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Autore: Hikari93    01/03/2012    4 recensioni
ATTENZIONE: INCEST
Yugi e Atem sono due ragazzi normali, che conducono vite più o meno normali, che frequentano una scuola normale e che hanno amici/nemici del tutto anormali. E sono fratelli.
[Puzzleshipping (principalmente) - Puppyshipping - Thiefshipping - Apprenticeshipping]
ATTENZIONE! Qualora dimenticassi di scriverlo nel prossimo capitolo, avviso che mi sono informata - e forse avrei dovuto farlo prima xD - un po' sulla scuola giapponese. Per questo - lo spiegherò meglio quando pubblicherò il terzo capitolo - Yugi e Atem avranno due anni di differenza, e non tre come avevo scritto nel primo capitolo. Grazie!
Genere: Comico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Dark/Yami Yuugi, Un po' tutti, Yuugi Mouto
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Sei il mio otouto e posso spupazzarti solo io!



 

Capitolo 1: Un normalissimo giorno di scuola




 


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Che fosse per la mia altezza leggermente al di sotto della media, che li invogliava a darci dentro con le botte e i pugni in testa così da verificare se potessi o meno arrivare a essere addirittura più basso di com’ero, o per il mio inconsueto taglio di capelli dalle ben tre colorazioni diverse, era ancora un mistero, fatto stava che in più di un’occasione diventavo, senza rendermene conto, il bersaglio preferito dei soliti bulletti di scuola, girovaganti come anime in pena per i lunghi corridoi.
Ed ecco, quel giorno era stato lo stesso.
Potevo a malapena muovere qualche passo da solo – tanto per soddisfare qualche esigenza fisiologica, come andare in bagno, no? –, che scrutavo ombre scure a ogni angolo, dietro ogni porta delle classi dei più grandi. E nel caso in cui fortuna volesse che non ci fosse nessuno ad attendermi sulla soglia per farmi la festa, ero io stesso a muovermi autonomamente verso di loro.
Cominciai fatalmente a pensare che fosse il mio destino, dal quale fosse impossibile sfuggire.
A ogni modo, la stessa situazione si era ripetuta anche quella mattina, quando, diretto dal bagno in classe – perché anche il percorso inverso era molto pericoloso, per me –, avevo urtato proprio colui che non avrei dovuto toccare. Non che avesse fatto differenza, uno valeva l’altro in quella circostanza, quando capivi che la sabbia nella clessidra della tua vita stava cominciando a scendere verso il basso a una velocità sempre più sostenuta, però, se avessi incrociato un bullo grande, grosso, cattivo e quasi sicuramente stupido, sarebbe stato meglio.
Molto meglio.
Bakura, infatti, non era grande, grosso né stupido, ma cattivo. E tanto cattivo anche.
E pensare che Ryou, suo fratello, sembrava un angelo sceso direttamente dal cielo, che aveva abbandonato il coro delle creature celesti soltanto per portare un po’ di bontà sul pianeta Terra. Probabilmente, avevo pensato più volte, Ryou e Bakura erano complementari: l’uno aveva in abbondanza quello che all’altro mancava.
«Perché non guardi dove metti i piedi, piccoletto?» mi disse.
Lesto, seguii l’istinto; giunsi le mani in preghiera, abbassai lo sguardo, cercai di rifugiare la testa tra le spalle – alzando le suddette –, sperando che, scomparsa la testa, si potesse evitare, almeno per un giorno, che i miei occhioni ametista diventassero il punto preciso da centrare con un cazzotto degno dei migliori wrestler.
«Non era assolutamente mia intenzione, mi dispiace, Bakura» sussurrai, le mani che mi sudavano per la paura. Poteva sembrare sciocco da parte mia provare quel sentimento di profonda angoscia, anche perché il mio viso avrebbe dovuto abituarsi ai colpi avversi, vista l’esperienza, però il ricordo delle nocche altrui stampate sulla mia faccia, o dell’alone violaceo intorno al mio occhio, mi rimettevano sulla giusta via, sussurrandomi che forse era meglio implorare pietà prima delle botte, che farlo dopo averle prese.
