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Autore: Artemisia89    03/10/2006    6 recensioni
è una storia drammatica, ma intensa. Ammetto di aver faticato non poco per scriverla. A volte tutto diventava troppo forte per me. è la storia di un amore nato, cresciuto e morto tra giri di tango, sotto il cielo di una Spagna in festa. Si parla di una fuga tentata e fallita, di un allontanamento necessario, di un ricongiungersi estremo. Di un abito rosso, che si è riacceso di nuovo, per un'ultima volta,prima di morire.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Lo dedico innanzitutto alla mia fanciulla d’argento, la mia fairy girl, Hellionor, che mi ha regalato bellissime parole di Barcellona e frasi scritte che serberò in me per sempre, poi la dedico ai miei genitori, che mi hanno reso partecipe delle loro giornate trascorse in una grande sala da ballo, intenti sempre a ripetere figure, a tornare sui propri passi, e infine a Roma, la mia assurda città che io detesto eppure amo, soprattutto quando, nelle serate estive, sa renderti così maledettamente ebbra e audace.

E infine, al maestro di ballo dei miei genitori, che ho appena saputo, ci ha lasciati. Grazie uomo con la valigia.

 

 

L’abito rosso e il ventaglio nero

 

 

 

 

L’aveva preso dall’armadio con un gesto quasi involontario.

Aveva aperto le ante del mobile scuro e senza lasciar  indugiare la sua mano, aveva saputo cosa prendere tra ogni altro indumento.

Quell’abito rosso.

Da quanto tempo non lo metteva?

Faceva ancora male indossarlo, pensò Clarissa, o meglio avvertì, toccando la stoffa dell’abito rosso, ma ormai pensava che il dolore fosse anch’esso soltanto un vecchio ricordo sbiadito.

Come quell’abito rosso.

 

Lo portò alla luce e rimase a contemplarlo per un attimo.

 

Aveva quel vecchio taglio asimmetrico che all’epoca adorava, spalle scoperte e scollatura che osava troppo. Svasatura finale per permettere alle gambe un maggior campo di apertura.

 

Che buffo, pensò, era passato tanto tempo, ma il vestito sembrava perfetto, appena comprato e questo, a dir la verità, le faceva un po’ paura.

 

E dopo averlo guardato ancora per un istante, lo indossò infine.

Lasciandoselo scivolare addosso, sentì un brivido lungo la schiena, se lo sistemò sul corpo e si guardò allo specchio.

Sotto la luce, il vestito sembrava accendersi di bagliori sinistri e nello stesso tempo magnifici, come se l’abito fosse stato pronto ad ardere per un’ultima volta, ad essere usato nel modo più degno, pochi passi prima della fine.

 

Un filo di trucco, matita, poco rossetto, del mascara.

 

Clarissa non aveva bisogno di altro per apparire bella  e le poche gocce di profumo con cui si bagnò i polsi sottili e il collo, non servirono che ad amplificare il suo profumo naturale.

 

Scarpe dal tacco sottile, nere naturalmente, un ventaglio scuro che veniva da lontano.

Quel ventaglio nero, per farsi del male, fino alla fine, per testare quanto la sua anima potesse dimenticare, ricordare, riportando alla luce e nuovamente sopportare.

Portò alla luce il ventaglio, schermandosi gli occhi e i disegni dell’oggetto si stamparono sul suo corpo, muovendosi quasi, raggiungendone ogni parte.

 

Lo chiuse, con uno scatto e non si riguardò allo specchio.

Sapeva di essere bella.

Non lo erano tutti nel momento di massimo godimento, nell’ultimo minuto, prima della caduta, prima dell’abisso?

 

Uscì dunque, i lunghi capelli ondulati che si muovevano all’ondeggiare delle sue gambe, all’ondeggiare della sua vita nel mondo.

 

Qualche testa si volse al suono dei piccoli tacchi sul selciato, alla sua bellezza che si diffondeva nell’aria, ma lei sembrò non farci caso, aspettò con pazienza che il taxi arrivasse e quando questo giunse, aprendo la portiera, si infilò dentro senza dire una parola.

 

-          Dove la porto signora?

-          Al numero 42 di Via Veneto.

 

Appoggiò la fronte al freddo vetro del finestrino e si riempì gli occhi della luci della città.

