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Autore: braver than nana    01/03/2012    5 recensioni
{ Larry Stylinson is how i call the love - AU poliziesca }
Il sangue, così come gli si era congelato, si sciolse. Il ragazzo, che non poteva avere più di diciotto anni, lo aveva guardato e lui si era perso. Il volto, contornato da boccoli castani, sembrava quello di angelo, gli occhi grandi e verdi lo osservavano divertito mentre l’avvocato al suo fianco gli stava sussurrando ancora qualcosa, e quando gli sorrise due fossette si formarono agli angoli delle labbra carnose e rosse. Era una strana fottutissima versione perversa e maschile di Biancaneve.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Bulletproof

I’m bulletproof nothing to lose. Fire away, fire away

Aveva fatto un sogno strano quella notte e anche se non ricordava bene di cosa trattasse, gli aveva lasciato una brutta sensazione per tutta la mattina. Aveva preso due caffè, uno appena sveglio, ancora tiepido da quando il suo coinquilino era uscito, e uno nel bar a pochi passi dalla prigione. In quel posto ormai lo conoscevano bene, erano ormai tre anni che gli anziani proprietari lo vedevano passare tutti i giorni e ormai era come se lo avessero adottato. Quel giorno era entrato cercando di mostrare il suo solito sorriso ma Marge, da dietro il bancone, lo aveva guardato con un’espressione preoccupata e gli aveva regalato uno di quei zuccherini che teneva sempre vicino alla macchinetta del caffè perché, aveva detto lei, aveva una faccia di uno che ha visto un fantasma. Lui gli aveva sorriso e la aveva ringraziata prendendo anche una brioche alla crema.

La prigione di Isis, a guardarla da fuori, non assomigliava propriamente ad una prigione. Le mura bianche e gli alberi rigogliosi, dei quali il guardiano Tom si prendeva tanta cura, lo rendevano un posto vivibile. Quando parcheggiò il suo povero motorino scassato all’angolo della strada guardò a lungo l’edificio e prese un lungo respiro, aveva la sensazione che sarebbe successo qualcosa ma infondo era un poliziotto e quindi non doveva preoccuparsi di certe cose. Le brutte cose capitano sempre in posti come quelli.

Guardò l’orologio che segnava le otto meno cinque e lasciò il casco nel sellino della moto per poi recuperare il suo cappello. Ecco, quella era un’altra cosa che odiava del suo lavoro, quel cappello era la rovina della sua bellissima pettinatura. Si sistemò dunque i capelli alla meno peggio, cercando di non nascondere il bellissimo ciuffo che era riuscito a sistemare quella mattina, e provò a non fare ricadere quel poco di frangia sugli occhi azzurri. Era pronto per un’altra giornata.

Quando varcò la soglia, il suo superiore, lo guardò male nonostante fosse arrivato con qualche minuto di anticipo. Quella donna, inutile negarlo, lo aveva preso in antipatia dal primo secondo e niente era ancora riuscito a farle cambiare idea. Lui arrivava in orario, era un bravo secondino, nel suo turno non era mai evaso nessuno – non evadeva nessuno da quel posto da secoli, effettivamente – e c’era stata solo qualche rissa che era stato capace di sedare quasi subito. Eppure lei non lo poteva sopportare, si capiva dal modo in cui lo guardava, con quell’espressione di superiorità sul volto lievemente truccato dai lineamenti duri. L’aveva sentita parlare di lui, una volta, e da quello che aveva capito lei lo riteneva troppo buono, il suo carattere non era adatto a quel genere di lavoro e che se ne avesse avuto l’occasione avrebbe avuto anche il coraggio di affezionarsi – ricordava ancora il tono disgustato con cui aveva pronunciato quelle parole – a qualche detenuto.

Louis, sentendola, non si era affatto sentito offeso. I ragazzi che si trovavano in quel posto, anche se avevano commesso dei crimini più  o meno gravi, erano comunque delle persone e quindi sì, se ne avesse avuto l’opportunità avrebbe anche potuto.

«Non metterti comodo Tomlinson, stamattina devi sostituire Carson.» aveva detto con voce annoiata alzandosi dalla sedia sulla quale stava appoggiata. Si era avvicinata alla sua postazione e lo aveva guardato dritto negli occhi, come a sfidarlo.

«Carson della sezione di massima sicurezza?»

«No, quello del panificio a qualche isolato da qui. Ti sembrano domande da fare? Alza quel culo e vai al secondo piano, oggi arriva uno nuovo dal carcere di Feltham e da quello che dice la sua scheda non è un tipo facile.»