Attesi il giudizio finale col cuore in gola, e quando non successe nulla pensai di essere già svenuto per il dolore e di star sognando. Ed era un bel sogno, dato che non sentivo male in alcun punto.
«Non ne ho più voglia, piccoletto.»
Mai parole furono più gradite e utopiche di quelle: Bakura non poteva averlo detto davvero! Beh, non che lui si divertisse a prendere a pugni e a calci chiunque si trovasse davanti – qualcosa di molto simile, a dire il vero –, ma riservava dei trattamenti speciali soltanto a chi aveva, direttamente o indirettamente, sfidato la sua pazienza o aveva contestato una sua regola. Da notare il “direttamente o indirettamente” detto sopra, poiché mi riguardava da vicino.
«Bakur-»
«Non ho nemmeno sfiorato il tuo fratellino, risparmiati la solita paternale, Atem!» rimbeccò subito Bakura.
Ecco spiegato l’indirettamente.
Bakura non ce l’aveva proprio con me, quanto con mio fratello Atem. Frequentavano la stessa classe – erano di due anni più grandi di me – e c’era molta competizione tra di loro, per qualunque motivo – niente a che vedere con quella tra Seto Kaiba e mio fratello, però: quella era una vera e propria guerra. Comunque, il motivo principale del loro malsopportarsi/nonsopportarsiaffatto, era da ricercare nei loro rispettivi “ruoli”. Atem, infatti, in quanto capoclasse – insieme a Kaiba – doveva fare in modo che, almeno quelli della sua, di classe, non dessero troppi problemi. E Bakura, beh, lui creava problemi anche solo respirando, a detta di Atem.
Dunque, per questo motivo, capitava spesso che si due si scontrassero.
Ogni piccola questione poteva diventare l’inizio di una grande litigata – e pensare che Atem non era un tipo litigioso, affatto –, e in quel momento sembrava proprio che fossi io, la tanta decantata “piccola questione”. Io e la mia incolumità.
«Stai bene, otouto?» Mi si avvicinò velocemente, scansando tra i borbottii un Bakura ghignante e ricevendo dallo stesso un’affettuosa pacca sulla spalla che per poco non gli fece sputare polmoni, cuore e quant’altro, indipendentemente dalla presenza della cassa toracica. Atem borbottò qualche insulto tra i denti contro il suo compagno di classe, poi mi rivolse nuovamente la sua attenzione. «Hai visto, stavolta sono arrivato in tempo!»
Mi doleva non poco smorzare tutto il suo entusiasmo – con tanto di occhioni a cuoricino glitterato e sbrilluccicoso e lacrimucce di commozione –, confessandogli che era stato Bakura a decidere di graziarmi, e non il suo tempismo a salvarmi, ma dovevo farlo, non potevo illuderlo.
«In realtà, se mi ritrovo con tutti i denti in bocca, con i capelli in ordine e, soprattutto, senza lividi, è grazie a Bakura, che ha deciso di non utilizzarmi come sacco da boxe vivente» mormorai senza guardarlo negli occhi. Sebbene il mio tono non volesse in alcun modo essere offensivo, qualcosa mi fece capire che lo era stato.
Osservai l’espressione di Atem cambiare istante infinitesimo per istante infinitesimo, finché i suoi occhioni a cuoricino glitterato e sbrilluccicoso non vennero sostituiti da lacrimucce agli angoli degli occhi – che non erano lacrimucce di commozione, stavolta.
«Suvvia, non importa» mi affrettai a dirgli «tanto sono abituato a prenderle!»
Ops…no! Non nel senso di “arrivi quasi sempre dopo che le ho prese!”
Il che, poi, non era del tutto falso, ma non gliene avrei MAI fatto una colpa; piuttosto, pensavo sempre più spesso che fosse arrivato il tempo di difendermi da solo.
«No, no, volevo dire… ehm… non fa poi così male, nii-san!»