Amanti che si tenevano per mano sembravano professarsi amore eterno guardandosi negli occhi, un vecchio che portava il suo cane a passeggio invece, pensava a quanto solitaria risultava essere la sua vita dopo la morte della sua tenera e forte donna, una ragazza dai capelli cortissimi che correva tagliando trasversalmente una piazza sembrava rincorrere un orizzonte a lei sempre distante e beffardo, un mendicante che strimpellava su una chitarra aveva la stessa voce del mare che aveva ingoiato il suo paese, una donna di colore camminava pesantemente sotto il peso delle buste della spesa e sotto il carico di ricordi che ad ogni faticoso passo che compiva le logoravano l’anima con un lento fuoco.

 

Clarisse guardò fuori senza guardare veramente.

Si sentiva uno spettatore annoiato ad una commedia teatrale di pessima qualità e dalla trama di dubbio gusto.

Chiuse gli occhi, nauseata.

 

Era dovuta uscire per forza.

Avrebbe dato qualsiasi cosa per non farlo, dopo quelle infauste notizie, aveva deciso di mollare tutto.

Avrebbe voluto solo dormire, senza accorgersi di niente, dormire finché la nera signora non fosse arrivata e non l’avrebbe accompagnata senza permetterle di accorgersi di alcunché.

Ma a quell’invito, non aveva potuto dire di no, quindi aveva detto a Marie che si sarebbe fatta vedere.

Aveva indossato il suo abito rosso ed era uscita di casa.

 

La festa che la sua esuberante amica Marie aveva indetto, si trovava in una delle zone più in di tutta Roma.

I locali sembravano fare a gara sul prestigio e sulla raffinatezza. C’erano luci, tante luci, e profumi dei più svariati.

C’era il lusso e c’era la libidine.

Ma agli occhi di Clarissa non c’era niente che le destasse l’attenzione.

Tutto sembrava solo tanto fumo negli occhi e in quel grigiore, in quel tripudio di colori spenti e opachi, solo l’abito rosso brillava come solo l’ultima fiamma maligna sa fare.

 

Quando il taxi si fermò, lei pagò con un sorriso educato e il tassista tornò a casa facendo più attenzione del solito.

Aprì la porta di una casa muta per mancanza di figli, e quella sera, decise di prendere per mano la moglie, silenziosa quanto fragile, e dopo esser rimasto a guardare la sua bellezza che stava ormai sfiorendo, fece l’amore con lei.

Sempre in silenzio, per carità.

In quella sera c’era solo il silenzio e il rosso del sangue.

 

Clarissa entrò con il suo passo deciso, respingendo con lo sguardo la giovane cameriera che la stava raggiungendo, non avendo con se soprabiti se non un leggero scialle di seta nera che preferì tenere addosso.

Temeva il vento freddo della sera, anche se si era ad agosto.

Oh, quanto temeva il freddo.

 

Nel locale scuro la sua amica Marie sembrava risplendere come un fulgido sole, avvolta com’era in quell’elegantissimo abito bianco che l’avvolgeva come avrebbe fatto il più lascivo degli amanti.

I capelli chiarissimi e gli occhi del nocciola più intenso.

Marie sembrava esattamente ciò che era.

Una deliziosa duchessa francese che sarebbe diventata una bellissima madre

 

Marie de Mont-Claire, aveva deciso di festeggiare appena aveva saputo della sua gravidanza, e con le sue famose doti di festaiola nata aveva organizzato in pochissimo tempo un ricevimento con i fiocchi.

Aveva ottenuto con uno schiocco delle dita il ristorante più prestigioso della città, una lista di invitati che vantava nomi famosi tra stilisti, cantanti, artisti e celebrità varie con il consenso della stragrande maggioranza.

 

Guardandosi attorno Clarisse si chiedeva cosa ci faceva tra quella gente.

Era ancora in tempo a tornare a casa, pensò, ma la sua vecchia amica la raggiunse in un batter d’occhio e la cinse tra le sue grandi braccia.

 

-          Sono così felice che tu sia venuta Clarissa, non ci speravo più.

-          È per questa nuova vita, Marie. Lo devo a te e a lei.

 

La donna le sorrise e Clarisse rispose spiegando le labbra come un piccolo uccello farebbe sul mare, poi andò a cercarsi un posto solitario da dove poter ammirare lo sfrenato e insolente luccichio della notte artificiale.

 

Il quartetto di archi cominciò a suonare e il pianoforte lo seguì come farebbe un innamorato.

Ed era in una selva, pensò lei, era una foresta di suoni e odori dove lei correva e il pianoforte la seguiva, o meglio dire la pedinava.

 

I minuti scorrevano veloci, tra quella musica che accompagnava le risate di rito dei commensali, e Clarissa sembrò quasi dimenticarsi dell’abito rosso che indossava e si perdeva in quell’atmosfera che le ricordava la sua gioventù, ma ci fu un imprevisto.

