «Nella tasca del tuo cappotto?»
«No», rispose asciutto Sherlock. «Altrove. Non in questo appartamento.»
John aggrottò appena la fronte. «L’hai dimenticato da qualche parte?»
«No», fu la risposta irritata di Sherlock. «Ho detto che è altrove, non che l’ho dimenticato. Adesso posso avere il tuo cellulare?»
Lui ignorò la domanda. «Aspetta. Mi stai dicendo che l’hai volutamente lasciato da qualche parte?»
Sherlock gli sorrise sarcastico. «Le tue capacità deduttive si affinano ogni giorno che passa.»
«Dove?»
«Non vedo come ti riguardi.»
John alzò un sopracciglio. «Dove?»
Lentamente e con gesti misurati, Sherlock si alzò dalla poltrona. «Al laboratorio del Barts.»
«E perché mai?», chiese John confuso. «Quando ci siamo passati non c’era nessuno, perché avresti dovuto lasciarlo lì?»
Sherlock non rispose. Allungò una mano e aspettò che gli venisse consegnato il cellulare. Quando finalmente John glielo cedette, Sherlock scrisse velocemente un messaggio, lo inviò e gli riconsegnò il telefono. Tornò a sedersi, incrociando di nuovo le gambe e tamburellando con le dita sui braccioli della poltrona.
John, ritornato davanti al portatile, esitò un istante prima di leggere il messaggio che Sherlock aveva inviato. «Cosa?», esclamò disorientato. «Non c’era. E’ in malattia, non ricordi? Ce l’ha detto quell’infermiera.»
Sherlock girò appena la testa, un’aria leggermente divertita sul volto, qualcosa che sembrava dire ah, ne sei proprio sicuro?
John rilesse il messaggio. “Molly”, diceva, “portami il cellulare. Ora. SH”. Scosse la testa. Non capiva. «Molly non c’era», sottolineò di nuovo.
Sherlock rimase in silenzio, lo sguardo fisso alla finestra e la mente bloccata su di un problema. Le dita tamburellavano un ritmo strano.
Pioveva, fuori. Pioveva terribilmente.

*

- 24 ore prima (17:00) -

Molly, francamente, non sapeva cosa pensare.
Quando aveva ricevuto il messaggio, la sua prima reazione era stata di entusiasmo. E non - solo - perché era arrivato da Sherlock. O perché si trattasse di un invito ad uscire. O di entrambe le cose. Si trattava della festa di inaugurazione di una nuova mostra che avrebbero tenuto alla Tate, evento a cui lei aveva desiderato partecipare da quando ne aveva sentito parlare un mese prima. Quindi, quando aveva ricevuto il messaggio di Sherlock che le chiedeva di presentarsi davanti all’ingresso del museo quella sera stessa - e di non preoccuparsi dell’abbigliamento, perché aveva già organizzato tutto lui - la prima reazione del suo cuore era stata di battere furiosamente di gioia.
Poi era sorto il dubbio.
La parte razionale di Molly, quella che ancora sopravviveva ai suoi stupidi voli romantici, le aveva fatto notare l’assurdità di quella richiesta. Le aveva fatto chiedere cosa volesse in realtà Sherlock. In quale ridicola situazione si sarebbe trovata. In che modo patetico avesse potuto fraintendere le sue parole.
Ma aveva riletto il messaggio di Sherlock una seconda volta. E una terza, per precauzione. E non vi aveva trovato nulla di allarmante. A parte, ovviamente, l’invito in se stesso.
Così, aveva risposto. Aveva accettato.
Non era sicura di aver fatto bene.

*

- 20 ore prima (21:00) -

Quando il taxi si fermò davanti all’ingresso della Tate, Molly aspettò un attimo prima di pagare l’autista. Non era solo nervosa, voleva assaporare quel momento.
Uscì finalmente dall’auto e tra i pochi passanti sul marciapiede vide subito Sherlock. Era vestito in modo impeccabile - come suo solito, del resto - e teneva con una certa attenzione un porta-abiti scuro. Molly, in un momento di saggia precauzione, aveva comunque indossato il suo miglior vestito nero, ma realizzò in quell’attimo che non ne avrebbe avuto bisogno. Sherlock aveva davvero pensato ad un vestito per lei.
Gli si avvicinò sorridendo, salutandolo con la mano piuttosto goffamente. «Scusami per averti fatto aspettare, il traffico era orribile.»
Sherlock la prese per il gomito e la spinse lungo il marciapiede. «Non c’è molto tempo.»
Molly lo guardò confusa. «Ma la festa sarà iniziata da meno di cinque minuti.» Notò che non stavano muovendosi verso l’ingresso, ma verso un vicolo laterale. «Dove stiamo andando?»
Sherlock non allentò la presa. «L’entrata secondaria.»
«Perché?»
«Molly», disse Sherlock indirizzandola verso una porta di metallo. «Devo chiederti un favore.»
Molly riconobbe il tono di voce.
Si preoccupò.