Atem, piegato sulle ginocchia, col volto a mezzo passo dal pavimento, mosse degli strambi passi fino a raggiungere l’angolino, senza proferire parola. Lì, sempre in ginocchio, negli ultimi minuti di ricreazione, disegnava cerchi nell’aria, depresso.
«Neanche il mio otouto sono in grado di difendere» lo sentii singhiozzare.
Mi fece molta tenerezza: il mio nii-san si mostrava sempre sicuro di sé con gli altri, e dedicava questi suoi attimi di “pura follia e delirio” solo a me, facendomi sentire importante. Era il legame più forte, il mio obiettivo da raggiungere, colui che volevo imitare a ogni costo, che non si faceva mai mettere i piedi in testa da nessuno.
Nonché la persona a cui tenevo di più in assoluto.
Mi avvicinai lentamente, sorridendo e trattenendomi dal ridere per via della sua espressione buffa. Mi abbassai un poco – ci mancava poco che toccassi il pavimento anche quando ero in piedi… – e lo abbracciai.
«Ti voglio bene, nii-san» dissi soltanto. Tutto il resto era superfluo.

Poco dopo che fui rientrato in classe, e che mi fui accomodato al mio banco – il primo, ovviamente… tutto “merito” della mia statura – arrivò anche Jonouchi, il mio migliore amico.
Sapevo dov’era stato.
«Mai che fosse Seto a venire in classe nostra, vero?» ridacchiai, poggiando il mento sulle braccia distese sul banco.
«Quello c’ha il culo pesante, Yugi, figur-»
«Culo che a te non dispiace affatto. Giusto, Katsuya?»
Sia io che Jonouchi ci voltammo verso Malik, seduto dietro di me, intento ad inanellarsi una ciocca di capelli intorno al dito in un gesto spontaneo. Con l’altra mano, invece, voltava ritmicamente le pagine del libro della nostra prossima lezione, senza prestargli, però, troppa attenzione.
«Che cosa?» urlò Jonouchi, serrando il pugno e portandoselo innanzi al volto. «Ripetilo, se ne hai il coraggio!»
Malik non si fece intimorire. «Ho detto che a te quel culo piace.»
Sebbene la mia – quasi assente – mole mi impedisse di ottenere un qualche risultato più che “semplicemente decente”, mi alzai di scatto e afferrai Jonouchi circondandone il busto con le braccia, prima che arrivasse a picchiare Malik.
Ma perché in quella scuola tutti risolvevano tutto esclusivamente con le mani? Non proponevo di certo un tè coi pasticcini, però una chiacchierata da persone civili poteva starci!
«Su, su, calmatevi, voi siete amici!» esclamai, sovrastando le loro voci che, concitate, continuavano a stuzzicarsi.
E si calmarono per davvero. Mi stavano guardando scettici, come se fossi pazzo, ma si erano calmati.
«Amici? Io amico di quello là?» chiese Jonouchi, sarcastico, interpretando, per una volta, anche i pensieri di Malik. Poi, prima di tornarsene al suo posto, borbottando, si esibì in un gesto secco della mano – che mi ricordò vagamente il modo di fare di Seto Kaiba, lo stesso gesto che lui avrebbe fatto se mai, invece di liquidarti a occhiatacce indifferenti, lo avesse fatto a gesti, appunto, e a parole.
Sospirai.
Per quanto Jonouchi-kun, adesso, stesse seduto al banco al mio fianco – la sua scarsa attenzione gli aveva concesso uno dei posti migliori, in prima fila –, fingendo di ignorare tutto e tutti, sapevo non se l’era presa veramente. Il fatto era che diventava particolarmente suscettibile quando si parlava di Seto, e Malik non perdeva occasione per divertirsi, dimostrandogli quanto fosse impacciato, forse insicuro e, sicuramente, per quanto strano – stranissimo! – potesse sembrare, leggermente timido.
Ma i pochi secondi che mancavano per la fine effettiva dell’intervallo non potevano certo trascorrere tranquillamente, non nella mia classe.