 

Un imprevisto, nel bel mezzo della serata.

 

Un imprevisto che aveva un viso spagnolo.

Gli occhi di giada, la pelle di scuro miele, le labbra disegnate da un artista divino, il corpo che si muoveva veloce tra ogni anima.

 

I suoi occhi verdi si fermarono su di lei, senza che Clarissa potesse farci niente.

O forse, prima di incontrare il suo sguardo, incontrarono quello dell’abito rosso che fiammeggiava, mosso da un motore maledetto in quell’apatica notte.

 

-          Clarissa…- mormorò la sua voce.

Clarisse si alzò improvvisamente e si diresse veloce verso la porta, con il cuore in gola, un cuore che – diamine - aveva ricominciato a battere e a farsi sentire. Squassava il corpo come se fosse un tamburo infernale e Clarisse pensò di avere paura, ne fu assalita, pervasa quasi, da un eccitamento che le faceva lacrimare gli occhi e tutto, tutto, ebbe il suo apice nel suo polso che sembrava vibrare, stretto dalla sua mano, e dal suo corpo, che la spingeva al muro, in una zona dove occhi indiscreti non potevano disturbare quel colloquio segreto e impossibile.

 

L’uomo sentiva il corpo di lei fremere, tremare, ma non ebbe la pietà che aveva avuto tempo fa.

Fece le sue domande.

 

-          Clarisse…

-          Come hai fatto a trovarmi?

-          Non ti ho trovata. Mi avevi detto di non cercarti e io non l’ho fatto. Ho rispettato la tua scelta, ma adesso tu devi rispettare le mie parole e onorarle.

Clarisse lo guardò.

-          Eri la migliore ballerina che avevo mai conosciuto. Nessuna donna aveva mai incarnato in se stessa il tango come l’avevi fatto tu. Tu eri l’anima stessa del tango. Le tue gambe, le tue mani, le tue braccia, il tuo respiro. Riuscivi a dar vita a qualcosa che era rimasto assopito da secoli. Perché hai lasciato il tango Clarissa?

Lei lo guardò.

-          Perché hai lasciato me?

Lei abbassò lo sguardo.

Lui glielo rialzò con un dito

Questa era la sua punizione, pensò Clarissa, aveva osato indossare l’abito rosso senza pensare alle conseguenze.

E tutto perché lui conosceva quell’abito rosso.

L’aveva toccato, abbracciato, gliel’aveva tolto infinite volte.

Così tante da poterle dimenticare, ma erano così preziose che loro le ricordavano tutte.

 

La stoffa stessa, rammentava ogni volta.

 

Clarissa alzò le braccia e intrecciò le mani a quelle di Miguel, si alzò appena sulle punte e lo baciò a fior di labbra, poi parlò, con la sue bella bocca ad un soffio della sua.

-          Questa sera ti donerò l’ultimo bagliore di questo abito, Miguel, l’ultima fiamma che una come me può accendere.

 

Miguel allora le prese la mano e la portò centro della sala.

Ad un suo cenno una cameriera raccolse tra le sue mani il prezioso scialle e il nero ventaglio di lei, e una fisarmonica e un violoncello dal suono corposo cominciarono a suonare.

 

-          E sia – disse Clarissa qualche secondo prima.

-          Che tu sia – aggiunse Miguel

 

Cominciarono a ballare.

Furono più che altro passi i movimenti iniziali, passi mossi con sapiente e abile memoria, ignoranti della paura e dell’angoscia.

Il corpo e l’abito rosso sapevano ogni cosa da tempo immemorabile e si impossessarono delle loro menti, le prevalsero.

Clarissa ora era la donna e Miguel era l’uomo.

E basta.

E fu.

 

Furono solo passi all’inizio, passi decisi che non conoscevano esitazione, quelli di lui avanzarono e quelli di lei arretrarono. Si sentivano i tacchi sul marmo nero e i loro corpi percepivano gli sguardi di tutti senza registrarli.

Furono solo passi all’inizio, poi lei si abbandonò al corpo di lui mentre faceva risalire una gamba sul suo fianco.

Lui si piegò indietro assecondando le sue movenze e prima di cominciare veramente si guardarono negli occhi.

Poi qualcuno chiuse un ventaglio di scatto e allora cominciarono.

Furono solo passi all’inizio, eco di istruzioni e lezioni antiche, severe, omicide, troppo sensuali per una bambina appena donna, per un ragazzo che non conosceva la sua lingua, che non sapeva con che parole parlare. Poi si mossero come avevano fatto per centinaia di notti sotto il cielo dell’Andalusia, nelle camere dalle luci fioche, nei piccoli locali tutti uguali della costa.