*

- 18 ore prima (23:00) -

La stoffa era morbida. E il vestito era comodo, a modo suo. Di ottima qualità.
Colse il suo riflesso in uno degli specchi che avevano messo nella sala. Ovviamente mi dona, pensò amaramente.
Spostò con attenzione il vassoio da una mano all’altra e riprese il suo giro tra gli invitati, offrendo cortesemente bicchieri di champagne.
Era stata una stupida. Di nuovo, aggiunse. Avrebbe dovuto capirlo, avrebbe dovuto dar retta a quella parte del suo cervello che ancora sembrava funzionare.
In un primo momento, quando aveva aperto il porta-abiti che Sherlock le aveva consegnato, non aveva capito cosa avesse tra le mani. Poi aveva realizzato. Una divisa da cameriera. Quale ironia, pensò amaramente.
Sapeva di star aiutando Sherlock, sapeva che quello che stava facendo era importante - quasi fondamentale - per risolvere un caso su cui lui stava lavorando. Eppure, nonostante tutto, non riusciva a togliere il sapore della delusione dalla bocca.
Come avesse potuto credere - e non solo per un attimo, ma per ore intere - che Sherlock l’avesse davvero invitata ad uscire, era un mistero. Anche per se stessa, a quel punto.
Continuò a camminare con cautela tra le persone, il vassoio in bilico su di una mano. Intravide John a pochi metri da lei, la sua unica consolazione in quella ridicola situazione. Perché - ovviamente - anche lui era vestito da cameriere. Povero John.
«E io che credevo che fossi una dottoressa», disse all’improvviso qualcuno alle sue spalle.
Molly si pietrificò. Chiuse gli occhi un istante, prima di riaprili e voltarsi. «Salve», disse cercando di non far tremare la voce.
Irene Adler le sorrise ferocemente. «Tesoro, lascia che te lo dica. La divisa da cameriera ti dona molto. Ma se avessi voglia di divertiti un po’, allora preferisco giocare alla dottoressa e l’ammalata.»
«La mia specializzazione è la patologia forense. Mi dedico ai cadaveri.» Molly non aveva voluto farla suonare come una minaccia, ma in qualche modo fu quello il modo in cui le uscì dalla bocca.
Per un attimo il volto di Irene si dipinse di un’espressione sorpresa. «Cielo, questa gattina ha delle unghie. E non ha paura di usarle.»
Molly arrossì. Avrebbe voluto dirle che aveva frainteso, ma forse era meglio che Irene Adler pensasse che lei non fosse del tutto indifesa. «Devo continuare a...», Molly non riuscì a finire la frase. Indicò il vassoio e la sala, sperando che il messaggio fosse chiaro.
«Certo, dolcezza», replicò Irene con un sorriso quasi lascivo. «Mi accontenterò di guardarti da lontano, nella tua graziosa divisa nera. E di consolarmi con il caro Mr. Holmes.»
Molly abbassò gli occhi. E non le piacque. Provava una ridicola soggezione nei confronti di Irene Adler, arricchita da una nota di invidia. Riprese a camminare lentamente. Vide Sherlock ai bordi di un piccolo gruppo di persone. Ascoltava. Non la notò. Poi, come se avesse istintivamente capito che lei era lì, spostò lo sguardo direttamente su Molly. Accennò con la testa ad una persona.
Molly sospirò. Poi, con un sorriso falso sulle labbra si diresse verso l’uomo che Sherlock le aveva indicato.

*

- 15 ore prima (2:00) -

«E questo è tutto», concluse Molly con un tono di voce stanco.
Sherlock era entusiasta. «Perfetto. Benissimo. Andiamo John, non abbiamo molto tempo.»
John scosse la testa. Guardò Sherlock avvicinarsi al bordo del marciapiede e fermare un taxi. Rivolse a Molly uno sguardo imbarazzato. «Grazie, Molly. E scusa
Molly sorrise debolmente. «Non c’è di che. Buona fortuna con il caso.»
Improvvisamente si trovò da sola sul marciapiede davanti alla Tate. Un attimo prima Sherlock e John erano stati al suo fianco e un attimo dopo erano spariti dentro un taxi, diretti chissà dove in quella notte londinese.
Molly sospirò. Era stanca. Terribilmente stanca. Di Sherlock, soprattutto.