Difatti, puntuale più di un orologio svizzero, non appena la suddetta campanella aveva trillato…
«Mi scusi, professor Mahad! No, non succederà più!»
Jonouchi, già ripresosi, scosse il capo. «Sarà la centesima volta che lo ripete.»
Annuii, concorde.
«Possibile che debba sempre farti bacchettare, Mana?» la richiamò – anche – Jonouchi. «Eppure lo sai che quando c’è Mahad, a farci lezione dopo l’intervallo, è molto meglio essere più che puntuali! Non si può sgarrare nemmeno di mezzo secondo!»
Si udì un “senti da che pulpito viene la predica” in sottofondo, partito direttamente alle mie spalle.
Mana s’imbronciò similmente a una bambina. «Non è colpa mia, ma del distributore! C’è una fila immensa, come si fa ad aspettare il proprio turno, inserire le monetine, digitare il numero esatto, lottare contro la macchinetta perché non dà il resto, riuscire a farsi dare quanto dovuto e tornare in classe in solo dieci minuti di intervallo?»
«Senza contare che hai saltato il “dirigersi alla macchinetta in fondo al corridoio”» le diede corda Jonouchi, interessato, sporgendosi verso il mio lato.
«Non per interrompere la vostra discussione, ma è meglio che vi ricomponiate entrambi» suggerii. «Da come ci sta guardando, credo proprio che il professor Mahad voglia cominciare la lezione.»
«Uffa» sbuffò simpaticamente Mana. «Però l’occhiataccia se la sarebbe meritata anche il distributore!»
Evitai di commentare quando scorsi che Jonouchi aveva annuito convinto. Inoltre, potevo ritenermi alquanto abituato a certi discorsi apparentemente senza senso fatti durante l’intervallo, visto che cominciavano a essere frequenti. Tanto per smorzare la tensione pre-interrogazione, mi aveva detto un rilassato Jonouchi una volta, quando gli avevo gentilmente domandato perché lui, Mana e Honda stessero tentando di dimostrare che, differentemente da come lo stesso Jonouchi aveva sentito da chissà chi, tre orologi potevano benissimamente essere regolati alla stessa identica, precisissima ora. Che poi ce l’avessero fatta o meno era rimasto un mistero per me.
Scossi la testa per evitare di essere fantasticamente trasportato in lidi e spiagge completamente diversi dalla lezione che avrei dovuto seguire. Altrimenti, in occasione del prossimo e vicinissimo compito in classe di matematica, per assicurarmi un voto che fosse quantomeno decente, avrei dovuto nuovamente studiare con Jonouchi – io per primo a chiedermi perché proprio con Jonouchi quando avevo un fratello in grado di potermi spiegare tutto e, magari, di compiere un miracolo e farmi capire almeno qualche cosuccia-uccia-uccia. Probabilmente era vergogna, o desiderio di farcela da solo. Oppure, più semplicemente, mi sentivo soddisfatto e preparato guardando Jonouchi, in preda a viva e pura disperazione, che ne capiva meno di me, di tutti quei numeri e quelle dannate variabili. Comunque, l’ultimo nostro epocale “studio insieme” fu disastroso.
Completamente.
Consisteva in semplici passaggi: sceglievamo un esercizio tra quelli che sembravano di media difficoltà – e già difficilissimi per noi – e lo fissavamo a fondo. Ma a fondo, fondo, fondo, quasi a voler vedere aldilà della pagina. Dopodichè ci concentravamo sul risultato segnato a fianco e sulla traccia in contemporanea, tentando di capire quale estroso legame potesse esserci tra le due espressioni numeriche, inventandoci di tutto, da teoremi a regole matematiche assurde, pur di far coincidere le due cose. Regole che, tuttavia, sarebbero dovute essere almeno in parte fondate, anche se non lo erano affatto in realtà. Talvolta, Jonouchi tentava di spiegare a voci passaggi articolati e senza senso matematico che, alla fine, non portavano ad alcun risultato apprezzabile, secondo me, e al risultato giusto, secondo lui. Tuttavia, dopo una giornata – più precisamente il pomeriggio prima del tanto rinomato compito – di studio no stop – tranne per una pausa merenda e per una pausa tris sul mio quaderno – non risolvemmo niente, e mi ritrovai con una bella mediocrità.