Raddrizzarono le loro schiene e la mano di lui strinse bene la schiena di lei e cominciarono a volteggiare nel locale, con un gioco di gambe che erano parole che non avevano il tempo di pronunciare, che non erano capaci di formulare senza la giusta abilità che quel complicato e doloroso discorso avrebbe richiesto.

Ma la verità era che non avrebbero mai saputo parlare, e la magia della loro storia era il silenzio. Quello intenso, quello che fa bene, che fa male, che insegna, che punisce, che ti fa vivere.

Tra le sue braccia lei disegnò figure.

Con la maestria di una donna che sa tutto, con l’arroganza di una donna che non ha più niente da perdere.

Giri di gamba e di corpo, i piedi che si muovevano al ritmo della fisarmonica e quelle caviglie mai viste che imponevano il loro governo su ogni cosa.

Con i suoi occhi e le sue mani lui la guidava, le permetteva di brillare.

Era puro vento che andava ad alimentare e fomentare un fuoco che sarebbe diventato un incendio devastante e benedetto.

 

L’abito rosso ballava elegante, gioioso e mortalmente sensuale.

 

Miguel sentiva il piacere che li avvolgeva come un’onda di marea.

Assaporava l’aria che si spostava quando lei girava e rigirava i fianchi, il profumo di lei che sembrava l’eterno ricordo di quelle passeggiate sotto una Barcellona in festa, di quel ventaglio nero che le aveva regalato avvolgendolo nelle lenzuola del letto dove avrebbero fatto l’amore e ancora il fantasma di una Clarissa intenta ad osservare il tramonto in lacrime, di nascosto, celata dal movimento dei panni stesi ad asciugare.

Miguel fece inginocchiare con una gamba sola Clarissa e la fece girare su se stessa un paio di volte , poi se la portò al petto, rialzandola con una mano.

Fecero due passi larghi ma lenti, con enormi pause al termine di ognuno.

Il suo naso sfiorava la guancia vellutata di lei, andando a cercare lacrime che non ci sarebbero mai state.

Si spostarono ai margini della pista e la musica accompagnò ogni loro movimento.

Frenetico, esatto, composto, silenzioso, preciso, sapeva di tempesta e di segreto.

 

Lei mosse più veloce i suoi piedi attorno alle sue gambe che si alzavano e si abbassavano.

Capirono entrambi che si stava arrivando alla fine.

E non fu la musica a deciderlo, o il rintocco crudele dell’orologio del corridoio, ma fu l’abito rosso.

 

Furono solo pochi passi all’inizio, e già l’abito rosso sembrava destarsi. Come un cuore che ricomincia a battere, come un uccello divino che viene liberato dalle catene, si riaccendeva del suo colore. Ad ogni loro prestabilito movimento tornava ad ossigenarsi, ridipingendosi del suo rosso più intenso, più violento, più impressionante, che feriva gli occhi di chi non sapeva come una visione insopportabile di tremenda bellezza. E il suo rosso si trasformava ad ogni figura, ogni giravolta, ogni movimento di gambe, ad ogni mezzo passo, ad ogni giro di pista fino ad avere il suo apice.

Quando lei avvolse la sua lunga gamba alla vita snella di lui e i loro respiri si toccarono e si avvolsero stretti ancora di più delle loro labbra, ecco, l’abito divampò, avvolse tutto, sembrava un pericoloso sole sul limite del collasso, e mai occhio umano avrebbe potuto capire in fondo l’ondata di piacere che li avvolse, o per meglio dire li imprigionò nella sua immensa stretta, e fu molto più del piacere che provarono mai nel fare l’amore, nel possedere i loro corpi, perché in quell’esatto momento, come mai, possederono le loro anime.

Poi il colore cominciò a scemare definitivamente.

 

 

Furono solo pochi passi alla fine e loro ansimavano appena, esausti e devastati per la portata di ciò che avevano fatto per un’ultima volta.

Furono solo pochi passi alla fine, ancora qualche giro, lui che si chinava su di lei, e Clarissa che faceva ciò che il corpo di Miguel le chiedeva.

Furono solo pochi passi alla fine e uno splendido casché e il vibrare delle ultime note dei due strumenti e un lungo assordante applauso che si sprigionò dalle mani pesanti di oro degli invitati.

 

Solo dopo Clarissa si accorse delle lacrime che rovinavano il trucco di Marie, perché lei era impegnata a fare altro.