*

- 13 ore prima (4:00) -

Erano tornati all’appartamento da meno di mezz’ora. John, esausto, era andato direttamente nella sua camera da letto. Quindi, quando Sherlock sentì la porta aprirsi alle sue spalle, seppe fin da subito che non era lui la persona che era entrata nel salotto.
«Mr. Holmes», disse la voce piacevole di Irene Adler. «Non so se il fatto che non mi hai dedicato più di uno sguardo questa sera mi offenda terribilmente, o mi ecciti terribilmente.»
Sherlock aspettò un attimo prima di rispondere. «Non m’interessa.»
Irene si mosse quasi languidamente, accarezzò le curve del violino abbandonato sul divano e prese l’archetto. Si avvicinò a Sherlock, fermandosi di fronte a lui. «Dovrebbe, Sherlock caro.»
Lui la guardò annoiato. «E perché mai?»
Irene gli sfiorò la guancia con l’archetto, fermandosi sotto il mento. «Non è stancante pretendere sempre di non essere attratto, curioso, interessato?» Si inginocchiò, facendosi spazio fra le sue gambe, e inclinò appena la testa. «O forse il punto è un altro, caro? Vuoi che mi tolga il trucco, mi tagli i capelli corti e inizi a camminare come un bravo soldatino? O forse», aggiunse con l’ombra di un sorriso cattivo sulle labbra, «mi preferiresti con i capelli sciolti e un bel camice bianco? E’ questo quello che t’interessa?»
Sherlock le rivolse uno sguardo gelido, le dita presero a tamburellare sulla poltrona.
Irene scoppiò in una risata deliziata. «Caro Mr. Holmes, sei così graziosamente prevedibile, a volte.» Lasciò cadere l’archetto e appoggiò le mani sulle ginocchia di Sherlock, facendole risalire con lentezza lungo le gambe. «Posso essere tutto quello che desideri, Sherlock. E molto di più.»
Lui le afferrò i polsi e strinse la presa fino a farle male. «Te l’ho già detto. Non m’interessa.»
Irene si liberò con un gesto brusco e si rimise in piedi. Rimase in silenzio per un istante, lisciandosi il vestito. Gli rivolse un nuovo sorriso, freddo e distante. «Rispondi ad un paio di domande, allora. Almeno questo, Mr. Holmes. E prometto, niente di terribilmente personale.»
Sherlock raccolse l’archetto del violino e si alzò dalla poltrona. «Chiedi.»
«Come prende il caffè il caro dottor Watson?»
Lui la guardò confuso. «Perché lo vorresti sapere?»
«Rispondi, Sherlock.»
«Nero, niente zucchero.»
«E quel grazioso topolino di Molly Hooper?»
Sherlock aggrottò la fronte. «Latte, due zollette di zucchero.»
Irene gli sorrise. «E come fai a saperlo?»
«John ed io siamo coinquilini. E’ ovvio che sappia come prende il caffè.»
Irene rise divertita. «Oh no, Sherlock caro, non mi riferivo al dottor Watson. Mi riferivo al topolino. Come fai a sapere come le piace il caffè?»
Nessuna emozione trapelò dal volto di Sherlock. «Osservo tutto. Dovresti saperlo.»
Lei si avvicinò e gli appoggiò una mano sul petto, accarezzandolo fino all’altezza del collo e fermandosi sulla nuca. Gli fece abbassare un po’ la testa, sfiorandogli la bocca con le labbra. «Allora come lo prendo io il caffè?»
Sherlock esitò un attimo. «Non lo so.»
Irene sorrise. «Risposta sbagliata.» Catturò con i denti il labbro inferiore di Sherlock e lo morse. Lui si ritrasse di scatto, la bocca macchiata di sangue.
«Forse osservi tutto, Sherlock caro, ma evidentemente», concluse Irene con un tono gelido, «tieni a mente solo quello che ritieni importante ricordare.»
Lui la osservò avvicinarsi alla porta e fermarsi un attimo sulla soglia dell’appartamento. Gli rivolse un ultimo sguardo, prima di uscire.
«Buona notte, Mr. Holmes. A presto.»

  
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