Sbattei gli occhi, intontito, quando la voce del professore mi arrivò alle orecchie. Ebbene, avevo appena fatto ciò che mi ero ripromesso di non fare: distrarmi, viaggiare tra le nuvole e perdermi, di conseguenza, dieci minuti buoni di spiegazione. Santa pazienza: dato che mi mancava la maggior parte delle nozioni in quella disciplina, di certo una cosa in più o una cosa in meno non avrebbe fatto differenza.
Mi misi in ascolto, cercando finalmente di concentrarmi. Jonouchi, al mio fianco, sbatteva a ritmo le palpebre, perplesso. A quanto pareva, anche quel giorno sarebbe stata la solita solfa, un momento di soporifera non comprensione.

Jonouchi sbadigliò. «E’ una fortuna avere educazione fisica adesso, dopo quella straziante lezione» disse poi, strofinandosi gli occhi.
Amico mio, sarà una fortuna per te! Quasi quasi preferisco non capirci niente e star a sentire il professor Mahad per un’altra ora, piuttosto che fare giri di corsa intorno alla scuola. Senza contare che fare giri intorno alla scuola implica la probabile presenza di qualcuno, e la probabile presenza di qualcuno comporta possibili botte sul naso per me.
Sì, non sarei stato da solo, ma una classe intera mi avrebbe fatto compagnia, e almeno i miei amici mi avrebbero difeso nella malaugurata sorte che qualche bullo grande, grosso e cattivo, di cui sopra, avesse tentato di mirare alla mia salute in qualche maniera. Tuttavia, non credevo più alla frase “quando tocchi il fondo puoi solo risalire”, perciò poteva pur sempre esserci qualcuno disposto a mettermi i piedi in testa e a spingermi sempre più giù, verso quel fondo. Ero un po’ sfigato, me ne ero reso conto da solo, e temevo questa mia condizione, dunque, tanto valeva essere costantemente preparati al peggio.
«Yugi!» La voce di Mana mi trillò nelle orecchie, acuta come solo il suono della prima – e odiata – campanella annunciante l’inizio delle lezioni poteva essere, e vista la sua intensità supposi che non fosse la prima volta che mi chiamasse. Difatti, quando mi girai, la vidi appoggiata allo stipite della porta, che mi guardava incuriosita. «Non vieni?»
Annuii impacciato, conscio di essermi – nuovamente – estraniato dalla realtà per inserirmi in un mio personalissimo film mentale, che aveva solo me e i bulli come protagonisti. Fantastico, ero sfigato anche nei film di mia stessa fantasia mentale!
«Talvolta mi piacerebbe sapere cosa ti frulla in quella testa.» Malik scosse e il capo e si dileguò, seguito da Mana che mi afferrò col braccio e mi trascinò a forza dietro di sé, costringendomi ad aumentare il passo.
«Lentone, Yugi, lentone, così non va bene! Un, due, tre, hop! Un, due, tre, hop!» ordinò, cominciando a marciare, il mio polso sempre stretto – troppo stretto, passava a malapena il sangue! – tra le sue dita. «Ed è solo il riscaldamento! Poi ti allenerò io, giù! Vedrai, in un paio di sedute, magari anche extrascolastiche, a un prezzo vantaggioso, farai invidia ai palestrati più palestrati, se ti atterrai ai miei programmi!»
Tremai alla vista di quella scintilla folle che le attraversò gli occhi verdi. «Sedute e-extrascolastiche? Prezzo vantaggioso? Pr-programmi?» balbettai intimorito. «Che storia è questa?»
Ghignò – in realtà rise, ma a me parve un ghigno bell’e buono. «Farò di te un uomo!» Respirò profondamente. «E sarai veloce com’è veloce il vento!» cantò.
Sì, quando avrei dovuto scappare dal cattivone di turno.