Sospirò distogliendo lo sguardo e si alzò in piedi e, dopo averla salutata come gli avevano insegnato all’accademia, aveva preso le sue cose ed era andato verso le scale. L’ascensore, in quel posto non aveva mai funzionato e visto che nessuno si premurava di chiamare un tecnico forse non avrebbe mai ripreso a funzionare. Forse, la cattiva sensazione di quella mattina era legata a quel cambiamento. A lui, i cambiamenti, non erano mai piaciuti. Era un tipo abitudinario, con le sue routine e i suoi orari sballati – la sveglia alle sette per potersi alzare con almeno quei cinque minuti di ritardo, il caffè tiepido, la corsa da Abbey Wood fino a Thamesmed per la chiacchierata con Marge e Bill –, e di certo muoversi dal suo solito lavoro da scrivania alla sorveglianza di chissà quale ragazzino psicopatico da massima sicurezza era una bella svolta.

Non capiva perché aveva deciso di mandare lui, infondo c’erano altri quattro agenti in servizio, ma non aveva senso lamentarsi. Quando bussò al gabbiotto che precedeva la sezione alla quale era stato mandato un signore con dei grossi baffoni che non ricordava di aver mai visto lo guardò male ma quando gli disse il suo nome annuì e, senza neanche dire una parola, aprì il cancelletto con un bottone.

La sezione di massima sicurezza, doveva ammetterlo, non era molto diversa dal piano inferiore. I muri erano sempre di quel bianco sporco che faceva male agli occhi, le celle di media grandezza disposte una di fianco all’altra erano mezze vuote e i ragazzi che le riempivano a quell’ora ancora dormicchiavano sulla brandina quindi c’era il solito silenzio innaturale che trovava alle otto e quarto di mattina.

«Tomlinson, finalmente sei arrivato.»

Una voce lo fece trasalire e un ragazzino, che fino a un momento prima dormiva come un angioletto, aveva aperto gli occhi e si era buttato contro la porta di metallo della sua stanza, guardandolo con gli occhi rossi dal sonno e dal pianto. Provò a non guardarlo a lungo e si diresse verso l’uomo che lo aveva chiamato. Il comandante Tyler, con la sua pancia gonfia di birra e la testa quasi pelata, era appoggiato alla porta a specchi alla fine del corridoio e sbatteva un piede sul pavimento freddo.

Là dentro, quel tizio, era l’unica persona sua superiore, che gli piaceva. Aveva origini americane e gli piaceva il suo accento di Boston, inoltre era uno dei pochi ai quali non piaceva giocare con le persone che dovevano vivere là dentro e aveva rispetto, per tutti.

«Il ragazzo è già arrivato.»

Lui annuì e lo seguì fino a una stanza che non aveva mai visto. Sembrava essere spuntata da uno di quei polizieschi di bassa lega e l’odore che c’era in quel posto, come di muffa e troppo detersivo per pavimenti, non gli piaceva per nulla. Al centro della stanza c’era un tavolo rettangolare lucido e intorno alcune sedie sul quale erano sedute delle persone del quale vedeva solo la schiena.

Un uomo con una giacca dall’aspetto costoso era chinato verso un’altra figura che, per certo, doveva essere quello nuovo. Aveva già indosso la divisa arancione del carcere e una cascata di riccioli castani troppo lunghi per sembrare quelli di un ragazzo, gli cadevano sulle spalle.

«Voglio che stai dentro con loro. Presto arriverà un pezzo grosso, uno dei piani alti, perché devono ancora condannarlo, con delinquente là.»

«Che ha fatto?» gli venne spontaneo da dire, mentre si sistemava ancora una volta il cappello sulla testa.

«L’accusa è di assassinio. Dicono abbia ucciso suo padre.»

Il sangue, improvvisamente, gli si era gelato nelle vene. Come faceva un ragazzino ad aver fatto una cosa del genere? Magari però, pensò mentre apriva la porta che collegava il corridoio nel quale stava parlando con il comandante alla stanzetta, visto che non l’hanno ancora condannato, non è stato lui.

Lasciò la maniglia fredda che aveva stretto mentre entrava e le due persone si giravano a guardarlo.

Il sangue, così come gli si era congelato, si sciolse. Il ragazzo, che non poteva avere più di diciotto anni, lo aveva guardato e lui si era perso. Il volto, contornato da boccoli castani, sembrava quello di angelo, gli occhi grandi e verdi lo osservavano divertito mentre l’avvocato al suo fianco gli stava sussurrando ancora qualcosa, e quando gli sorrise due fossette si formarono agli angoli delle labbra carnose e rosse. Era una strana fottutissima versione perversa e maschile di Biancaneve.