 

Si inchinarono e lei scappò, si diresse all’uscio, riavendo il suo scialle e il suo ventaglio nero arabescato.

Ma ancora Miguel la fermò un’ultima volta e la guardò.

Lei, così bella da far male.

Lei, un passato che va via.

 

Si chinò a baciarle la bella mano senza un gioiello, la pelle profumata ancora ardente che lottava contro la frescura della notte.

 

Quando si rialzò si sorprese vedendo una lacrima furtiva che le rigava il bel volto marmoreo, le labbra rosse di lei sembrarono muoversi per dire qualcosa ma poi scappò via in silenzio, eccezione fatta per i piccoli tacchi, nella notte di Roma, così violentata da quelle luci volgari e da quegli odori eccessivi, disturbata da vite che le si aggrappavano come parassiti.

 

 

 

 

 

 

Passarono tre mesi ed arrivò Novembre, con il suo freddo che Clarissa tanto detestava e mal sopportava, pur adorando quanto soffice fosse abbandonarsi al tepore salvifico degli indumenti di lana.

La telefonata arrivò in una serata gelida che era nata in un tramonto spettacolare.

Un fuoco che aveva incendiato tutto il cielo.

 

 

-          Hablo con el senor Miguel?

-          Quien habla?

-          Miguel sono io, Marie. Torna a Roma, Clarissa è morta.

 

 

Del viaggio Miguel non ricordò nulla, nemmeno del funerale che era stato veloce, con un discorso affrettato di un parroco da un agenda fitta di impegni, nascosta nel suo consunto breviario.

Miguel ricevette le ceneri di Clarissa.

Le avrebbe portate con se, sulla costa andalusa, e le avrebbe sparse nel vento del mare, dalle banchine degli stabili in cui loro avevano ballato per innumerevoli notti.

 

Prima di partire Marie, dalla pancia sempre più prominente, avvolta da seta nera, il viso coperto da un cappello con veletta, lo raggiunse e con voce stanca ma ferma gli consegnò una lettera, poi gli mormorò addio.

La vide sparire, nel plumbeo cielo di novembre.

 

 

 

 

Miguel, caro Miguel, mio amato, unico amico mio.

Ed ecco, ora sono nelle tue mani, e poi sarò solo tanta cenere al vento, intenta a fuggire e a fluttuare nell’aria, sopra la terra, sopra il mare e il cielo, sopra questo mondo assurdo che ha divorato e innalzato la mia giovinezza.

Se hai questa lettera è perché te lo dovevo e perdonami se è solo alla mia morte che la ricevi, perdonami se non mi sono persa ancora nei tuoi occhi di foglia.

Lo sai, lo hai sempre saputo che sono sempre stata quella che prima di salire su un treno, su un aereo, su una nave, non si è mai voltata indietro. Io sono quella degli addii veloci, Miguel.

Per quanto quel meraviglioso tango sia stato più prolisso di un lungo discorso mi sento in dovere di affidarti le mie ultime parole. Sei stato l’unico Miguel, sei stato la mia anima.

Sono, o meglio ero, malata di cancro, Miguel.

Al cervello, inoperabile, scoperto troppo tardi.

Ho rifiutato la chemioterapia, ti rammenti della mia vanità? Avrei preferito morire subito piuttosto che rinunciare alla mia bellezza, sparire piuttosto che diventare un cadavere che cammina, per quanto io potessi esserlo già…

Mi hai chiesto perché abbia mai  abbandonato il tango, quella sera.

L’ho fatto perché il mio fisico non avrebbe retto, e credo che questa sia una risposta più che sufficiente.

Riguardo al perché avessi abbandonato anche te, tu sbagli.

Non ti ho mai abbandonato Miguel, mai.

Sei stato sempre con me, in me, ovunque. Nell’aria che respiravo al mattino, nelle mie lacrime donate ai tramonti, nelle parole che pronunciavo, e il tango era te e tu eri me e rivivevi sempre in quell’abito rosso e in quel ventaglio nero con cui mi sono fatta bruciare. Miguel, oh Miguel, avrei voluto amarti, ma non ne sono stata capace, non ne ho avuto la possibilità, ma almeno ti ho risparmiato la mia agonia, donandoti solo l’ultima fiamma di quell’abito rosso, donandola solo a te e a nessun altro, quel sacro fuoco, reliquia di tempi che furono e che mai ritorneranno e rivivranno, conservala in te.

Ti amerò per sempre Miguel, per l’eternità.

Ti amo.

 

Addio

 

Clarissa

 

 

 

 

 

Fine

  
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