«Un uomo vero senza timore!»
L’immagine di me stesso contro un armadio vivente mi suggerì che quanto detto da Mana fosse impossibile. Anche perché, sempre nella mia visione, finivo spiaccicato a terra con un dente rotto. Un solo dente perché avevo preferito non immaginare altro.
«Potente come un vulcano attivo!»
La stessa immagine mi portò a cambiare la canzoncina in “inerme contro un vulcano attivo”, che suonava anche bene.
«Quell’uomo sarai che ad-»
«Vuoi smetterla?» Fu Malik a parlare, ma qualcosa – le facce accigliate della maggior parte dei miei compagni di classe, forse? – mi disse che lui si era solo fatto portavoce di qualcosa che pensavano tutti. Tranne Jonouchi, a quanto pareva, visto che, per accompagnare Mana, si era improvvisato coro, ripetendo sistematicamente un “e sarai” di sottofondo a ogni inizio strofa.
Io arrossii per l’imbarazzo, ma Mana si limitò a sbottare un annoiato: «Mi hanno rovinato il finale!»

Avevamo cominciato appena a correre intorno al tanto odiato edificio quando vidi Anzu, mia stessa età ma sezione diversa, in compagnia di Miho. Anzu, insieme a Honda – che però ci concedeva la sua presenza durante l’intervallo –, era capitata in una sezione diversa dalla nostra – mia e di Jonouchi – quell’anno. La cosa mi aveva rattristato sulle prime, e non solo perché il nostro inseparabile gruppetto era stato diviso, ma anche perché, beh… insomma, cioè, dunque, lei mi piaceva! Era mia amica da sempre, e pian piano, come spesso accadeva agli amici, mi ero preso una bella cotta. Meglio tralasciare sul fatto che lei pareva avere occhi soltanto per mio fratello…
«Soldato, che hai?» domandò Mana, ancora convinta, forse, di essere il capitano Shang. «Ti vedo abbattuto!»
Scossi la testa e sorrisi per rassicurarla. «Va tutto bene, Mana.»
Quando rialzai lo sguardo, mi accorsi che Anzu mi stava guardando. E guardava proprio me, sì, sì! Divenni rossissimo e accennai a un saluto cordiale con la mano.
«Ecco qual è il problema» azzardò Mana, ilare.
«E già, il problema è che Anzu Masaki ha gli occhi sbrilluccicanti soltanto per Atem» puntualizzò Malik, veritiero, interrompendo di botto la sua corsa, mi sembrò, per guardarsi un’unghia. Jonouchi, che gli era dietro, gli sbatté contro.
«Ma che diamine…» borbottò. «Perché ti sei fermato all’improvviso?»
«Perché io posso.» Fu la semplice e poco chiara risposta di Malik.
Fortunatamente, il mio problema passò in secondo piano.
Sembrava impossibile, ma erano trascorsi altri trenta minuti e tutto era andato per il meglio. Tranquillità, silenzio assoluto se non i respiri affannati di chi, come me, era a un passo dalla morte per sfiatamento. Un’ora quasi passata nella più completa normalità.
Sembrava…
«Yuuuuuugi!»
Qualcuno mi chiamava, qualcuno dall’alto… probabilmente ero davvero morto! Forse si trattava di un angelo che mi invitava a sé, sottraendomi da un’esistenza terrena a tratti dolorosa e, potevo ammetterlo, a tratti felice. Alzai lo sguardo.
Ero allibito.
Ci avevo visto giusto! Beh, non vedevo nulla se non una fortissima luce accecante, però dovevo averci azzeccato! Ricordai di quel “se vedi una luce bianca, non seguirla” che una volta mi aveva detto Atem, giustificandosi con “potrei non avere altre occasioni per dirtelo, nella vita non si sai mai!”. E no, quando studiava tutto il giorno era meglio non interpellarlo, che vaneggiava.
«Attento, Yugi, c’è l’al-»
Troppo tardi.
«-bero» concluse la voce.