Il comandante, alle sue spalle, disse qualcosa con la sua solita voce autoritaria e poi uscì, lasciandosi il tonfo della porta che si chiudeva. Si sistemò al posto che sapeva doveva prendere e rimase fermo per chissà quanto tempo a fissare quel ragazzo che a quanto pare, nonostante dovesse affrontare ancora processo e chissà quale condanna, non aveva altro da fare che ricambiare il suo sguardo. Aveva un’aria fin troppo tranquilla e gli occhi allegri, così allegri che gli provocarono un brivido dietro la schiena perché, dietro tutta quella spensieratezza, riusciva a leggerci una freddezza calcolata fuori dal comune.

Sentì l’avvocato – al quale non aveva rivolto neanche uno sguardo – alzarsi dalla sedia e dire qualcosa che assomigliava vagamente ad un mi prendo un caffè, e semplicemente sparì dal suo raggio di osservazione.

«Come ti chiami?»

Quelle tre parole, pronunciate con un bell’accento del Cheshire, arrivarono lente alla sua mente e quando si rese conto che il ragazzino aveva alzato un sopracciglio aspettandosi una risposta, arrossì leggermente e cercò di riprendersi dallo stato di trance nel quale era caduto. Dio, se avesse provato a scappare nei minuti in cui era stato impalato come un imbecille a fissarlo non avrebbe potuto neanche muovere un muscolo per fermarlo, che razza di poliziotto era!

«Tomlinson.»

«Tomlinson non è un nome. Harry è un nome, il mio nome.»

Aveva una bella voce, pensò mentre vedeva quelle belle labbra muoversi, ma di sicuro gli piaceva di più guardarlo mentre parlava che ascoltarlo. Il suo viso si muoveva tutto, le guance piene e rosate di un tipico ragazzo di buona famiglia si gonfiavano e sgonfiavano ad ogni parola, le sopracciglia seguivano ogni movimento e, ogni tanto, il naso si arricciava tra un respiro e l’altro.

«Louis Tomlinson.» rispose, tenendo le mani ferme dietro la schiena dritta e il mento dritto. Non poteva muoversi, se si fosse mosso lo avrebbe fatto per avvicinarsi e guardarlo da più vicino e non poteva. Avrebbe voluto vedere di che colore erano veramente quegli occhi che sembravano cambiare a seconda della luce o dell’espressione che assumeva, magari dai pensieri che stava facendo. Avrebbe voluto sentire l’odore della sua pelle, tra il collo e l’attacco della spalla, sulla clavicola lasciata scoperta dalla tuta troppo grande, avrebbe voluto tastarne la consistenza. Di sicuro sapeva di sapone e qualcosa di dolce, come lo zucchero a velo, e doveva essere liscia e calda.

«Mi piace.»

Poi, la lingua di quel ragazzino, era guizzata fuori dalle labbra per mezzo secondo, leccando poco l’angolo della bocca ed era tornata dietro a quel sorriso così fintamente genuino. Sembrava così innocente eppure, ogni movimento, sembravano provocarlo come mai niente lo aveva provocato in vita sua.

Doveva essere quello, doveva essere stata colpa sua se quella mattina si era svegliato di cattivo umore. Il suo karma gli stava dicendo di restare a casa perché, una volta arrivato a lavoro, avrebbe incontrato quel demonio travestito da angelo in tuta arancione che stranamente gli stava quasi bene. Se lo immaginò per un secondo con dei vestiti normali – un paio di jeans, una maglia colorata, magari una giacca per farlo sembrare ancora di più un ragazzino per bene – e capì che non avrebbe dovuto farlo perché ora nella sua testa stavano vorticando immagini di una persona vera.

Immaginò come sarebbe stato incontrarlo per strada, alla fermata della metropolitana, o a Hyde Park. Ci avrebbe provato subito, ne era certo, e magari avrebbe anche potuto avere un’occasione visto il modo in cui si sentiva osservato.

«Sai, ho ucciso mio padre.» disse all’improvviso e quello, anche se si era ripromesso di non cedere, fu l’esatto momento in cui perse ogni capacità di restare calmo. Lo fissò con la bocca aperta per qualche istante, provando a balbettare qualcosa di sensato ma l’unica cosa che riuscì a dire fu un Perché? sussurrato con la poca voce che gli era rimasta.

«Perché aveva deciso che, visto che sono gay, non potevo più vivere sotto il loro stesso tetto. Perché visto che sono un deviato aveva deciso di farmi tornare sulla retta via. Era un bravo cattolico, sai? Allora, quando stava per profanare il mio povero culetto frocio, gli ho piantato il coltello dell’arrosto nel petto. Sedici volte ha detto l’autopsia, ma io non mi sono messo a contarle in quel momento, sai com’è, l’adrenalina non ti fa pensare più di tanto.»