Mi trovai spiaccicato contro il tronco, la testa tra le nuvole e tante e tante stelline che mi giravano intorno. Mi ci volle qualche secondo, nonché qualche schiaffone di Mana che mi lasciò la guancia rossa, per riprendermi parzialmente e chiedermi, senza però rispondermi, come avessi fatto a finire “fuori strada” a uno degli ultimi giri.
Ero sfigato, e me ne ero accorto da tempo, ormai.
«Otouto, come stai?»
Alzai nuovamente lo sguardo, stavolta senza muovermi, e vidi che, affacciato alla finestra, c’era Atem con un’espressione preoccupata. O almeno sembrava, non avevo ancora ripreso l’uso della vista, non totalmente. Capii anche che la luce altro non era che il Sole.
In risposta alzai il braccio e lo sventolai, a testimonianza che ero vivo. «N-nii-san, c’è qualcosa che volevi dirmi?» chiesi poi, avendo compreso la fonte della voce.
Lui ci pensò su. Storse il labbro, riflettendo, infine scosse il capo. «Naaah, volevo solo salutarti» rispose con noncuranza.
Non seppi che dire, anche perché, seppure avessi voluto, avrei dovuto trovare il modo di sovrapporre la mia voce agli urletti gioiosi e civettuoli di tante ragazze che, al solo “Naaah, volevo solo salutarti” di mio fratello, erano state vicine a una crisi esistenziale che le avrebbe portate a strapparsi tutti i capelli da testa. Tutte ammiratrici.
Alla finestra, intravidi anche la figura di Bakura, che pareva, senza esagerazioni, voler addirittura spingere giù, dal secondo piano, il mio nii-san, desideroso di vederlo spappolato a terra. Ma no, tutte suggestioni! Bakura non poteva essere così cattivo!
Atem mi salutò con un sorriso che ricambiai. Era semplicemente stupendo non necessitare di parole per capirsi. Nessun altro legame avrebbe potuto essere così. Mai.
Fui distratto da una discussione alle mie spalle.
«Hai distolto lo sguardo, prima!» accusò Jonouchi, sardonico. «Bakura ti ha guardato e tu hai distolto lo sguardo, ammettilo!»
Malik alzò le spalle e fece l’indifferente, ma una leggera colorazione rossastra si era fatta strada sul suo volto ed era stata visibile finché Malik non ci aveva mostrato le spalle, parlottando tra sé e sé e dando del visionario a Jonouchi.

«Allora ci vediamo domani!» Mana mi salutò con un bacio sulla guancia, e così fece anche con Jonouchi. Poi andò via saltellando.
«E tu non aspetti Seto?» chiesi a Jonouchi prima che si dileguasse.
Lui alzò le spalle, ma non si voltò. «Oh sì, giusto, lo avevo scordato!» mentì. Rise, e ne fui contagiato.
Sobbalzai quando una mano si posò sulla mia testa. «Andiamo, otouto?»
«Nii-san!» esclamai sorpreso. Adocchiai, a qualche passo da me, Seto che porgeva il suo zaino a Jonouchi, probabilmente per farselo portare fino a casa, e constatai che il mio amico che non era molto d’accordo.
«Che duo comico» osservò Atem. «Comunque, a Jonouchi tocca portarglielo. Seto ha rinunciato a un comodo posto in limousine per tornare a casa con lui.»
Ridacchiai.
Stavamo per andarcene quando una voce alle mia spalle mi chiamò. Non ebbi paura – anche perché ne riconobbi subito la proprietaria –, e in ogni caso, con il mio nii-san vicino, non avrei mai potuto averne.
«Ciao Yugi!» Era Anzu. «A-Atem» salutò.
Sentii una stilettata al cuore; era sempre così, ogni volta. Mi domandai se mi sarei mai abituato a quella situazione.
«Anzu, facciamo un tratto di strada insieme?» domandai, non sapendo proprio cosa dire, troppo imbarazzato anche soltanto per respirare.
Scosse la testa. «Non vado a casa mia, oggi. Magari domani!» sorrise. «Volevo solo salutarti e…» indugiò e si fermò a fissare Atem per un istante «e volevo sapere come stavi. Ti ho visto fuori, oggi. Hai preso una bella botta.»
Fantastico, la ragazza di cui mi ero invaghito mi aveva anche visto in un momento di “intimo contatto” col tronco dell’albero della scuola. Fantastico, sì.
«Non temere, è tutto okay!» risi nervoso.
«Meno male allora! Va bene, a domani!» salutò.
Annuii distratto, tutto perso a pensarla, e sventolai la mano come un babbeo. E sarei rimasto lì, fermo, nel mio mondo tutto rose e fiori, a fantasticare, se Atem non mi avesse trascinato con sé.
Per tutto il cammino verso casa stette in silenzio, e un po’ me ne preoccupai. Insomma, che aveva il mio nii-san? Quand’era uscito da scuola pareva… normale?
Non sopportai a lungo quella situazione, e avrei chiesto subito spiegazioni se non fosse stato lo stesso Atem a darmele in anticipo, esattamente prima che entrassimo in casa.
«Yugi, lascia perdere Anzu.» Era terribilmente serio, come non lo avevo mai visto. Non mi spaventò, ma mi fece uno strano effetto.
Poi, d’un tratto, capii ciò che Atem veramente voleva dirmi. Come avevo fatto a non pensarci? Mi sentii un idiota.
«Nii-san, scusami, non avevo pensato che tu…»
«Lasciami indovinare, volevi dire che “tu l’amassi”?» chiese teatrale.
Sembrò attendere una mia risposta, ma io non fiatai. Sentivo il cuore battere forte, e temevo che mi dicesse che provava un qualche sentimento verso Anzu e che c’avevo visto giusto. Pensai a ipotetiche lotte fratricide per una ragazza, ma scartai subito l’idea – proprio io, poi, che odiavo la violenza? E proprio col mio nii-san?
Dopo un po’ mi stancai. «Nii-san, allora puoi spiegarmi il perché della tua affermazione?»
I suoi lineamenti tesi si rilassarono a poco a poco, finché le labbra non si pronunciarono in avanti e gli occhi non si appartarono in basso, quasi a volermi evitare. Divenne rosso. Con un gesto rapido, allungò le braccia e mi strinse a sé.
Atem, imbronciato come un bambino, intenzionato a stringermi fino a farmi mancare l’aria, incurante che Anzu voleva lui e non me, mi disse: «Sono geloso, tu sei il mio otouto. Ti spupazza troppo, e posso farlo solo io.»









 









TADAN!!!
Dovevo dormire, e invece ho pensato bene – male! – di concludere questo primo capitolo! *^*
In realtà, non volevo pubblicarlo! (ù////ù), ma quando l’ho finito mi è piaciuto talmente tanto (COSA RARA! +-----+) che ho voluto sottoporlo subito al giudizio altrui! *^*
Spero proprio che vi piaccia, ne sarei contenta, davvero! ^////^
Alcune cose da puntualizzare, sperando che, vista l’ora (1:16), non mi sfugga nulla.
La cosa più importante è che l’idea di Mahad maestro e Mana allieva deriva da una fic di Shade! U__U (ti ringrazio ancora per avermi permesso di utilizzare la tua idea <3) Falling [in love].
Poi, ovviamente la canzone cantata da Mana è “Farò di te un uomo” (Mulan) ( Il bronzeo addormentato nel bosco di Soe mi ha ispirata per questa parte con la canzone, e la ringrazio <3).
Miho è un personaggio che, se non erro, compare solo nella serie 0, i primi numeri del manga.
Non sono sicura di Malik e non lo sarò mai. Se c’è puzza di OOC, io sto qua e metto la nota! ù-ù
Per Bakura, più avanti, sarà lo stesso.
Beh, che dire, questo è tutto! ^-----^


Grazie mille per l’attenzione!

P.S. E’ il capitolo di una long più lungo che abbia mai scritto! Cx

   
 
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