Sentiva la bocca così secca che, se provava a deglutire, poteva sentire un dolore acuto lungo tutta al gola. Era da quando era entrato in quella stanza, anzi no, da quando si era svegliato dopo quel sogno su una strana sparatoria a pochi metri da Piccadilly Circus, che si sentiva come esposto. Come se stesse per andare in avanscoperta in qualche strana missione suicida, senza neanche un misero giubbotto antiproiettile. Ma mentre Harry parlava, mentre raccontava di come aveva ucciso, si era sentito nudo. Vulnerabile.

Quel ragazzo parlava, la sua bella voce cristallina riempiva la stanza, e le sue ginocchia tremavano. Facendo quel lavoro ne aveva conosciute di persone che avevano fatto cose brutte, c’erano stati assassini, ladri, stupratori, ma quel ragazzo era qualcosa al di sopra. I suoi occhi così belli erano distanti ma non arrabbiati, come se stesse ricordando qualcosa vista in televisione, che non lo toccava assolutamente.

«Pensavo, se ti avessi incontrato in altro posto, avrei voluto conoscerti comunque. Mi piaci, avrei voluto essere il tuo ragazzo perché hai la faccia buona. Mi piacciono i tuoi occhi, sono azzurri, e mi piace il tuo sorriso. Invece adesso andrò in prigione, ma ogni tanto magari mi vieni a trovare.»

Gli fece l’occhiolino e poi la porta si aprì. L’avvocato odorava del brutto caffè che facevano alla macchinetta del piano terra e, come se gli avessero tirato uno schiaffo, lo riportò bruscamente alla realtà. Si rimise nella posizione in cui sarebbe dovuto stare tutto il tempo – invece di ingobbirsi alle parole del riccio, come per incassare meglio quello che gli stava dicendo – e provò a non guardarlo più anche se ogni tanto, mentre i due discutevano, non resisteva nel buttare un’occhiata. Harry non lo guardava più e non sorrideva.

Era stato colpito. Sentiva la sensazione del sangue vischioso che gli scendeva fino a dentro i pensieri, era stato colpito ed affondato. Tutta la vita aveva vissuto con la convinzione di essere inattaccabile, un ragazzo allegro e per le sue, che viveva senza nessuna pretesa indossando il suo giubbotto anti-sentimenti che lo aveva sempre protetto.

Adesso era a terra, sanguinante, per colpa di un ragazzino. E sperò, mentre stringeva le mani fino a ficcarsi le unghie dentro la carne, che quel signore con la giacca dall’aria costosa e senza volto fosse l’avvocato più bravo del paese. Dovevano scagionarlo, non era colpa sua, era legittima difesa, lo aveva studiato alle superiori quando per caso era entrato in quell’aula di diritto mentre cercava di sfuggire da geometria.

Così poi avrebbe potuto incontrarlo in giro per la città, lo avrebbe portato fuori a cena e gli avrebbe fatto capire cosa voleva dire essere amati. Lo desiderava così tanto. Lo avrebbe fatto ridere e avrebbero litigato perché era troppo bello e le ragazzine lo avrebbero guardato per la strada. Lo avrebbe portato a casa sua cacciando Zayn per lasciargli la stanza da letto buona e gli avrebbe insegnato cosa significava fare l’amore.

Il comandante Tyler, che non si era neanche accorto fosse entrato nella stanza, gli mise una mano sulla spalla e gli disse di scendere, lì aveva finito. Lo guardò con un’espressione spenta e si girò a per dare un’ultima occhiata a quel futuro che gli si era improvvisamente palesato davanti e che qualcuno gli stava già strappando dalle mani.

«Ciao Louis.» disse quello cercando i suoi occhi. Si guardarono e poi uscì dalla sua vita.

Fine.

Solo io penso che tutto questo non ha un senso? Purtroppo Harry in tuta arancione mi si è palesato davanti mentre su twitter cercavo un’idea per una storia “originale” e non voleva andarsene più. Credo che Boo sia fuori carattere, ma che ci posso fare, non sono riuscita a renderlo meglio in questa situazione. Sappiate che io lo trovo molto sexy in uniforme e che mi ha fatto molta tenerezza scrivere di lui in questa situazione. Giusto per dare alcune informazioni, la prigione che ho descritto esiste veramente, anche tutti gli altri posti sono realmente esistenti in quel di Londra. Naturalmente non so come funziona veramente tutto il sistema giudiziario/penitenziario dell’Inghilterra quindi ho bellamente inventato. Scappo a teatro.

Spero vi sia piaciuto comunque : )

Peace and Stylinson, Nana.

   
 
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